di Moreno Pasquinelli. Fonte: sollevazione
Si dice che dobbiamo “onorare” il debito, altrimenti, ove lo Stato italiano non pagasse ciò sarebbe non solo "disonorevole" ma causerebbe il default, la bancarotta, la catastrofe economica, la fine del mondo. Si tratta di uno ragionamento che non si sta in piedi, né dal punto di vista politico, né da quello morale e, quel che è peggio, non ha alcun rigore scientifico. E’ uno spauracchio la cui validità è pari a quella della minaccia della dannazione perpetua dell’anima in caso di peccato mortale.
Ad ogni peccato deve corrispondere una espiazione, come nel diritto ad ogni reato una pena. Nell’un caso e nell’altro si tratta di meccanismi per normare la vita associata. Chi decide cosa sia peccato o meno, cosa sia lecito o meno, è sempre un’autorità costituita, sia essa ierocratica o secolare, la quale infine, grazie al monopolio della forza, commina la condanna e obbliga il reo a scontare la pena. Ove l’autorità costituita, pur ostentando la propria terzietà, è invece sempre uno strumento della classe dominante, o di un’alleanza delle classi dominanti.
Lo spauracchio ideologico del default
Lo spauracchio ideologico del default funge oggigiorno da peccato mortale, è il pretesto con cui la potenza dominante, ovvero il capitalismo finanziario globale, minaccia gli stati indebitati che in caso di ripudio essi verranno condannati all’inferno, ove l’inferno è l’esclusione perpetua dai mercati finanziari internazionali. Come se questa esclusione fosse una specie di embargo o di blocco economico. Che si tratti di uno spauracchio, di una pistola scarica, lo dimostra la storia dei numerosi default conosciuti in epoca capitalistica, tra cui la serie di default a grappolo che negli ultimi venti anni hanno riguardato svariati paesi tra cui la Russia, la Turchia, le Tigri asiatiche, quasi tutta l’America latina, fino a quello memorabile dell’Argentina del 2001.
Ma cos’è un default? Esso consiste «... nell’inadempimento da parte di uno stato di un’obbligazione per rimborso di capitale o pagamento di interessi alla data di scadenza (o entro il periodo di moratoria prefissato). Questi episodi includono i casi in cui il debito ristrutturato viene infine estinto a condizioni meno favorevoli di quelle dell’obbligazione originaria». [Carmen M. Reinhart e Kenneth S. Rogoff. Questa volta è diverso, Il saggiatore 2009 p.38]
Esso non equivale quindi, sic et simpliciter, come si vuole far credere, alla bancarotta, al fallimento. E anche ove il default diventasse un fallimento, ciò non può riguardare uno Stato. Come affermò Walter Wriston, presidente del colosso americano Citibank «Gli stati non falliscono», può fallire un’azienda, o una banca, non uno Stato. Un’azienda o una banca vanno in bancarotta quando i debiti accumulati sono tali che non possono essere rimborsati in alcun modo. I creditori, grazie alla decisione dell’autorità giudiziaria, procedono allora a pignorare e confiscare i beni patrimoniali del fallito nel tentativo di recuperare le somme prestate. Il trasferimento di valore dal debitore al creditore che prima sarebbe dovuto avvenire con il pagamento di interessi, avviene ora con un atto forzoso, in base alla regola Mors tua vita mea.
Uno Stato non può fallire, a meno che non si verifichino quattro condizioni allo stesso tempo: (1) che esso non disponga più di entrare fiscali e le sue casse si prosciughino perché cittadini e imprese smettono di pagare i tributi; (2) che tutta l’economia sottoposta alla sua giurisdizione cessi di produrre beni e servizi; (3) che i patrimoni che soggiacciono alla sua giurisdizione si volatilizzino; (4) che non possa più battere moneta.
L’Italia non può fallire perché di queste quattro condizioni ne sussiste soltanto l'ultima, visto che da un decennio ha ceduto la sua sovranità monetaria alla Bce. Non può fallire poiché anche in caso di recessione grave l’economia italiana resterebbe pur sempre una grande potenza mondiale, perché anche ove la recessione facesse diminuire le entrate fiscali esse non potrebbero svanire, perché l’ammontare dei patrimoni diretti e indiretti che cadono sotto la sua giurisdizione sono, procapite, tra i più ingenti del pianeta —il patrimonio finanziario totale degli italiani, ha un valore pari a 3.565 miliardi, due volte e mezza il Pil, ed è così composto: obbligazioni, titoli esteri, fondi d'investimento: 44,2%; Titoli di stato italiani: 5%; contante, cc, depositi bancari e risparmio postale: 29,8%; assicurazioni e fondi pensione: 17,7%; altro: 3%. [dati Bankitalia 2009]
Ma anche volendo stare al caso di un’azienda, per capire la differenza tra default e fallimento, si prenda ad esempio il caso di un’impresa che, contratto un debito con una banca, si trovi nell’impossibilità di rimborsare il suo debito alla scadenza pattuita. Cosa fa la banca creditrice? La manda in bancarotta confiscandogli i suoi beni col rischio di avere in cambio un patrimonio illiquido aleatorio? Per niente! Analizza i suoi bilanci, il rapporto tra fatturato e ricavi, apprezza i suoi asset, cerca di capire di che natura sono le difficoltà dell’azienda in questione. Sceglie quindi di negoziare il suo credito con il debitore, dilazionando il rimborso, ricontrattando gli interessi ed eventualmente il capitale. La massima a cui il creditore sempre si attiene è: meglio meno ma meglio. Ciò vale a maggior ragione in situazioni di credit crunch [blocco della moneta circolante], quando il fattore liquidità monetaria è in cima a ogni altra preoccupazione.
