di Gianni Mina' - in Latinoamerica
Giovedì 30 Settembre 2010
LATINOAMERICA N. 112 (3/2010)
Recentemente Amnesty International ha reso noto che alla data del 15 agosto 2010, a Cuba i prigionieri politici [o “di coscienza”, come li definisce la stessa organizzazione] erano soltanto 27. Poi, dopo una successiva liberazione, in osservanza degli accordi raggiunti a giugno dal governo de l’Avana con la mediazione della Chiesa cattolica e del Ministro degli esteri spagnolo Moratinos, era rimasto un unico recluso anti-sistema, Rolando Jiménez Pozada, in carcere “per disobbedienza e per aver rivelato segreti di Stato”. Una realtà clamorosa, accolta con un silenzio assordante dai media occidentali e perfino dal governo di Washington.
Amnesty, infatti, sottolineava anche che queste persone, liberate e spedite con le loro famiglie in Spagna, nella maggior parte erano state condannate per “aver ricevuto fondi o materiali dal governo degli Stati Uniti per porre in essere attività che la Revolución considerava eversive e pregiudiziali per Cuba”.
L’organizzazione umanitaria, però, aveva dimenticato di evidenziare che il diritto internazionale considera illegale il finanziamento di un’opposizione interna in un’altra nazione sovrana, tanto che nei paesi europei, e negli stessi Stati uniti, è sanzionato severamente il fatto di essere stipendiati da una potenza straniera. Perché la chiave non sta tanto in chi invia il denaro, ma in come viene utilizzato.
In un articolo che pubblichiamo in questo numero 112 di Latinoamerica, Salim Lamrani, ricercatore e docente universitario francese, ha raccolto il parere di Wayne Smith, che fu capo dell’ufficio di interessi degli Stati Uniti a l’Avana dal 1979 al 1982, durante la presidenza di Jimmy Carter. E Smith sull’argomento è drastico: “Nessuno dovrebbe dare denaro ai dissidenti, e ancor meno con l’obiettivo di far cadere il governo cubano [iniziativa che è palese nel piano Cuba libre] perché, quando si esplicita questo obiettivo, si mettono gli stessi dissidenti nella condizione di diventare agenti pagati da una potenza straniera per abbattere il proprio governo”.
Non insisterò, quindi, su un aspetto imbarazzante della politica nordamericana nei riguardi di Cuba che dura da mezzo secolo, anche se molti “democratici” continuano a dimenticarlo quando parlano dei limiti della Revolución. I famosi dissidenti, salvo pochi casi degni di rispetto, ricevevano soldi dagli Stati Uniti dai gruppi e dai soggetti più discutibili di quella società, come è il caso del terrorista Santiago Álvarez, ora in carcere in Florida perché scoperto con una macchina piena di armi ed esplosivi, che sovvenzionava le mitiche Dame in bianco.
Mi preme di più, nell’apprendere le notizie sulle aperture politiche decise dal Raúl Castro, sottolineare l’atteggiamento del presidente degli Stati Uniti Barack Obama che, negli stessi giorni, ha prorogato l’estensione della “Legge contro il commercio con il nemico”, azione che serve a mantenere il blocco economico, commerciale e finanziario contro Cuba.
La Casa bianca ha solo diffuso, in un comunicato che Obama ha firmato, un memorandum inviato al Segretario di stato Hillary Clinton e al Ministro del tesoro Timothy Geithner nel quale si dà notizia che la legislazione in merito è prorogata fino al 14 settembre 2011. Nel testo Obama aggiunge, come unica giustificazione, che “la continuazione per un anno di queste misure riguardanti Cuba conviene agli interessi nazionali degli Stati Uniti”. Con questo argomento Washington ribadisce che secondo il suo punto di vista, Cuba -anche se non lo è stato mai- continua a essere un rischio per la sicurezza del paese, e pertanto, proibisce alle aziende degli Stati Uniti o a quelle di altri paesi che hanno anche una minima partecipazione nordamericana, di commerciare con il paese della Revolución. Cuba infatti è l’unica nazione al mondo soggetta alle sanzioni della “Legge contro il commercio con il nemico” dopo che nel 2008 l’amministrazione di George W Bush aveva deciso di non rinnovare l’applicazione di questa misura restrittiva perfino
alla Corea del nord. Dispiace, ma l’atteggiamento appare proprio come un’incapacità di accettare che esistano altri modi di vivere, di governarsi, di organizzare la propria società. Scelte contrarie al pensiero unico neoliberale, che hanno evidentemente influenzato l’America latina che cambia e abbandona in molti casi l’ossequio agli interessi degli Stati Uniti.
Un peccato mortale, da punire contro ogni logica, anche da parte di un’amministrazione democratica, che è ricorsa ai soliti metodi meschini. Per esempio montare contro Cuba una guerra mediatica di mesi, adducendo come motivo lo sciopero della fame per il quale era morto Orlando Zapata, una condotta prontamente dimenticata quando, come adesso, 34 indigeni Mapuche, eredi di un’etnia depredata e sterminata in Cile, attuano la stessa forma di protesta contro una legge voluta da Pinochet e che equipara la loro iniziativa a un atto di terrorismo.
Oppure, ignorare l’assassinio di Norma Irene Pérez, la colombiana madre di quattro figli che aveva fatto scoprire la più grande fossa comune del mondo postbellico [duemila cadaveri], che cela probabilmente gli assassinii e le efferatezze del regime di Álvaro Uribe [presidente fino a pochi mesi fa] l’alleato più stretto degli Stati Uniti in Sudamerica, responsabile di nefandezze come i cosiddetti falsos positivo (in prevalenza contadini assassinati e poi vestiti da guerriglieri per dimostrare che i piani del governo contro le Farc, generosamente finanziati da Washington, funzionavano egregiamente).
