di Roberto Tamborini. Fonte: nelMerito.
Politica e Istituzioni
Economia e Diritto sono due parole dense del nostro tempo. Sono due discipline egemoni della scienza e del governo della società. Sono due modalità diverse, distinte, ma intersecate, con cui la società si organizza e si rappresenta.
I loro reciproci estremi caricaturali, Mercato e Stato, hanno catalizzato le passioni e le ideologie del Novecento.
Politica e Istituzioni
Economia e Diritto sono due parole dense del nostro tempo. Sono due discipline egemoni della scienza e del governo della società. Sono due modalità diverse, distinte, ma intersecate, con cui la società si organizza e si rappresenta.
I loro reciproci estremi caricaturali, Mercato e Stato, hanno catalizzato le passioni e le ideologie del Novecento.
Come ha scritto Martha Nussbaum, la seconda metà del Novecento è stata l'epoca dell'espansione dei diritti, personali, civili, politici, sociali, economici. Espansione significa il loro crescente numero e status giuridico fino (per alcuni) al rango costituzionale. La costituzione repubblicana del nostro paese, nata all'inizio di tale epoca, ne è emblematica.
In essa sono inscritti, o da essa discendono, una molteplicità di diritti che s'innervano profondamente nella sfera economica della società: diritto al lavoro, diritto alla salute, diritto all'istruzione, diritto alla casa, e molto ancora. I cittadini nati e cresciuti vigente questa carta costituzionale, per non parlare della generazione che ha combattuto per ottenerla, tendono a identificare e a misurare la loro cittadinanza, e forse la loro stessa appartenenza alla comunità nazionale, con la realizzazione di tali diritti nella propria vita concreta.
Ma l'espansione dei diritti, per realizzarsi con la "forza della legge", deve prevedere una pari espansione dei doveri. Si risale alla nota distinzione tra "diritti positivi" e "diritti negativi".
Se ad un soggetto avente un diritto non corrisponde un soggetto avente il corrispettivo dovere, tale diritto rischia di rimanere una pura petizione di principio. Senza sminuire minimamente l'importanza delle petizioni di principio: qual è il soggetto che ha il dovere di dare lavoro, salute, istruzione, casa, …, a chi, si dice, ne ha diritto?
Questa semplice, ma fondamentale, domanda mette in luce uno punto di tensione tra espansione dei dritti nella sfera economica e Mercato, ossia quell'organizzazione della sfera economica della società dove il principio di default (quello che si applica sempre, tranne che nei casi espressamente previsti) non è già quello della conformità a prescrizioni di legge, ma quello della libera contrattazione tra i soggetti privati. Per dirlo in maniera cruda e diretta, in un'economia di mercato nessun soggetto privato ha il dovere di dare lavoro, salute, istruzione, casa, a nessun altro.
Il Mercato fa transitare la realizzazione di questi diritti (se proprio si desidera sancirli come tali) attraverso il calcolo economico della convenienza individuale. Dunque l'espansione di questi diritti è stata, è, un mero esercizio retorico (o peggio, una cortina fumogena ai danni di chi sta sul "lato corto" del mercato)?
No: essa è servita a legittimare lo sviluppo e l'affermazione delle dottrine economiche (e politiche e giuridiche) che per brevità possiamo chiamare "socialdemocratiche", laddove esse
1) hanno delineato i criteri di valutazione delle realizzazioni del Mercato, e dunque i requisiti della sua legittimazione sociale,
2) hanno realizzato un ampiamento dello spazio delle prescrizioni di legge rispetto a quello della libertà contrattuale,
3) hanno individuato nello Stato il "titolare di ultima istanza" dei doveri economici (lasciatemeli chiamare così) non realizzati o non realizzabili dal Mercato.
Questa sutura tra Mercato e diritti, che senza dubbio è stata efficace per vari decenni, ha cominciato a strapparsi di nuovo man mano che la loro espansione nella sfera economica ha dovuto fronteggiare quello che gli economisti chiamano il vincolo delle risorse, che ha un dimensione di livello ("quanto costa" realizzare i diritti) e una distributiva ("chi paga" e "chi riceve").
