“Chi ha versato il sangue di compatrioti (nella foto il corpo di Froilán Jiménez, caduto per liberare il presidente, pianto da un commilitone) sappia che non dimenticheremo né perdoneremo”. E’ questo un passaggio non banale del discorso di Rafael Correa davanti a migliaia di sostenitori dopo 11 ore di sequestro in un ospedale della polizia e dopo essere stato liberato solo da un blitz dell’esercito. In queste parole c’è il seme dell’America latina nuova, che non abbassa più la testa e non ha più paura di processare i criminali e oggi può affrontare –non bastano certo le declamazioni ma centinaia di violatori di diritti umani e stupratori della democrazia in carcere lo testimoniano- il cancro dell’impunità.
Ma, al di là delle parole, Rafael Correa ha già vinto la propria sfida. Ha sfidato i golpisti invitandoli a sparare, ad ucciderlo se ne avevano il coraggio. Quindi, per 11 ore, i golpisti avevano preteso che il presidente umiliasse se stesso e la Costituzione dell’Ecuador accettando di trattare, barattando la sua incolumità personale con la rinuncia sostanziale a quel progetto di un nuovo Ecuador dove tutti fossero cittadini. Ma Correa non ha chinato la testa e, a quel punto, il blitz, anticipato di due ore da Giornalismo partecipativo, è apparso l’unica soluzione.
Gli avvenimenti di Quito, dopo l’ennesima settimana di demonizzazione dell’America latina integrazionista da parte dei grandi media mondiali, rimettono in maniera chiara come il sole, per chiunque sia in buona fede, le cose al loro posto. Come ha affermato nella notte il Presidente brasiliano Lula ancora una volta è stato testimoniato che non è la sinistra ad attentare alla democrazia in America latina. La sinistra, i governi integrazionisti che stanno riscattando il Continente dalla notte neoliberale, sono la democrazia in America latina.
Ma, al di là delle parole, Rafael Correa ha già vinto la propria sfida. Ha sfidato i golpisti invitandoli a sparare, ad ucciderlo se ne avevano il coraggio. Quindi, per 11 ore, i golpisti avevano preteso che il presidente umiliasse se stesso e la Costituzione dell’Ecuador accettando di trattare, barattando la sua incolumità personale con la rinuncia sostanziale a quel progetto di un nuovo Ecuador dove tutti fossero cittadini. Ma Correa non ha chinato la testa e, a quel punto, il blitz, anticipato di due ore da Giornalismo partecipativo, è apparso l’unica soluzione.
Gli avvenimenti di Quito, dopo l’ennesima settimana di demonizzazione dell’America latina integrazionista da parte dei grandi media mondiali, rimettono in maniera chiara come il sole, per chiunque sia in buona fede, le cose al loro posto. Come ha affermato nella notte il Presidente brasiliano Lula ancora una volta è stato testimoniato che non è la sinistra ad attentare alla democrazia in America latina. La sinistra, i governi integrazionisti che stanno riscattando il Continente dalla notte neoliberale, sono la democrazia in America latina.
Lula stesso e domani Dilma Rousseff, Hugo Chávez, Cristina Fernández, Rafael Correa, Pepe Mujica, Evo Morales, perfino Cuba, per quanti errori possano aver compiuto e continueranno a compiere, stanno dalla parte dei popoli che vogliono riprendersi la storia, vogliono una vita più dignitosa e stanno ridando un senso a parole d’ordine in Europa dimenticate come uguaglianza e giustizia sociale.
E’ invece la destra ad attentare sempre alla democrazia in America latina, come ha dimostrato in Venezuela, in Honduras, in Ecuador con i colpi di stato e in in Bolivia col secessionismo, partendo da quello strumento goebblesiano che in tutti i paesi prende la forma del complesso mediatico commerciale.
E’ sotto gli occhi di tutti quanto è avvenuto questa settimana. I media commerciali di tutto il continente, ma anche europei ed italiani, si sono dedicati sistematicamente a demonizzare i governi democratici di Brasile e Venezuela. Il primo, con all’attivo forse il più positivo bilancio al mondo perfino in termini di crescita capitalista dal 2003 in avanti, il secondo che ha appena vinto con maggioranza assoluta le elezioni parlamentari, sono stati costantemente sotto tiro. Nel caso venezuelano la vittoria è stata ridicolamente e sistematicamente presentata come una sconfitta e una campana a morto per il governo bolivariano. Anche sull’Ecuador i disinformatori sono al lavoro: “tranquilli non è un golpe” hanno sviato tutto il giorno e anche adesso occultano evidenze, testimonianze e prove per presentare il complotto come un semplice conflitto sindacale sfuggito di mano per focosità naturale (sic) delle popolazioni andine.
Conflitto sindacale un corno! Le parole e i fatti devono avere ancora un senso, anche per chi di mestiere lavora sempre per edulcorare. Il presidente è stato malmenato, colpito con gas lacrimogeni, infine sequestrato per 11 ore in un’ospedale all’interno di una caserma, con almeno un tentativo solido di portarlo altrove, frustrato solo perché nel frattempo migliaia di cittadini avevano circondato la caserma, riproducendo per molti versi l’epopea dei giorni dell’aprile 2002 in Venezuela, quando il popolo si sollevò contro il golpe riportando Hugo Chávez a Miraflores. Il popolo pacifico che non accetta più la prepotenza è la cifra dell’America latina del XXI secolo. Anche dove la violenza infine trionfa, come è successo in Honduras, nessuno abbassa più la testa.