Il problema è sempre quello dell’etica dell’informazione. Asservirsi così platealmente agli interessi politici degli Stati uniti, fino a condividerne acriticamente le direttive, non è indice di indipendenza e nemmeno di logica, di morale. Perché quello messo in atto contro Cuba dal Dipartimento di stato e dai paesi suoi vassalli nei mesi che vanno dall’inverno 2010 fino all’inizio dell’estate, è stato spudoratamente il tentativo scorretto di bloccare l’annunciata iniziativa del ministro degli esteri spagnolo Miguel Angel Moratinos di tornare a un rapporto normale con Cuba dopo le sanzioni, perfino culturali, che la Comunità europea aveva superficialmente inflitto all’isola nel 2003. In quella stagione, come ha raccontato nel maggio scorso in un’intervista radiofonica a un’emittente della catena Univisión di Miami, Roger Noriega, ex sottosegretario di stato Usa per gli affari dell’emisfero occidentale, Bush jr aveva tentato di dare una spallata definitiva al governo de l’Avana. C’erano stati perfino dirottamenti di aerei e del ferryboat di Regla, imprese che nessun dissidente avrebbe potuto metter in piedi senza i dollari e gli aiuti di Washington che, d’altro canto, aveva già lanciato l’operazione “Cuba libre”. Allo stesso modo nessun Noriega, né Cason, all’epoca capo dell’ufficio di interessi degli Stati uniti a l’Avana e suo complice in questa operazione insensata, avrebbe potuto decidere questa azione senza l’avallo della Casa bianca. Saul Landau e Nelson Valdés lo spiegano e lo denunciano in un articolo, che pubblichiamo in questo numero di Latinoamerica e che si pone diversi interrogativi. Fu quello un momento delicatissimo dei rapporti mai risolti fra i due paesi, considerata l’ingerenza plateale degli Stati Uniti nella vita di un altro paese sovrano. La Revolución, ancora guidata da Fidel, aveva reagito -purtroppo- con durezza, arrivando a condannare alla fucilazione tre degli undici responsabili dell’assalto ai turisti del ferryboat, un atto che rompeva la moratoria sulla pena di morte che Cuba rispettava da anni e che avrebbe ripreso a rispettare subito dopo.
La Comunità europea, aizzata dall’allora primo ministro spagnolo Aznar, che aveva avuto una parte della sua campagna elettorale pagata dalla famigerata Fondazione cubano americana di Miami, aveva punito Cuba senza nemmeno porsi il problema delle responsabilità degli Stati uniti nell’interferire sulla vita di un paese indipendente che aveva subito anche l’offesa del terrorismo che partiva dalla Florida. Senza contare che, dopo l’11 settembre, la stessa Comunità europea aveva riconosciuto il diritto degli Stati Uniti di difendersi in ogni modo, anche illegale, anche con i sequestri di indiziati che venivano portati in nazioni dove era possibile praticare la tortura, mentre, nello stesso tempo, negava a Cuba il diritto di tutelarsi.
Dopo sette anni la Spagna di Zapatero, per una sorta di retaggio culturale ma anche per il precedente poco esaltante legato agli interessi di Aznar, sentiva il bisogno di rivedere la cosiddetta “posizione comune dell’Europa” nei riguardi della Revolución, il famoso “kamasutra europeo”, come lo ha definito ironicamente il prestigioso cantautore cubano Silvio Rodríguez.
Ma al Segretario di stato nordamericano Hillary Clinton, questo progetto portato avanti dal ministro Moratinos non piaceva, anche perché, nel frattempo, l’influenza di Cuba nell’evoluzione politica e sociale dell’America latina aveva portato il continente a un riscatto, palesemente rappresentato da nove paesi che avevano scelto governi di sinistra. Una vera sconfitta per gli Stati Uniti in quello che era stato il “cortile di casa” e che si avviava, invece, con l’Alba, il Mercosur, il Banco del Sur, la rifondazione dell’Organizzazione degli stati americani [Osa] e l’informazione di TeleSur, a mettere in piedi un’alleanza continentale progressista, sul modello proprio della Comunità europea.
Gli analisti del Dipartimento di Stato decisero quindi che era arrivato il momento di usare con Cuba, laboratorio politico di questo rivoluzionario cambiamento, i vecchi metodi.
1] Comprare la dissidenza meno sincera e credibile.
2] Cavalcare il malessere che non solo la crisi economica mondiale, ma anche le antiche deficienze dell’economia socialista, facevano montare nella società.
3] Influenzare l’informazione attraverso strutture come i Reporters sans frontiéres, allenati e pagati per propagandare quello che la Cia dirama o nascondere quello che è sconveniente per la stessa agenzia.
4] Appoggiarsi a giornali come el País che, per gli interessi del gruppo Prisa di cui fa parte, da tempo non sopporta più il vento di riscatto che soffia nella maggior parte dell’America latina.
Tutto questo incrementando, nei riguardi di Cuba, la cyberguerra, strumento moderno e capzioso teorizzato e messo in piedi qualche anno fa da Donald Rumsfeld, il ministro della guerra di Bush. La cyberguerra non è uno strumento per far nascere malesseri interni bensì per creare malumori, pregiudizio, diffidenza all’esterno, nelle nazioni che potrebbero aiutare Cuba o gli altri “paesi canaglia” del continente [Venezuela, Bolivia, Ecuador e in certi momenti perfino l’Argentina dei Kirchner e il Brasile di Lula] paesi che stanno mettendo di cattivo umore le multinazionali nordamericane ed europee con le nazionalizzazioni e il recupero delle proprie risorse e stanno puntando a un futuro di esplicita indipendenza.
Il lavoro è stato portato avanti con uno sciopero della fame fra i più mediatici che si ricordi e con la costruzione di un’eroina, Yoani Sánchez che, attraverso media ben disposti come appunto El País in Spagna e, da noi, La Stampa e Internazionale, comunicava e comunica il suo malessere quotidiano, il suo costante dimenticarsi delle conquiste sociali -riconosciute a Cuba da tutti gli organismi internazionali- e forniva il quadro di un paese senza domani.
Ora, chiunque conosca il sud del mondo e la stessa America latina considera una barzelletta dolersi, per esempio, del fatto che, se piove, i suoi concittadini debbano ripararsi con buste di plastica [come se nel resto del continente tutti avessero dei trench in stile inglese].
