Da dove origina e dove rischia di condurci la crisi che da sei anni affligge i principali paesi sviluppati? Che cosa accadrà dell'Europa e dell'euro? Pubblichiamo l'introduzione dell'ultimo libro di Marcello De Cecco, Ma che cos'è questa crisi, edito da Donzelli
La crisi affligge da sei anni i principali paesi sviluppati. Essa ha colpito il cuore dell’economia mondiale dopo avere investito, nel 1997-98, i paesi emergenti, specie quelli asiatici. Ora, secondo tradizione, pare voler abbracciare nella sua stretta mortale anche loro, che nell’attuale convulsione sembravano essere stati risparmiati e mostrare anzi un’invidiabile capacità di crescere e prosperare, malgrado le traversie del centro.
Da questa enorme convulsione l’economia ma anche gli assetti politici mondiali usciranno completamente cambiati. Non sappiamo cosa accadrà dell’Europa e dell’euro e nemmeno sappiamo quanto del cosiddetto modello europeo di organizzazione economica e politica sopravvivrà. Sappiamo che gli equilibri mondiali ne usciranno profondamente mutati, con l’ascesa che sembra inarrestabile della Cina e con il certo declino relativo dei paesi del centro: Europa, Stati Uniti e Giappone.
Che una grande crisi si stesse scatenando si poteva prevedere certamente nel 2007. Affermai che eravamo alla vigilia di un enorme sommovimento mondiale, nel maggio di quell’anno, a conclusione di una lezione che tenni all’Università di Waterloo, in Canada. C’era già stata qualche avvisaglia nelle difficoltà annunciate in febbraio da un paio di istituzioni finanziarie americane, che dichiaravano di avere problemi nel settore dei mutui subprime, una categoria della quale tutti sarebbero venuti a conoscenza di lì a qualche mese, ma che suonava ancora assolutamente sconosciuta ai non addetti ai lavori e anche a parecchi degli addetti.
Nella mia lezione canadese feci notare come la situazione odierna avesse molte analogie con quella degli anni che precedettero la prima guerra mondiale. Allora la sterlina era la moneta internazionale, di un sistema che si basava ancora sull’oro. Ma la Gran Bretagna era un paese in declino. Le due superpotenze emergenti erano Stati Uniti e Germania, sebbene nessuno dei due ambisse a rimpiazzare la sterlina con la propria moneta come centro del sistema monetario internazionale. Ambizione che invece nutriva la Francia, la quale, nei suoi tentativi di sostituire il franco alla sterlina, dava instabilità al sistema, talvolta di proposito (nel periodo 1907-14 ci furono numerosi episodi che videro la Francia rimpatriare fondi dalla Germania per motivi politici, forzando quest’ultima a procurarsi l’oro e a impedirne l’uscita). Il dollaro sarebbe divenuto la moneta mondiale solo dopo la fine del secondo conflitto mondiale.
Nei primi quarant’anni del XX secolo, quindi, il sistema monetario internazionale era divenuto policentrico, il che ne accentuava l’instabilità e favoriva anche lo sviluppo di mercati e transazioni finanziarie basati sull’arbitraggio e la speculazione. In quei decenni si vide pure la fioritura di «innovazioni finanziarie» in parte basate su effettive innovazioni tecnologiche, come i cavi telefonici transoceanici e la radio, ma per la maggior parte frutto di invenzioni che avevano lo scopo di favorire la speculazione e aggirare i controlli finanziari e quelli fiscali.
Quella presente è una crisi che viene da lontano, certamente dai primi anni novanta, e che porta la firma delle autorità economiche e della grande finanza degli Stati Uniti. Anche gli europei e i cinesi ne hanno in qualche misura la responsabilità. Ma la massima colpa va addossata certamente alla determinazione americana di finanziare le proprie guerre al costo minore possibile in termini di interessi sul debito pubblico, tramite una politica monetaria estremamente espansiva e la dinamica abnorme delle istituzioni finanziarie private che essa permette, per non sopportare penose misure correttive di quella particolare gestione economica e politica. I comportamenti americani sono indotti anche dalla necessità di regolare l’economia privata per prolungare le fasi di crescita e di massima occupazione, cercando di contrastare i cicli che si formano nel sistema produttivo. Essi creano gli enormi deficit nei conti esteri degli Stati Uniti, cui corrispondono gli altrettanto grandi surplus nei conti esteri di paesi come quelli europei, la Cina e i paesi emergenti, le cui economie sono trainate in misura crescente dalle esportazioni. Anche questi paesi dividono la responsabilità della crisi con gli Stati Uniti, ma la vera variabile indipendente del sistema restano i comportamenti americani, che inducono tutti gli altri.