Ma non è solo il sequestro del presidente, che pure è la prova provata e legale dell’avvenuto colpo di stato, a testimoniare la gravità degli eventi: durante ore sono state sotto controllo golpista le due principali città del paese e i due principali aeroporti del paese sono stati chiusi. Anche in città come Cuenca e Manabi ci sono state manifestazioni di appoggio al golpe, mettendo in piazza quella massa di manovra, gli “studenti di destra”, già visti all’opera in varie parti del Continente, da Santa Cruz in Bolivia a Caracas, scesi in piazza in appoggio ad un governo civico-militare che per almeno un paio d’ore è sembrato potesse prosperare.
Altrove, invece, la strada è stata presa da civili leali alla Costituzione, in ore di tensione intensa che hanno già fatto cadere le teste del capo della Polizia e, la notizia non è ufficiale ma è stata confermata a Giornalismo partecipativo, del ministro degli Interni Gustavo Jarlkh. La televisione pubblica, altro atto gravissimo, è stata assaltata e ridotta al silenzio per oltre un’ora da elementi sicuramente riconducibili all’ex-presidente fondomonetarista Lucio Gutiérrez. Dov’è la SIP, la società interamericana della stampa (la confindustria degli editori di media latinoamericani), dov’è Reporter Senza Frontiere, così solerti a strapparsi le vesti quando un media commerciale è ricondotto al rispetto delle leggi in Bolivia o in Brasile o in Venezuela e sempre silenziosi quando la libertà di stampa dei media non omologati viene vilipesa? Per ore molti giornalisti sono stati sequestrati nella stessa caserma del presidente e almeno un cameramen è stato gravemente picchiato e la sua telecamera distrutta. Cosa importa…
All’estero la CNN ha impiegato otto ore prima di ammettere che il presidente Rafael Correa si trovasse sotto sequestro. Ammettere il sequestro voleva dire ammettere la rottura dell’ordine costituzionale e quindi il golpe in atto. Strana maniera di lavorare per un canale all-news che deve la sua fortuna al tempismo con il quale dà le notizie. El País di Madrid ha dovuto rinculare e spiegare che c’era stato un sequestro solo quando ha dovuto prendere atto del blitz per porvi fine. Vergogna per un quotidiano che con coraggio si oppose al golpe Tejero un 23 febbraio di troppi anni fa in Spagna! Fondo Monetario Internazionale, destra tradizionale, non solo personaggi come Lucio Gutiérrez ma anche il sindaco di Guayaquil Jaime Nebot erano dietro al tentativo golpista, il simbolo della destra della costa che in Ecuador viene chiamata “pelucones”, parrucconi. Inoltre si moltiplicano le informative che testimoniano come proprio la polizia nazionale ecuadoriana, individuata come punto debole nella lealtà alla Costituzione, sia stata sistematicamente infiltrata e profumatamente corrotta fin dal 2008 dai soliti noti, a partire da USAID.
Ai golpisti è andata male su tutta la linea. I presidenti latinoamericani, escludendo una volta di più Washington, hanno attraversato il continente nella notte per riunirsi a Buenos Aires e mostrarsi uniti come mai. Non facevano eccezione quelli di destra, Juan Manuel Santos, Alan García, Sebastían Piñera, contro il terzo golpe in otto anni nella regione, senta contare altri rumori di sciabole dalla Bolivia al Paraguay. Nel frattempo il governo degli Stati Uniti si limitava a “monitorare” la situazione e, solo quando è stato evidente l’isolamento dei golpisti nel paese e nel continente, è passato dal monitoraggio alla condanna. Far finta di non vedere una regia dietro questa giornata che si conclude con un bilancio di due morti e una settantina di feriti e descrivere gli avvenimenti di Quito come casuali e spontanei è un cosciente atto di disinformazione. Altro che conflitto sindacale!
Gennaro Carotenuto su http://www.gennarocarotenuto.it
E’ invece la destra ad attentare sempre alla democrazia in America latina, come ha dimostrato in Venezuela, in Honduras, in Ecuador con i colpi di stato e in in Bolivia col secessionismo, partendo da quello strumento goebblesiano che in tutti i paesi prende la forma del complesso mediatico commerciale.
E’ sotto gli occhi di tutti quanto è avvenuto questa settimana. I media commerciali di tutto il continente, ma anche europei ed italiani, si sono dedicati sistematicamente a demonizzare i governi democratici di Brasile e Venezuela. Il primo, con all’attivo forse il più positivo bilancio al mondo perfino in termini di crescita capitalista dal 2003 in avanti, il secondo che ha appena vinto con maggioranza assoluta le elezioni parlamentari, sono stati costantemente sotto tiro. Nel caso venezuelano la vittoria è stata ridicolamente e sistematicamente presentata come una sconfitta e una campana a morto per il governo bolivariano. Anche sull’Ecuador i disinformatori sono al lavoro: “tranquilli non è un golpe” hanno sviato tutto il giorno e anche adesso occultano evidenze, testimonianze e prove per presentare il complotto come un semplice conflitto sindacale sfuggito di mano per focosità naturale (sic) delle popolazioni andine.