Ma questo apparato montato per mesi un risultato l’ha raggiunto: ha maldisposto l’ipocrita Comunità europea che, in un mondo di ingiustizia, crudeltà, violenza e corruzione, è rimasta colpita solo dalla morte di Orlando Zapata in sciopero della fame e ha deciso di tenere ancora in sospeso il suo rapporto con Cuba mentre solo un paio di stagioni fa ha accolto a Bruxelles, come un vero statista, Álvaro Uribe, l’ex presidente della Colombia responsabile di mattanze e fosse comuni come quelle che abbiamo raccontato al piede delle pagine precedenti e che non ha avuto nessuno spazio nei liberi media occidentali.
Questi vecchi metodi di comunicazione scorretta, orchestrati e sorretti da UsAid, Ned, Freedom House, Reporters sans frontiéres, insomma i soliti apparati di propaganda della Cia, con la complicità di gran parte dei media italiani [anche alcuni di quelli presuntamente di sinistra] non sono alla fine serviti più di tanto. Perché il cocciuto Moratinos, bloccato durante il semestre spagnolo di presidenza della Ue, ha convinto Raúl Castro, con l’aiuto e la mediazione strategica della Chiesa cattolica cubana [come racconta Frei Betto in questo numero della rivista] a liberare quasi tutti i prigionieri politici o di coscienza incarcerati nel 2003, quando gli Stati Uniti, come detto, provarono ancora una volta a chiudere violentemente i conti con Cuba.
Anche in questo frangente i media occidentali hanno fatto, nella maggior parte, la solita figura dei vassalli degli Stati Uniti, privilegiando nel calcolo dei prigionieri politici la lista fornita dal dissidente per professione Elizardo Sánchez, reputata da tutti i media internazionali come la meno affidabile, a causa dell’inclusione di individui condannati per gravi atti di terrorismo. Proprio Miguel Angel Moratinos, ai giornalisti che sono andati ad accoglierlo al suo arrivo a l’Avana, ha affermato, sarcastico: “Non dite che bisogna liberarne 300, perché non ce ne sono 300. La stessa lista resa nota da Sánchez, portavoce della Commissione diritti umani di Cuba, una settimana prima che arrivassi io parlava di 202 detenuti, quando poi sono arrivato a Cuba la cifra era diminuita a 167”.
Non a caso, l’agenzia nordamericana Associated Press, sottolineando il carattere dubbio della lista di Elizardo Sánchez, ha segnalato che, fra i 100 presunti dissidenti che secondo lui rimarrebbero in carcere, la metà è stata condannata per terrorismo, sequestri e altri delitti violenti.
Il presidente del parlamento cubano, Ricardo Alarcón, che da sempre si occupa anche del problema dei Cinque connazionali in carcere negli Stati Uniti per aver scoperto e reso pubbliche le centrali terroristiche attive in Florida contro l’isola, ha commentato amaramente: “Coloro che discutono la lista delle persone da noi liberate perché non dicono esplicitamente che stanno chiedendo la libertà di chi ha assassinato Fabio Di Celmo?”(2).
Amnesty international, come ricorda Salim Lamrani nel puntuale articolo pubblicato in questo numero di Latinoamerica, ha dichiarato “di non poter considerare come ‘prigionieri di coscienza’ molti dei componenti della lista proposta ai media da Elizardo Sánchez perché sono risultati essere persone processate per terrorismo, spionaggio e che hanno tentato perfino, riuscendoci, di far esplodere degli alberghi. Per questo non ne chiederemo la liberazione e non li qualificheremo come ‘prigionieri di coscienza’”.
Peccato che la stessa Amnesty, solo due mesi prima, avesse comunicato che “un clima di paura si era generato nell’isola per le restrizioni alla libertà d’espressione”. Quando si dice l’esigenza di barcamenarsi senza infastidire troppo il governo di Washington.
E secondo voi i giornali italiani [i telegiornali nemmeno ne hanno parlato] quale lista di presunti dissidenti cubani hanno preso per buona?
Tutto questo lavorio, alla fine, non ha premiato però il Dipartimento di stato. Dai tempi in cui Wayne Smith trattava per il presidente Jimmy Carter un riavvicinamento con Cuba, poi abbandonato per l’elezione di Reagan, chi ha tentato un vero passo verso un dialogo fra i due paesi è stata solo la Revolución. E se l’informazione ha ancora uno straccio di onestà deve riconoscere che ora è Barack Obama a dover rispondere ai fatti messi in campo da Raúl Castro, e non alle parole della Comunità europea o ai consigli di Hillary Clinton.
Fa pena a questo punto ricordare le dichiarazioni di presunta fermezza di quello che in teoria si occupa per l’Italia di politica estera, il ministro Franco Frattini. Evidentemente senza conoscere a fondo la realtà, come spesso gli capita, in primavera esternava senza ritegno su Cuba e sui diritti umani. Mi domando che iniziativa prenderà adesso, dopo le rivelazioni di Roger Noriega e dopo le puntualizzazioni del suo collega spagnolo Moratinos. Chiederà una censura europea al governo degli Stati Uniti per aver l’abitudine di non rispettare il diritto di autodeterminazione dei popoli e per essere portatore di eversione in una parte dell’America latina?
Mentire evidentemente è una pratica di molti nostri politici, ma ci vuole una bella faccia tosta, dopo la martellante campagna di primavera di quasi tutti i media italiani che stigmatizzavano Cuba dopo la morte di Zapata, ma ignoravano la mattanza di giornalisti in Messico e nell’Honduras “normalizzato” [rispettivamente 11 e 10 nel solo 2010], per fare dichiarazioni di questo tipo: “Sono stupefatto del silenzio che anche in Italia c’è intorno alla vicenda dei dissidenti cubani. Mentre quando si tratta di dissidenti cinesi o birmani, o di altri Paesi in giro per il mondo, ci sono interrogazioni, proteste, manifestazioni, in questo caso c’è soprattutto silenzio.” E bisogna essere veramente spudorati per rispondere a una successiva domanda di Marco Galluzzo del Corriere della Sera riguardo agli affari che l’Italia fa con la Cina, dove succedono cose che a Cuba non sono mai accadute: “La Cina ha fatto enormi passi avanti da Tienanmen in poi ed è diventata un interlocutore politico internazionale di prima grandezza. Non è un doppio standard perché Pechino dà contributi positivi al mondo su moltissimi contesti”.