La crisi attuale è squisitamente finanziaria. La crescita abnorme delle sovrastrutture bancarie e delle altre istituzioni e mercati finanziari è assai difficile da sottovalutare, tanto essa è stata chiara, specie negli Stati Uniti ma anche altrove, a partire dai primi anni novanta. Era una tendenza assai presente anche nei decenni precedenti, ma negli ultimi due il settore finanziario è divenuto in tutti i paesi, specie quelli del centro, il Primum Mobile dell’intera economia, dotato di energia e volontà indipendenti e capace di sfruttare meglio degli altri settori tutte le innovazioni, specie nel campo dell’elettronica e delle comunicazioni, che si sono rese disponibili a velocità sempre maggiore.
Quando la crisi è scoppiata, tuttavia, propagandosi dagli Stati Uniti al resto del mondo sviluppato, ma coinvolgendo anche aree che avevano a malapena iniziato un percorso di sviluppo come l’Africa, l’economia reale è stata investita con vero furore, come si rileva dai dati della produzione e dell’occupazione. A risentirne sono stati gli strati meno protetti della popolazione, in particolare la cosiddetta classe media, che è entrata in sofferenza dopo quella dei lavoratori dell’industria, e che deve considerarsi, insieme ad essa, la vera sconfitta dalla crisi. Il guaio è che la classe media è la protagonista del «capitalismo dal volto umano», il capitalismo del welfare pubblico, e la sua nuova debolezza fa presagire quindi tempi di ferro per i rapporti sociali al centro del sistema economico mondiale. La sofferenza della classe media comporta quella dei settori di consumo che dalla sua domanda dipendono, i settori costruiti nell’applicazione del principio delle economie di scala: automobili ed elettrodomestici, ad esempio, mentre vengono esaltate le produzioni dei beni di grande lusso, riservati alla minuta categoria dei ricchi e degli straricchi, che ha visto le proprie sorti addirittura migliorate dalla crisi attuale.
Altra grande vittima della crisi è stata l’integrazione europea, che è chiaramente in ritirata dal 2007, mentre sembrava aver colto, con l’introduzione dell’euro, un successo importante e duraturo. La crisi ha spaccato l’Europa in tre: ci sono i paesi del centro, come Germania, Finlandia, Austria e (seppur pencolante) l’Olanda; c’è poi un’area appena fuori del centro, che comprende essenzialmente la Francia, secondo paese d’Europa; e poi c’è la periferia, una categoria nuova e sofferente, alla quale appartengono Italia, Grecia, Irlanda, Spagna e Portogallo.
Immediatamente prima dello scoppio della crisi, anche per il rifluire del surplus tedesco sotto forma di investimenti nell’area periferica, si era sperato in una maggiore, anziché minore, omogeneità nelle condizioni economiche dell’intera area europea. La crisi ha mandato a fondo tali speranze, costringendo l’Europa a prendere misure di emergenza, secondo il peggiore stile europeo negoziate con mille lungaggini ed esitazioni, e assunte come olio di ricino dai paesi in surplus.
Nelle pagine che seguono, che riproducono alcuni degli articoli da me pubblicati sulla «Repubblica» in questo periodo1, ho cercato di toccare tutti questi temi, poiché essi si sono presentati con una urgenza e una drammaticità cui non eravamo abituati dalla fine della seconda guerra mondiale. Ad essi non si poteva sfuggire. Anche quelli che hanno cercato di farlo, creandosi, come gli economisti ortodossi, un proprio mondo virtuale, lo hanno visto mandato in frantumi dalla crisi e sono dovuti tornare a usare modelli di pensiero meno rarefatti. Ma, ogni volta che il clima dell’economia mondiale sembra indicare il ritorno a un qualche stato di maggior quiete, ecco gli economisti ortodossi tornare verso il loro mondo virtuale, cercando di ricostruirlo. Il che è sommamente pericoloso, perché è stata proprio l’autorevolezza dell’economia ortodossa a suggerire soluzioni errate alle classi dirigenti dei paesi del centro, con drammatiche conseguenze che hanno reso più grave la crisi.