Conflitto sindacale un corno! Le parole e i fatti devono avere ancora un senso, anche per chi di mestiere lavora sempre per edulcorare. Il presidente è stato malmenato, colpito con gas lacrimogeni, infine sequestrato per 11 ore in un’ospedale all’interno di una caserma, con almeno un tentativo solido di portarlo altrove, frustrato solo perché nel frattempo migliaia di cittadini avevano circondato la caserma, riproducendo per molti versi l’epopea dei giorni dell’aprile 2002 in Venezuela, quando il popolo si sollevò contro il golpe riportando Hugo Chávez a Miraflores. Il popolo pacifico che non accetta più la prepotenza è la cifra dell’America latina del XXI secolo. Anche dove la violenza infine trionfa, come è successo in Honduras, nessuno abbassa più la testa.
Ma non è solo il sequestro del presidente, che pure è la prova provata e legale dell’avvenuto colpo di stato, a testimoniare la gravità degli eventi: durante ore sono state sotto controllo golpista le due principali città del paese e i due principali aeroporti del paese sono stati chiusi. Anche in città come Cuenca e Manabi ci sono state manifestazioni di appoggio al golpe, mettendo in piazza quella massa di manovra, gli “studenti di destra”, già visti all’opera in varie parti del Continente, da Santa Cruz in Bolivia a Caracas, scesi in piazza in appoggio ad un governo civico-militare che per almeno un paio d’ore è sembrato potesse prosperare.
Altrove, invece, la strada è stata presa da civili leali alla Costituzione, in ore di tensione intensa che hanno già fatto cadere le teste del capo della Polizia e, la notizia non è ufficiale ma è stata confermata a Giornalismo partecipativo, del ministro degli Interni Gustavo Jarlkh. La televisione pubblica, altro atto gravissimo, è stata assaltata e ridotta al silenzio per oltre un’ora da elementi sicuramente riconducibili all’ex-presidente fondomonetarista Lucio Gutiérrez. Dov’è la SIP, la società interamericana della stampa (la confindustria degli editori di media latinoamericani), dov’è Reporter Senza Frontiere, così solerti a strapparsi le vesti quando un media commerciale è ricondotto al rispetto delle leggi in Bolivia o in Brasile o in Venezuela e sempre silenziosi quando la libertà di stampa dei media non omologati viene vilipesa? Per ore molti giornalisti sono stati sequestrati nella stessa caserma del presidente e almeno un cameramen è stato gravemente picchiato e la sua telecamera distrutta. Cosa importa…
All’estero la CNN ha impiegato otto ore prima di ammettere che il presidente Rafael Correa si trovasse sotto sequestro. Ammettere il sequestro voleva dire ammettere la rottura dell’ordine costituzionale e quindi il golpe in atto. Strana maniera di lavorare per un canale all-news che deve la sua fortuna al tempismo con il quale dà le notizie. El País di Madrid ha dovuto rinculare e spiegare che c’era stato un sequestro solo quando ha dovuto prendere atto del blitz per porvi fine. Vergogna per un quotidiano che con coraggio si oppose al golpe Tejero un 23 febbraio di troppi anni fa in Spagna! Fondo Monetario Internazionale, destra tradizionale, non solo personaggi come Lucio Gutiérrez ma anche il sindaco di Guayaquil Jaime Nebot erano dietro al tentativo golpista, il simbolo della destra della costa che in Ecuador viene chiamata “pelucones”, parrucconi. Inoltre si moltiplicano le informative che testimoniano come proprio la polizia nazionale ecuadoriana, individuata come punto debole nella lealtà alla Costituzione, sia stata sistematicamente infiltrata e profumatamente corrotta fin dal 2008 dai soliti noti, a partire da USAID.
Ai golpisti è andata male su tutta la linea. I presidenti latinoamericani, escludendo una volta di più Washington, hanno attraversato il continente nella notte per riunirsi a Buenos Aires e mostrarsi uniti come mai. Non facevano eccezione quelli di destra, Juan Manuel Santos, Alan García, Sebastían Piñera, contro il terzo golpe in otto anni nella regione, senta contare altri rumori di sciabole dalla Bolivia al Paraguay. Nel frattempo il governo degli Stati Uniti si limitava a “monitorare” la situazione e, solo quando è stato evidente l’isolamento dei golpisti nel paese e nel continente, è passato dal monitoraggio alla condanna. Far finta di non vedere una regia dietro questa giornata che si conclude con un bilancio di due morti e una settantina di feriti e descrivere gli avvenimenti di Quito come casuali e spontanei è un cosciente atto di disinformazione. Altro che conflitto sindacale!
Gennaro Carotenuto su http://www.gennarocarotenuto.it
Nessun commento:
Posta un commento