Per evocare un concetto famoso, matura la "crisi fiscale" dello Stato sociale (soprattutto quello del continente europeo). Non so dire se come causa o come effetto di questo processo (probabilmente entrambi), il Mercato, in varie forme e modalità, ha puntato a riprendersi su scala mondiale lo spazio ingombro di diritti e doveri.
Evento simbolico, e non solo, il crollo dell'89 della realizzazione storica dello Stato depositario unico e assoluto dei diritti e dei doveri economici. Gli economisti fautori di questa visione hanno spiegato, in parole semplici, che se non ci sono risorse per dare lavoro (sanità, istruzione, previdenza ecc.) prodotte e distribuite dal Mercato, non ci sono neanche per opera dello Stato. Non ci sono diritti "veri" senza risorse "vere", e l'esistenza, o meno, di queste ultime dipende dall'espansione del Mercato.
Una visione più armoniosa, del tipo "fattori immateriali della crescita", ci dice che l'espansione di certi diritti (salute ed istruzione in primis) ed espansione del Mercato vanno a braccetto; insomma, per dirla in parole semplici, quei certi diritti si autofinanziano. Questa visione riapre importanti margini di manovra, ma occorre essere consapevoli che l'alchimia è difficile da creare, e che nel contesto molto molto poroso della globalizzazione (come dirò meglio tra breve) essa può evaporare assai facilmente. Il nostro paese ha partecipato a queste grandi tendenze storiche, naturalmente con le sue numerose anomalie.
Per esempio, in Italia più che altrove, è stato, ed è, un errore di lettura della società pensare che la subordinazione dei diritti economici al Mercato sia stata accolta con entusiasmo, o quanto meno con la piena consapevolezza e coerenza delle sue implicazioni. La nascita di una "società liberale di massa", e del relativo partito, è stata una breve illusione nella transizione traumatica dalla Prima alla Seconda repubblica.
La crisi fiscale dello Stato sociale non è stata neanche affrontata a viso aperto (né da destra, né da sinistra), ma solo tamponata malamente, perché i ceti emergenti e dominanti della Seconda repubblica, si sono affidati a forze politiche che (con successo, dal loro punto di vista) hanno cercato di tenere insieme le attrazioni e la retorica degli animal spirits dei tempi nuovi, con la continuazione di una forte e pervasiva presenza di offerta politica di diritti economici (e privilegi e protezioni, per altro con criteri più discriminatori di scambio elettorale rispetto ai grandi partiti interclassisti della Prima repubblica).
Il sostanziale fallimento della Seconda repubblica su questo fronte, ci lascia interamente in eredità il problema del divorzio tra diritti e risorse, certo in compagnia di gran parte dell'umanità di questo secolo, ma con l'aggravante che qui da noi né il Mercato né lo Stato funzionano al meglio come in altri paesi.Nello stesso tempo, la storia sta scrivendo e seguendo una seconda trama che vede il Mercato protagonista unico della creazione e distribuzione di risorse.
E' la storia che possiamo leggere dietro la crisi finanziaria mondiale o, in casa nostra, dietro la vicenda Fiat, e che possiamo rappresentare invertendo i termini del dilemma: risorse senza diritti. Il Mercato, nelle sua varie forme e articolazioni, è in grado di mobilitare e mettere in campo enormi risorse, ma chiede e più spesso impone una compressione dei diritti economici che si erano espansi nel secolo scorso.
Si tratta, naturalmente, di una domanda di riduzione dei propri simmetrici doveri, cioè regole, vincoli, "lacci e lacciuoli". Ma anche, talvolta, di un'operazione ideologica di accorciamento tout court della "lista dei diritti", della mera elencazione delle realizzazioni che un cittadino può legittimamente aspettarsi dalla sfera economica della società.