Ma dove vive il ministro Frattini? Lo sa che in Cina ci sono più di mille fucilati all’anno? E lo sa, al contrario, che ci sono 70mila medici cubani nei paesi del sud del mondo, dove non arrivano nemmeno le agenzie dell’Onu? E lo sa che dalla Scuola di medicina de l’Avana, fondata 10 anni fa là dov’era la scuola della marina, sono già stati laureati più di settemila ragazzi, provenienti dai paesi più poveri del mondo, che hanno preso l’impegno di andare a esercitare la professione nei luoghi più impervi dei loro paesi, dove un medico non l’hanno mai visto?
Alla Scuola di medicina latinoamericana [che ho filmato per il documentario Cuba nell’epoca di Obama che spero di presentare nei migliori Festival] ci sono perfino studenti dei ghetti delle grandi città nordamericane, che non avrebbero mai potuto diventare dottori nel paese più ricco del mondo. Non a caso, proprio Obama ha dichiarato: “L’impatto dei medici cubani nel sud del mondo è stato più vincente di molte nostre strategie politiche”. Potremmo ricordare molte altre cose a Frattini, dai maestri elementari cubani che lavorano nelle favelas del continente ai cineasti che escono dalla Scuola di cinema di San Antonio de los Baños e che permettono a tanti giovani del sud del mondo di coltivare sogni che, certamente, finora la Cina, citata dall’ipocrisia del ministro, non ha voglia o tempo di aiutare.
Ci limiteremo a ricordargli che quando, qualche anno fa, uno tsunami travolse le nazioni affacciate sull’Oceano indiano, l’Indonesia chiese all’Onu come organizzarsi in caso di ripetersi del terribile fenomeno. Bene, le Nazioni unite consigliarono di rivolgersi a Cuba, dove la Protezione civile era magari povera, ma efficientissima e organizzata. Recentemente è stata Haiti a beneficiare di questa capacità e dell’organizzazione sanitaria che in una notte i cubani hanno saputo mettere su nell’isola di radice francese e africana devastata dal terremoto. Gli Stati Uniti, invece, hanno mandato i marines. Ma può capire queste sfumature Frattini, che è apparso così contento di scodinzolare attorno a Gheddafi?
Per quanto, l’informazione italiana non è da meno. Sul Corriere della Sera, per esempio, Emilia Costantini, raccontando di un cinepanettone con Brignano e Pannofino in lavorazione a l’Avana, segnala con apprensione che i cubani, fornitori del set e di maestranze preparatissime, hanno chiesto di cambiare la cittadinanza della protagonista [ovviamente una jinetera, una escort si direbbe dopo le sortite del nostro presidente del consiglio] che, invece di essere cubana è colombiana. Insomma, a parte la povertà dell’ispirazione degli sceneggiatori su un clichet che per fortuna l’isola da qualche anno si è scrollata di dosso [mancano solo il tassista antisistema con i rayban sulla punta del naso e l’intellettuale deluso, sicuro che in occidente gli farebbero ponti d’oro] io mi chiedo: ma chi fa comunicazione non si domanda mai perché Cuba resiste all’assedio degli Stati Uniti da più di 50 anni?
E noi italiani, in un paese dove le escort sono diventate una quotidianità, quasi uno status symbol, possiamo ancora fare delle jineteras l’esempio per raccontare quel paese? Infine anche un attore intelligente come Pannofino, che afferma “i cubani sono persone buone e rassegnate” si è mai domandato perché tutta l’America latina che sta vivendo un vero rinascimento continua ad andare in pellegrinaggio da sempre a Cuba dove esistono istituti culturali inesistenti nel resto del continente? E secondo lui, quei tecnici e quelle maestranze così capaci incontrati sul set a l’Avana, di che paese e di quale filosofia sono figli? Vorrei rassicurare comunque Pannofino e i suoi colleghi: Cuba non è mai stato e non è un paese rassegnato, perché non è come l’Italia attuale, senza orgoglio e senza dignità.
E la grande stampa progressista non si distanzia molto dalla visione superficiale del nostro cinema d’evasione. Recentemente Guido Rampoldi, scrivendo su Repubblica il solito articolo sulla fine del socialismo a Cuba, sistematicamente annunciata e sempre smentita dalla Storia nell’ultimo mezzo secolo, intervista, come unica voce per raccontare l’isola in questa transizione, Manuel Cuesta Morúa, storico afrocubano che guida la corrente socialista democratica, un gruppo infinitesimale, ma rivale del già citato partito ostentato da Elizardo Sánchez.
Rampoldi se lo porta in visita al Campidoglio, condannando il governo perché ancora non ha trovato i soldi per ristrutturare il monumento [ma tutta l’Avana vecchia, patrimonio dell’umanità chi l’ha ricostruita? Rampoldi?] e conclude sperando che un giorno l’amico Manuel potrà sedere in quel’edificio tornato a essere parlamento. Vorrei umilmente ricordare al collega che intellettuali come il poeta da Nobel Retamar o lo scrittore Miguel Barnet, o perfino cantautori come Silvio Rodríguez, invitato da Bruce Springsteeen alla festa al Madison Square Garden per i novant’anni di Pete Seeger e coscienza di tante generazioni della Rivoluzione, hanno già fatto e tuttora fanno parte del parlamento cubano, anche se trasferito in un altro edificio.
Per questo crediamo che il numero 112 di Latinoamerica soddisferà tutti coloro che amano la verità, non l’informazione al guinzaglio e rifletteranno su una realtà, la sopravvivenza di Cuba, dove l’occidente omertoso e ambiguo, ne esce moralmente con le ossa rotte.