Di fronte al perdurare della crisi più grave degli ultimi centoventi anni, in mancanza di soluzioni innovative suggerite dai teorici agli attori politici, la tendenza più forte sembra purtroppo essere quella a ricorrere a vecchie soluzioni che, a lungo tempo screditate, tornano a un tratto di moda e suggeriscono misure affrettate e pesanti perché prese in ritardo e senza accordo anche tra paesi appartenenti a unioni di Stati, come i paesi europei. Nazionalismo, protezionismo, regolamentazione dei mercati sono i nomi di queste soluzioni. Averle screditate e messe da parte per più di un cinquantennio come se si trattasse di pulsioni peccaminose e indegne di una nuova e superiore organizzazione internazionale è stato colpevole e persino stupido, perché in forma blanda esse dovevano rimanere in voga, persino il nazionalismo, mentre ora ci si trova a prenderle velocemente e in dosi assai maggiori, senza usufruire dei vantaggi che sarebbero derivati da dosi moderate, e correndo in pieno il pericolo di precipitare il mondo intero in un nuovo disordine internazionale con conseguenze economiche e politiche simili a quelle che indussero le due guerre mondiali e il marasma degli anni venti e trenta del Novecento.
La sgradevole sensazione di trovarsi in un periodo di profondo riflusso verso il nazionalismo e il razzismo è difficile da evitare, in Europa così come altrove. Appena liberati dall’autorità sovietica i paesi dell’Europa orientale, ad esempio, si sono dedicati a una vera e propria orgia di nazionalismo, infettando, a causa della loro forzosa integrazione nell’Unione europea, anche i vecchi membri di questa, che ne avevano assai poco bisogno, avendo iniziato un percorso meno esplicito ma altrettanto univoco nella stes- sa direzione.
Una nuova classe politica emergerà dalla necessità di questa netta virata nei paesi che dovranno effettuarla o anche solo subirla. Se dobbiamo basarci sulle esperienze degli ultimi cento anni, le previsioni sono necessariamente nefaste. Come ho detto sopra, stiamo tornando a tempi di ferro, come quelli che i miei coetanei hanno vissuto nella loro infanzia.
(1) Ringrazio il gruppo editoriale L’Espresso per avermi permesso di ripubblicare gli articoli usciti su «la Repubblica».
(Copyright Donzelli)
Il testo pubblicato costituisce l'introduzione dell'ultimo libro dell'economista Marcello De Cecco Ma cos'è questa crisi. L'Italia, l'Europa e la seconda globalizzazione (2007-2013) (Donzelli, 2013 pp. XVI-288, 18,50 euro)
La crisi affligge da sei anni i principali paesi sviluppati. Essa ha colpito il cuore dell’economia mondiale dopo avere investito, nel 1997-98, i paesi emergenti, specie quelli asiatici. Ora, secondo tradizione, pare voler abbracciare nella sua stretta mortale anche loro, che nell’attuale convulsione sembravano essere stati risparmiati e mostrare anzi un’invidiabile capacità di crescere e prosperare, malgrado le traversie del centro.
Da questa enorme convulsione l’economia ma anche gli assetti politici mondiali usciranno completamente cambiati. Non sappiamo cosa accadrà dell’Europa e dell’euro e nemmeno sappiamo quanto del cosiddetto modello europeo di organizzazione economica e politica sopravvivrà. Sappiamo che gli equilibri mondiali ne usciranno profondamente mutati, con l’ascesa che sembra inarrestabile della Cina e con il certo declino relativo dei paesi del centro: Europa, Stati Uniti e Giappone.
Che una grande crisi si stesse scatenando si poteva prevedere certamente nel 2007. Affermai che eravamo alla vigilia di un enorme sommovimento mondiale, nel maggio di quell’anno, a conclusione di una lezione che tenni all’Università di Waterloo, in Canada. C’era già stata qualche avvisaglia nelle difficoltà annunciate in febbraio da un paio di istituzioni finanziarie americane, che dichiaravano di avere problemi nel settore dei mutui subprime, una categoria della quale tutti sarebbero venuti a conoscenza di lì a qualche mese, ma che suonava ancora assolutamente sconosciuta ai non addetti ai lavori e anche a parecchi degli addetti.