Penso ad esempio al mantra dell'obsolescenza della nostra costituzione. Meno aspettative, meno pretese, meno lamentele.Chi mette le risorse sul piatto detta le regole del gioco. Difficile contestare in radice questo principio, che, più o meno ruvidamente, sta alla base dell'idea stessa d'impresa privata. Tuttavia, esiste una vasta gamma di sue incarnazioni con diverse estensioni delle regole disponibili.
Dati i tempi che corrono è forse il caso di ricordare che, come s'insegnava a scuola ai bei tempi dell'Educazione civica, in una società civile la mia libertà si arresta laddove inizia quella altrui. Il bilanciamento dell'estensione e dei limiti delle libertà individuali è precisamente tracciato dalle leggi, e vigilato dagli organi istituzionali. Esso può realizzarsi in forme più compresse o più espanse, ma non esistono luoghi franchi dove esso cessa di vigere.
Per altro, la teoria economica ha chiarito (per chi lo vuol sapere e dire) due punti importanti:
1) il concetto di efficienza del Mercato è muto rispetto a giudizi di valore (cosa è più giusto produrre, come è più giusto produrre, ecc.);
2) non è un concetto assoluto, ma una misura relativa ad una serie di dati (dotazioni di fattori produttivi, tecnologia, preferenze di lavoratori e consumatori) e vincoli, tra i quali le regole del gioco fissate dalla società in cui l'impresa opera.
E' possibile che l'utilizzo di manodopera infantile a basso costo aumenti l'efficienza della produzione, ma questo non è un buon argomento per chiedere di abolire il divieto del lavoro minorile ad una società che lo ritiene immorale. Questa società richiederà alle proprie imprese di essere efficienti dato il vincolo di utilizzare solo manodopera adulta.
E, attenzione, tutti dovranno astenersi dal confrontare, o pretendere, i risultati d'imprese che altrove utilizzano la manodopera infantile.Però, questa tendenza storica alla separazione tra risorse e diritti ha molte spinte e molte gambe su cui avanzare. Mi parrebbe riduttivo e fuorviante pensare solo alla onnipresente sete di profitto. Che esiste, ed è probabilmente rilevante per capire cosa è successo nel sistema finanziario, ma non sembra altrettanto esplicativa di quanto avviene negli altri settori dell'economia.
La Fiat, per esempio, non sembra mossa da un'insensata sete di profitto, quanto piuttosto dall'istinto di sopravvivenza nell'arena della competizione globale. In questo contesto, mi sembra sempre valida la tesi ben nota che punta il dito su uno degli effetti storici della globalizzazione: il cosiddetto "arbitraggio dei diritti".
La lista dei diritti e dei doveri economici non si scrive più nelle arene politiche delle "economie sociali di mercato", ma in quelle, assai più primordiali, delle "nuove frontiere" del mondo economico emergente.
Certo, la Fiat non chiede all'Italia la rinuncia a diritti o norme morali fondamentali della propria identità civile (anche se la questione della rappresentanza sindacale tocca princìpi generali di prim'ordine), ma essa s'inscrive nello scenario delineato.
Se questo è lo scenario, la soluzione del problema delle risorse senza diritti si presenta ancor più ardua di quella dei dritti senza risorse. Ma un punto fermo da cui partire possiamo fissarlo: è semplicemente incredibile, e inaccettabile, che l'organo regolatore per eccellenza, il governo, possa chiamarsi fuori da questa partita.
Badate bene: chiamarsi fuori, cosa ben diversa da agire, almeno, come arbitro della partita e delle sue linee di demarcazione (tanto più se queste appaiono incerte alla vista dei contendenti). Osiamo sperare che nessuno pensi, o almeno pretenda apertamente, che l'impresa privata possa diventare il campo di puri rapporti di forza transnazionali
Mi fermo qui. Naturalmente non ho ricette, consigli e soluzioni per problemi di tale portata. Ho solo provato ad offrire una prima cornice di concetti, e punti di riferimento, entro cui cercare. Per evitare pericolose vie di fuga in avanti, indietro, o semplicemente altrove.
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