LATINOAMERICA N. 112 (3/2010)
Recentemente Amnesty International ha reso noto che alla data del 15 agosto 2010, a Cuba i prigionieri politici [o “di coscienza”, come li definisce la stessa organizzazione] erano soltanto 27. Poi, dopo una successiva liberazione, in osservanza degli accordi raggiunti a giugno dal governo de l’Avana con la mediazione della Chiesa cattolica e del Ministro degli esteri spagnolo Moratinos, era rimasto un unico recluso anti-sistema, Rolando Jiménez Pozada, in carcere “per disobbedienza e per aver rivelato segreti di Stato”. Una realtà clamorosa, accolta con un silenzio assordante dai media occidentali e perfino dal governo di Washington.
Amnesty, infatti, sottolineava anche che queste persone, liberate e spedite con le loro famiglie in Spagna, nella maggior parte erano state condannate per “aver ricevuto fondi o materiali dal governo degli Stati Uniti per porre in essere attività che la Revolución considerava eversive e pregiudiziali per Cuba”.
L’organizzazione umanitaria, però, aveva dimenticato di evidenziare che il diritto internazionale considera illegale il finanziamento di un’opposizione interna in un’altra nazione sovrana, tanto che nei paesi europei, e negli stessi Stati uniti, è sanzionato severamente il fatto di essere stipendiati da una potenza straniera. Perché la chiave non sta tanto in chi invia il denaro, ma in come viene utilizzato.
In un articolo che pubblichiamo in questo numero 112 di Latinoamerica, Salim Lamrani, ricercatore e docente universitario francese, ha raccolto il parere di Wayne Smith, che fu capo dell’ufficio di interessi degli Stati Uniti a l’Avana dal 1979 al 1982, durante la presidenza di Jimmy Carter. E Smith sull’argomento è drastico: “Nessuno dovrebbe dare denaro ai dissidenti, e ancor meno con l’obiettivo di far cadere il governo cubano [iniziativa che è palese nel piano Cuba libre] perché, quando si esplicita questo obiettivo, si mettono gli stessi dissidenti nella condizione di diventare agenti pagati da una potenza straniera per abbattere il proprio governo”.
Non insisterò, quindi, su un aspetto imbarazzante della politica nordamericana nei riguardi di Cuba che dura da mezzo secolo, anche se molti “democratici” continuano a dimenticarlo quando parlano dei limiti della Revolución. I famosi dissidenti, salvo pochi casi degni di rispetto, ricevevano soldi dagli Stati Uniti dai gruppi e dai soggetti più discutibili di quella società, come è il caso del terrorista Santiago Álvarez, ora in carcere in Florida perché scoperto con una macchina piena di armi ed esplosivi, che sovvenzionava le mitiche Dame in bianco.
Mi preme di più, nell’apprendere le notizie sulle aperture politiche decise dal Raúl Castro, sottolineare l’atteggiamento del presidente degli Stati Uniti Barack Obama che, negli stessi giorni, ha prorogato l’estensione della “Legge contro il commercio con il nemico”, azione che serve a mantenere il blocco economico, commerciale e finanziario contro Cuba.
La Casa bianca ha solo diffuso, in un comunicato che Obama ha firmato, un memorandum inviato al Segretario di stato Hillary Clinton e al Ministro del tesoro Timothy Geithner nel quale si dà notizia che la legislazione in merito è prorogata fino al 14 settembre 2011. Nel testo Obama aggiunge, come unica giustificazione, che “la continuazione per un anno di queste misure riguardanti Cuba conviene agli interessi nazionali degli Stati Uniti”. Con questo argomento Washington ribadisce che secondo il suo punto di vista, Cuba -anche se non lo è stato mai- continua a essere un rischio per la sicurezza del paese, e pertanto, proibisce alle aziende degli Stati Uniti o a quelle di altri paesi che hanno anche una minima partecipazione nordamericana, di commerciare con il paese della Revolución. Cuba infatti è l’unica nazione al mondo soggetta alle sanzioni della “Legge contro il commercio con il nemico” dopo che nel 2008 l’amministrazione di George W Bush aveva deciso di non rinnovare l’applicazione di questa misura restrittiva perfino
alla Corea del nord. Dispiace, ma l’atteggiamento appare proprio come un’incapacità di accettare che esistano altri modi di vivere, di governarsi, di organizzare la propria società. Scelte contrarie al pensiero unico neoliberale, che hanno evidentemente influenzato l’America latina che cambia e abbandona in molti casi l’ossequio agli interessi degli Stati Uniti.
Un peccato mortale, da punire contro ogni logica, anche da parte di un’amministrazione democratica, che è ricorsa ai soliti metodi meschini. Per esempio montare contro Cuba una guerra mediatica di mesi, adducendo come motivo lo sciopero della fame per il quale era morto Orlando Zapata, una condotta prontamente dimenticata quando, come adesso, 34 indigeni Mapuche, eredi di un’etnia depredata e sterminata in Cile, attuano la stessa forma di protesta contro una legge voluta da Pinochet e che equipara la loro iniziativa a un atto di terrorismo.
Oppure, ignorare l’assassinio di Norma Irene Pérez, la colombiana madre di quattro figli che aveva fatto scoprire la più grande fossa comune del mondo postbellico [duemila cadaveri], che cela probabilmente gli assassinii e le efferatezze del regime di Álvaro Uribe [presidente fino a pochi mesi fa] l’alleato più stretto degli Stati Uniti in Sudamerica, responsabile di nefandezze come i cosiddetti falsos positivo (in prevalenza contadini assassinati e poi vestiti da guerriglieri per dimostrare che i piani del governo contro le Farc, generosamente finanziati da Washington, funzionavano egregiamente).