Nella mia lezione canadese feci notare come la situazione odierna avesse molte analogie con quella degli anni che precedettero la prima guerra mondiale. Allora la sterlina era la moneta internazionale, di un sistema che si basava ancora sull’oro. Ma la Gran Bretagna era un paese in declino. Le due superpotenze emergenti erano Stati Uniti e Germania, sebbene nessuno dei due ambisse a rimpiazzare la sterlina con la propria moneta come centro del sistema monetario internazionale. Ambizione che invece nutriva la Francia, la quale, nei suoi tentativi di sostituire il franco alla sterlina, dava instabilità al sistema, talvolta di proposito (nel periodo 1907-14 ci furono numerosi episodi che videro la Francia rimpatriare fondi dalla Germania per motivi politici, forzando quest’ultima a procurarsi l’oro e a impedirne l’uscita). Il dollaro sarebbe divenuto la moneta mondiale solo dopo la fine del secondo conflitto mondiale.
Nei primi quarant’anni del XX secolo, quindi, il sistema monetario internazionale era divenuto policentrico, il che ne accentuava l’instabilità e favoriva anche lo sviluppo di mercati e transazioni finanziarie basati sull’arbitraggio e la speculazione. In quei decenni si vide pure la fioritura di «innovazioni finanziarie» in parte basate su effettive innovazioni tecnologiche, come i cavi telefonici transoceanici e la radio, ma per la maggior parte frutto di invenzioni che avevano lo scopo di favorire la speculazione e aggirare i controlli finanziari e quelli fiscali.
Quella presente è una crisi che viene da lontano, certamente dai primi anni novanta, e che porta la firma delle autorità economiche e della grande finanza degli Stati Uniti. Anche gli europei e i cinesi ne hanno in qualche misura la responsabilità. Ma la massima colpa va addossata certamente alla determinazione americana di finanziare le proprie guerre al costo minore possibile in termini di interessi sul debito pubblico, tramite una politica monetaria estremamente espansiva e la dinamica abnorme delle istituzioni finanziarie private che essa permette, per non sopportare penose misure correttive di quella particolare gestione economica e politica. I comportamenti americani sono indotti anche dalla necessità di regolare l’economia privata per prolungare le fasi di crescita e di massima occupazione, cercando di contrastare i cicli che si formano nel sistema produttivo. Essi creano gli enormi deficit nei conti esteri degli Stati Uniti, cui corrispondono gli altrettanto grandi surplus nei conti esteri di paesi come quelli europei, la Cina e i paesi emergenti, le cui economie sono trainate in misura crescente dalle esportazioni. Anche questi paesi dividono la responsabilità della crisi con gli Stati Uniti, ma la vera variabile indipendente del sistema restano i comportamenti americani, che inducono tutti gli altri.
La crisi attuale è squisitamente finanziaria. La crescita abnorme delle sovrastrutture bancarie e delle altre istituzioni e mercati finanziari è assai difficile da sottovalutare, tanto essa è stata chiara, specie negli Stati Uniti ma anche altrove, a partire dai primi anni novanta. Era una tendenza assai presente anche nei decenni precedenti, ma negli ultimi due il settore finanziario è divenuto in tutti i paesi, specie quelli del centro, il Primum Mobile dell’intera economia, dotato di energia e volontà indipendenti e capace di sfruttare meglio degli altri settori tutte le innovazioni, specie nel campo dell’elettronica e delle comunicazioni, che si sono rese disponibili a velocità sempre maggiore.
Quando la crisi è scoppiata, tuttavia, propagandosi dagli Stati Uniti al resto del mondo sviluppato, ma coinvolgendo anche aree che avevano a malapena iniziato un percorso di sviluppo come l’Africa, l’economia reale è stata investita con vero furore, come si rileva dai dati della produzione e dell’occupazione. A risentirne sono stati gli strati meno protetti della popolazione, in particolare la cosiddetta classe media, che è entrata in sofferenza dopo quella dei lavoratori dell’industria, e che deve considerarsi, insieme ad essa, la vera sconfitta dalla crisi. Il guaio è che la classe media è la protagonista del «capitalismo dal volto umano», il capitalismo del welfare pubblico, e la sua nuova debolezza fa presagire quindi tempi di ferro per i rapporti sociali al centro del sistema economico mondiale. La sofferenza della classe media comporta quella dei settori di consumo che dalla sua domanda dipendono, i settori costruiti nell’applicazione del principio delle economie di scala: automobili ed elettrodomestici, ad esempio, mentre vengono esaltate le produzioni dei beni di grande lusso, riservati alla minuta categoria dei ricchi e degli straricchi, che ha visto le proprie sorti addirittura migliorate dalla crisi attuale.