Il problema è sempre quello dell’etica dell’informazione. Asservirsi così platealmente agli interessi politici degli Stati uniti, fino a condividerne acriticamente le direttive, non è indice di indipendenza e nemmeno di logica, di morale. Perché quello messo in atto contro Cuba dal Dipartimento di stato e dai paesi suoi vassalli nei mesi che vanno dall’inverno 2010 fino all’inizio dell’estate, è stato spudoratamente il tentativo scorretto di bloccare l’annunciata iniziativa del ministro degli esteri spagnolo Miguel Angel Moratinos di tornare a un rapporto normale con Cuba dopo le sanzioni, perfino culturali, che la Comunità europea aveva superficialmente inflitto all’isola nel 2003. In quella stagione, come ha raccontato nel maggio scorso in un’intervista radiofonica a un’emittente della catena Univisión di Miami, Roger Noriega, ex sottosegretario di stato Usa per gli affari dell’emisfero occidentale, Bush jr aveva tentato di dare una spallata definitiva al governo de l’Avana. C’erano stati perfino dirottamenti di aerei e del ferryboat di Regla, imprese che nessun dissidente avrebbe potuto metter in piedi senza i dollari e gli aiuti di Washington che, d’altro canto, aveva già lanciato l’operazione “Cuba libre”. Allo stesso modo nessun Noriega, né Cason, all’epoca capo dell’ufficio di interessi degli Stati uniti a l’Avana e suo complice in questa operazione insensata, avrebbe potuto decidere questa azione senza l’avallo della Casa bianca. Saul Landau e Nelson Valdés lo spiegano e lo denunciano in un articolo, che pubblichiamo in questo numero di Latinoamerica e che si pone diversi interrogativi. Fu quello un momento delicatissimo dei rapporti mai risolti fra i due paesi, considerata l’ingerenza plateale degli Stati Uniti nella vita di un altro paese sovrano. La Revolución, ancora guidata da Fidel, aveva reagito -purtroppo- con durezza, arrivando a condannare alla fucilazione tre degli undici responsabili dell’assalto ai turisti del ferryboat, un atto che rompeva la moratoria sulla pena di morte che Cuba rispettava da anni e che avrebbe ripreso a rispettare subito dopo.
La Comunità europea, aizzata dall’allora primo ministro spagnolo Aznar, che aveva avuto una parte della sua campagna elettorale pagata dalla famigerata Fondazione cubano americana di Miami, aveva punito Cuba senza nemmeno porsi il problema delle responsabilità degli Stati uniti nell’interferire sulla vita di un paese indipendente che aveva subito anche l’offesa del terrorismo che partiva dalla Florida. Senza contare che, dopo l’11 settembre, la stessa Comunità europea aveva riconosciuto il diritto degli Stati Uniti di difendersi in ogni modo, anche illegale, anche con i sequestri di indiziati che venivano portati in nazioni dove era possibile praticare la tortura, mentre, nello stesso tempo, negava a Cuba il diritto di tutelarsi.
Dopo sette anni la Spagna di Zapatero, per una sorta di retaggio culturale ma anche per il precedente poco esaltante legato agli interessi di Aznar, sentiva il bisogno di rivedere la cosiddetta “posizione comune dell’Europa” nei riguardi della Revolución, il famoso “kamasutra europeo”, come lo ha definito ironicamente il prestigioso cantautore cubano Silvio Rodríguez.
Ma al Segretario di stato nordamericano Hillary Clinton, questo progetto portato avanti dal ministro Moratinos non piaceva, anche perché, nel frattempo, l’influenza di Cuba nell’evoluzione politica e sociale dell’America latina aveva portato il continente a un riscatto, palesemente rappresentato da nove paesi che avevano scelto governi di sinistra. Una vera sconfitta per gli Stati Uniti in quello che era stato il “cortile di casa” e che si avviava, invece, con l’Alba, il Mercosur, il Banco del Sur, la rifondazione dell’Organizzazione degli stati americani [Osa] e l’informazione di TeleSur, a mettere in piedi un’alleanza continentale progressista, sul modello proprio della Comunità europea.
Gli analisti del Dipartimento di Stato decisero quindi che era arrivato il momento di usare con Cuba, laboratorio politico di questo rivoluzionario cambiamento, i vecchi metodi.
1] Comprare la dissidenza meno sincera e credibile.
2] Cavalcare il malessere che non solo la crisi economica mondiale, ma anche le antiche deficienze dell’economia socialista, facevano montare nella società.
3] Influenzare l’informazione attraverso strutture come i Reporters sans frontiéres, allenati e pagati per propagandare quello che la Cia dirama o nascondere quello che è sconveniente per la stessa agenzia.
4] Appoggiarsi a giornali come el País che, per gli interessi del gruppo Prisa di cui fa parte, da tempo non sopporta più il vento di riscatto che soffia nella maggior parte dell’America latina.
Tutto questo incrementando, nei riguardi di Cuba, la cyberguerra, strumento moderno e capzioso teorizzato e messo in piedi qualche anno fa da Donald Rumsfeld, il ministro della guerra di Bush. La cyberguerra non è uno strumento per far nascere malesseri interni bensì per creare malumori, pregiudizio, diffidenza all’esterno, nelle nazioni che potrebbero aiutare Cuba o gli altri “paesi canaglia” del continente [Venezuela, Bolivia, Ecuador e in certi momenti perfino l’Argentina dei Kirchner e il Brasile di Lula] paesi che stanno mettendo di cattivo umore le multinazionali nordamericane ed europee con le nazionalizzazioni e il recupero delle proprie risorse e stanno puntando a un futuro di esplicita indipendenza.
Il lavoro è stato portato avanti con uno sciopero della fame fra i più mediatici che si ricordi e con la costruzione di un’eroina, Yoani Sánchez che, attraverso media ben disposti come appunto El País in Spagna e, da noi, La Stampa e Internazionale, comunicava e comunica il suo malessere quotidiano, il suo costante dimenticarsi delle conquiste sociali -riconosciute a Cuba da tutti gli organismi internazionali- e forniva il quadro di un paese senza domani.
Ora, chiunque conosca il sud del mondo e la stessa America latina considera una barzelletta dolersi, per esempio, del fatto che, se piove, i suoi concittadini debbano ripararsi con buste di plastica [come se nel resto del continente tutti avessero dei trench in stile inglese].
Ma questo apparato montato per mesi un risultato l’ha raggiunto: ha maldisposto l’ipocrita Comunità europea che, in un mondo di ingiustizia, crudeltà, violenza e corruzione, è rimasta colpita solo dalla morte di Orlando Zapata in sciopero della fame e ha deciso di tenere ancora in sospeso il suo rapporto con Cuba mentre solo un paio di stagioni fa ha accolto a Bruxelles, come un vero statista, Álvaro Uribe, l’ex presidente della Colombia responsabile di mattanze e fosse comuni come quelle che abbiamo raccontato al piede delle pagine precedenti e che non ha avuto nessuno spazio nei liberi media occidentali.
Questi vecchi metodi di comunicazione scorretta, orchestrati e sorretti da UsAid, Ned, Freedom House, Reporters sans frontiéres, insomma i soliti apparati di propaganda della Cia, con la complicità di gran parte dei media italiani [anche alcuni di quelli presuntamente di sinistra] non sono alla fine serviti più di tanto. Perché il cocciuto Moratinos, bloccato durante il semestre spagnolo di presidenza della Ue, ha convinto Raúl Castro, con l’aiuto e la mediazione strategica della Chiesa cattolica cubana [come racconta Frei Betto in questo numero della rivista] a liberare quasi tutti i prigionieri politici o di coscienza incarcerati nel 2003, quando gli Stati Uniti, come detto, provarono ancora una volta a chiudere violentemente i conti con Cuba.
Anche in questo frangente i media occidentali hanno fatto, nella maggior parte, la solita figura dei vassalli degli Stati Uniti, privilegiando nel calcolo dei prigionieri politici la lista fornita dal dissidente per professione Elizardo Sánchez, reputata da tutti i media internazionali come la meno affidabile, a causa dell’inclusione di individui condannati per gravi atti di terrorismo. Proprio Miguel Angel Moratinos, ai giornalisti che sono andati ad accoglierlo al suo arrivo a l’Avana, ha affermato, sarcastico: “Non dite che bisogna liberarne 300, perché non ce ne sono 300. La stessa lista resa nota da Sánchez, portavoce della Commissione diritti umani di Cuba, una settimana prima che arrivassi io parlava di 202 detenuti, quando poi sono arrivato a Cuba la cifra era diminuita a 167”.
Non a caso, l’agenzia nordamericana Associated Press, sottolineando il carattere dubbio della lista di Elizardo Sánchez, ha segnalato che, fra i 100 presunti dissidenti che secondo lui rimarrebbero in carcere, la metà è stata condannata per terrorismo, sequestri e altri delitti violenti.
Il presidente del parlamento cubano, Ricardo Alarcón, che da sempre si occupa anche del problema dei Cinque connazionali in carcere negli Stati Uniti per aver scoperto e reso pubbliche le centrali terroristiche attive in Florida contro l’isola, ha commentato amaramente: “Coloro che discutono la lista delle persone da noi liberate perché non dicono esplicitamente che stanno chiedendo la libertà di chi ha assassinato Fabio Di Celmo?”(2).
Amnesty international, come ricorda Salim Lamrani nel puntuale articolo pubblicato in questo numero di Latinoamerica, ha dichiarato “di non poter considerare come ‘prigionieri di coscienza’ molti dei componenti della lista proposta ai media da Elizardo Sánchez perché sono risultati essere persone processate per terrorismo, spionaggio e che hanno tentato perfino, riuscendoci, di far esplodere degli alberghi. Per questo non ne chiederemo la liberazione e non li qualificheremo come ‘prigionieri di coscienza’”.
Peccato che la stessa Amnesty, solo due mesi prima, avesse comunicato che “un clima di paura si era generato nell’isola per le restrizioni alla libertà d’espressione”. Quando si dice l’esigenza di barcamenarsi senza infastidire troppo il governo di Washington.
E secondo voi i giornali italiani [i telegiornali nemmeno ne hanno parlato] quale lista di presunti dissidenti cubani hanno preso per buona?
Tutto questo lavorio, alla fine, non ha premiato però il Dipartimento di stato. Dai tempi in cui Wayne Smith trattava per il presidente Jimmy Carter un riavvicinamento con Cuba, poi abbandonato per l’elezione di Reagan, chi ha tentato un vero passo verso un dialogo fra i due paesi è stata solo la Revolución. E se l’informazione ha ancora uno straccio di onestà deve riconoscere che ora è Barack Obama a dover rispondere ai fatti messi in campo da Raúl Castro, e non alle parole della Comunità europea o ai consigli di Hillary Clinton.
Fa pena a questo punto ricordare le dichiarazioni di presunta fermezza di quello che in teoria si occupa per l’Italia di politica estera, il ministro Franco Frattini. Evidentemente senza conoscere a fondo la realtà, come spesso gli capita, in primavera esternava senza ritegno su Cuba e sui diritti umani. Mi domando che iniziativa prenderà adesso, dopo le rivelazioni di Roger Noriega e dopo le puntualizzazioni del suo collega spagnolo Moratinos. Chiederà una censura europea al governo degli Stati Uniti per aver l’abitudine di non rispettare il diritto di autodeterminazione dei popoli e per essere portatore di eversione in una parte dell’America latina?
Mentire evidentemente è una pratica di molti nostri politici, ma ci vuole una bella faccia tosta, dopo la martellante campagna di primavera di quasi tutti i media italiani che stigmatizzavano Cuba dopo la morte di Zapata, ma ignoravano la mattanza di giornalisti in Messico e nell’Honduras “normalizzato” [rispettivamente 11 e 10 nel solo 2010], per fare dichiarazioni di questo tipo: “Sono stupefatto del silenzio che anche in Italia c’è intorno alla vicenda dei dissidenti cubani. Mentre quando si tratta di dissidenti cinesi o birmani, o di altri Paesi in giro per il mondo, ci sono interrogazioni, proteste, manifestazioni, in questo caso c’è soprattutto silenzio.” E bisogna essere veramente spudorati per rispondere a una successiva domanda di Marco Galluzzo del Corriere della Sera riguardo agli affari che l’Italia fa con la Cina, dove succedono cose che a Cuba non sono mai accadute: “La Cina ha fatto enormi passi avanti da Tienanmen in poi ed è diventata un interlocutore politico internazionale di prima grandezza. Non è un doppio standard perché Pechino dà contributi positivi al mondo su moltissimi contesti”.