Altra grande vittima della crisi è stata l’integrazione europea, che è chiaramente in ritirata dal 2007, mentre sembrava aver colto, con l’introduzione dell’euro, un successo importante e duraturo. La crisi ha spaccato l’Europa in tre: ci sono i paesi del centro, come Germania, Finlandia, Austria e (seppur pencolante) l’Olanda; c’è poi un’area appena fuori del centro, che comprende essenzialmente la Francia, secondo paese d’Europa; e poi c’è la periferia, una categoria nuova e sofferente, alla quale appartengono Italia, Grecia, Irlanda, Spagna e Portogallo.
Immediatamente prima dello scoppio della crisi, anche per il rifluire del surplus tedesco sotto forma di investimenti nell’area periferica, si era sperato in una maggiore, anziché minore, omogeneità nelle condizioni economiche dell’intera area europea. La crisi ha mandato a fondo tali speranze, costringendo l’Europa a prendere misure di emergenza, secondo il peggiore stile europeo negoziate con mille lungaggini ed esitazioni, e assunte come olio di ricino dai paesi in surplus.
Nelle pagine che seguono, che riproducono alcuni degli articoli da me pubblicati sulla «Repubblica» in questo periodo1, ho cercato di toccare tutti questi temi, poiché essi si sono presentati con una urgenza e una drammaticità cui non eravamo abituati dalla fine della seconda guerra mondiale. Ad essi non si poteva sfuggire. Anche quelli che hanno cercato di farlo, creandosi, come gli economisti ortodossi, un proprio mondo virtuale, lo hanno visto mandato in frantumi dalla crisi e sono dovuti tornare a usare modelli di pensiero meno rarefatti. Ma, ogni volta che il clima dell’economia mondiale sembra indicare il ritorno a un qualche stato di maggior quiete, ecco gli economisti ortodossi tornare verso il loro mondo virtuale, cercando di ricostruirlo. Il che è sommamente pericoloso, perché è stata proprio l’autorevolezza dell’economia ortodossa a suggerire soluzioni errate alle classi dirigenti dei paesi del centro, con drammatiche conseguenze che hanno reso più grave la crisi.
Di fronte al perdurare della crisi più grave degli ultimi centoventi anni, in mancanza di soluzioni innovative suggerite dai teorici agli attori politici, la tendenza più forte sembra purtroppo essere quella a ricorrere a vecchie soluzioni che, a lungo tempo screditate, tornano a un tratto di moda e suggeriscono misure affrettate e pesanti perché prese in ritardo e senza accordo anche tra paesi appartenenti a unioni di Stati, come i paesi europei. Nazionalismo, protezionismo, regolamentazione dei mercati sono i nomi di queste soluzioni. Averle screditate e messe da parte per più di un cinquantennio come se si trattasse di pulsioni peccaminose e indegne di una nuova e superiore organizzazione internazionale è stato colpevole e persino stupido, perché in forma blanda esse dovevano rimanere in voga, persino il nazionalismo, mentre ora ci si trova a prenderle velocemente e in dosi assai maggiori, senza usufruire dei vantaggi che sarebbero derivati da dosi moderate, e correndo in pieno il pericolo di precipitare il mondo intero in un nuovo disordine internazionale con conseguenze economiche e politiche simili a quelle che indussero le due guerre mondiali e il marasma degli anni venti e trenta del Novecento.
La sgradevole sensazione di trovarsi in un periodo di profondo riflusso verso il nazionalismo e il razzismo è difficile da evitare, in Europa così come altrove. Appena liberati dall’autorità sovietica i paesi dell’Europa orientale, ad esempio, si sono dedicati a una vera e propria orgia di nazionalismo, infettando, a causa della loro forzosa integrazione nell’Unione europea, anche i vecchi membri di questa, che ne avevano assai poco bisogno, avendo iniziato un percorso meno esplicito ma altrettanto univoco nella stes- sa direzione.
Una nuova classe politica emergerà dalla necessità di questa netta virata nei paesi che dovranno effettuarla o anche solo subirla. Se dobbiamo basarci sulle esperienze degli ultimi cento anni, le previsioni sono necessariamente nefaste. Come ho detto sopra, stiamo tornando a tempi di ferro, come quelli che i miei coetanei hanno vissuto nella loro infanzia.
(1) Ringrazio il gruppo editoriale L’Espresso per avermi permesso di ripubblicare gli articoli usciti su «la Repubblica».
(Copyright Donzelli)
Il testo pubblicato costituisce l'introduzione dell'ultimo libro dell'economista Marcello De Cecco Ma cos'è questa crisi. L'Italia, l'Europa e la seconda globalizzazione (2007-2013) (Donzelli, 2013 pp. XVI-288, 18,50 euro)
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