Ma dove vive il ministro Frattini? Lo sa che in Cina ci sono più di mille fucilati all’anno? E lo sa, al contrario, che ci sono 70mila medici cubani nei paesi del sud del mondo, dove non arrivano nemmeno le agenzie dell’Onu? E lo sa che dalla Scuola di medicina de l’Avana, fondata 10 anni fa là dov’era la scuola della marina, sono già stati laureati più di settemila ragazzi, provenienti dai paesi più poveri del mondo, che hanno preso l’impegno di andare a esercitare la professione nei luoghi più impervi dei loro paesi, dove un medico non l’hanno mai visto?
Alla Scuola di medicina latinoamericana [che ho filmato per il documentario Cuba nell’epoca di Obama che spero di presentare nei migliori Festival] ci sono perfino studenti dei ghetti delle grandi città nordamericane, che non avrebbero mai potuto diventare dottori nel paese più ricco del mondo. Non a caso, proprio Obama ha dichiarato: “L’impatto dei medici cubani nel sud del mondo è stato più vincente di molte nostre strategie politiche”. Potremmo ricordare molte altre cose a Frattini, dai maestri elementari cubani che lavorano nelle favelas del continente ai cineasti che escono dalla Scuola di cinema di San Antonio de los Baños e che permettono a tanti giovani del sud del mondo di coltivare sogni che, certamente, finora la Cina, citata dall’ipocrisia del ministro, non ha voglia o tempo di aiutare.
Ci limiteremo a ricordargli che quando, qualche anno fa, uno tsunami travolse le nazioni affacciate sull’Oceano indiano, l’Indonesia chiese all’Onu come organizzarsi in caso di ripetersi del terribile fenomeno. Bene, le Nazioni unite consigliarono di rivolgersi a Cuba, dove la Protezione civile era magari povera, ma efficientissima e organizzata. Recentemente è stata Haiti a beneficiare di questa capacità e dell’organizzazione sanitaria che in una notte i cubani hanno saputo mettere su nell’isola di radice francese e africana devastata dal terremoto. Gli Stati Uniti, invece, hanno mandato i marines. Ma può capire queste sfumature Frattini, che è apparso così contento di scodinzolare attorno a Gheddafi?
Per quanto, l’informazione italiana non è da meno. Sul Corriere della Sera, per esempio, Emilia Costantini, raccontando di un cinepanettone con Brignano e Pannofino in lavorazione a l’Avana, segnala con apprensione che i cubani, fornitori del set e di maestranze preparatissime, hanno chiesto di cambiare la cittadinanza della protagonista [ovviamente una jinetera, una escort si direbbe dopo le sortite del nostro presidente del consiglio] che, invece di essere cubana è colombiana. Insomma, a parte la povertà dell’ispirazione degli sceneggiatori su un clichet che per fortuna l’isola da qualche anno si è scrollata di dosso [mancano solo il tassista antisistema con i rayban sulla punta del naso e l’intellettuale deluso, sicuro che in occidente gli farebbero ponti d’oro] io mi chiedo: ma chi fa comunicazione non si domanda mai perché Cuba resiste all’assedio degli Stati Uniti da più di 50 anni?
E noi italiani, in un paese dove le escort sono diventate una quotidianità, quasi uno status symbol, possiamo ancora fare delle jineteras l’esempio per raccontare quel paese? Infine anche un attore intelligente come Pannofino, che afferma “i cubani sono persone buone e rassegnate” si è mai domandato perché tutta l’America latina che sta vivendo un vero rinascimento continua ad andare in pellegrinaggio da sempre a Cuba dove esistono istituti culturali inesistenti nel resto del continente? E secondo lui, quei tecnici e quelle maestranze così capaci incontrati sul set a l’Avana, di che paese e di quale filosofia sono figli? Vorrei rassicurare comunque Pannofino e i suoi colleghi: Cuba non è mai stato e non è un paese rassegnato, perché non è come l’Italia attuale, senza orgoglio e senza dignità.
E la grande stampa progressista non si distanzia molto dalla visione superficiale del nostro cinema d’evasione. Recentemente Guido Rampoldi, scrivendo su Repubblica il solito articolo sulla fine del socialismo a Cuba, sistematicamente annunciata e sempre smentita dalla Storia nell’ultimo mezzo secolo, intervista, come unica voce per raccontare l’isola in questa transizione, Manuel Cuesta Morúa, storico afrocubano che guida la corrente socialista democratica, un gruppo infinitesimale, ma rivale del già citato partito ostentato da Elizardo Sánchez.
Rampoldi se lo porta in visita al Campidoglio, condannando il governo perché ancora non ha trovato i soldi per ristrutturare il monumento [ma tutta l’Avana vecchia, patrimonio dell’umanità chi l’ha ricostruita? Rampoldi?] e conclude sperando che un giorno l’amico Manuel potrà sedere in quel’edificio tornato a essere parlamento. Vorrei umilmente ricordare al collega che intellettuali come il poeta da Nobel Retamar o lo scrittore Miguel Barnet, o perfino cantautori come Silvio Rodríguez, invitato da Bruce Springsteeen alla festa al Madison Square Garden per i novant’anni di Pete Seeger e coscienza di tante generazioni della Rivoluzione, hanno già fatto e tuttora fanno parte del parlamento cubano, anche se trasferito in un altro edificio.
Per questo crediamo che il numero 112 di Latinoamerica soddisferà tutti coloro che amano la verità, non l’informazione al guinzaglio e rifletteranno su una realtà, la sopravvivenza di Cuba, dove l’occidente omertoso e ambiguo, ne esce moralmente con le ossa rotte.
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