Quando di mezzo c’è il debito sovrano di uno Stato ciò vale a maggior ragione. Gli stati che non hanno "onorato" i loro debiti coi prestatori esteri, sono andati in default ma non sono falliti, non hanno chiuso affatto i battenti. Nessun “tribunale fallimentare internazionale”, che infatti non esiste, ha posto loro i sigilli. Tranne rarissimi casi —quattro in tutto, in cui lo stato creditore ha punito con l’aggressione il debitore: guarda caso la Gran Bretagna e gli USA in veste di creditori-aggressori. E nemmeno è vero che la “punizione” per gli stati insolventi sia stata l’espulsione dai mercati internazionale dei capitali. L’Argentina, che nel 2001 conobbe il default di debito estero più grande sino ad allora conosciuto, è lì a dimostrarlo. V’è infine un altro fattore macroscopico che salta agli occhi. Se l’insolvenza per debito estero giunge solo dopo una bolla, un’abbuffata finanziaria-speculativa, è altrettanto vero che dopo un default, pere certi versi proprio grazie ad esso, lo stato insolvente conosce una forte ripresa economica. Clamorosi sono i casi delle Tigri asiatiche, della Russia, del Messico, della Turchia, del Brasile e infine proprio dell’Argentina.
Il debito italiano, l’inganno del “debito sovrano” e il default.
Lo stato è indebitato per la mastodontica cifra di 1.900 miliardi di euro con chi ha acquistato i suoi titoli di stato. A questa cifra vanno aggiunti gli interessi i quali vanno crescendo, e vanno crescendo non perché lo Stato continui a spendere più di quanto incamera, ma a causa dello smottamento dell’eurozona, il quale determina la fuga dei creditori dal mercati finanziari europei.
Ma chi detiene questi titoli. Fatta eccezione per una quota che era del 5% (dato di tre anni fa e che al massimo è giunta al 10% nell'anno corrente) in mano a cittadini e imprese italiani, tutto il resto, ovvero più o meno il 90%, circola nei mercati finanziari mondiali, è transato nelle borse, e dunque soggetto alle oscillazioni, ai capricci di questi mercati —che, beninteso, non sono governati da una mano invisibile, ma soggiacciono alle mosse e ai capricci dei predoni più grandi.
Per la precisione il debito italiano è in mano a banche (tra cui le banche centrali e la stessa Bce), fondi privati e sovrani, fondi ad alto rischio [hedge], gruppi assicurativi, sia italiani che stranieri. Di questo 85% di debito circa 60% è posseduto da creditori esteri, mentre il 40% è posseduto da banche e assicurazioni italiane. Quando parliamo di banche si devono intendere le grandi banche d’affari (o di investimento) tipo Unicredit o Intesa, non le tradizionali banche commerciali; banche che agiscono come i fondi speculativi, che utilizzano i risparmi raccolti per moltiplicare i profitti, con investimenti ad alto rischio. Le banche a cui è consentito, attraverso il principio della leva [leverage], di poter investire (e speculare per) cifre superiori di cinque, dieci o quindi volte il capitale a loro disposizione. Questo è il meccanismo che sta alla base dei fallimenti bancari, che secondo chi scrive saranno la miccia dell’imminente collasso europeo —il caso della banca franco-belga DEXIA è solo l’aperitivo.
Fu responsabilità storica degli Amato, dei Draghi e dei Ciampi se a partire dagli anni ’80, a globalizzazione montante, il debito pubblico italiano, che era al 90% debito interno, diventò debito estero, venne immesso nei mercati finanziari speculativi internazionali, e se fu consentito alle banche di mutarsi da commerciali a d’affari, la qualcosa andò in parallelo al colossale processo di concentrazione bancaria, favorito dai governi “tecnici” e di centro-sinistra.
Si trattò di due passaggi decisivi, di due trasformazioni gigantesche. In ossequio alla libera circolazione dei capitali e al mito della globalizzazione il sistema bancario italiano entrò con tutti e due i piedi nella bisca del capitalismo-casinò, gettò la propria liquidità nel gioco d’azzardo. Il debito pubblico, diventando da interno ad estero, venne sottratto alla giurisdizione dello Stato. Qui l’inganno clamoroso della locuzione di “Debito sovrano”: in verità lo Stato non è sovrano del suo debito dal momento che questo è in mano alla speculazione internazionale, e il suo andamento e i suoi rendimenti sfuggono del tutto alla sovranità dello stato indebitato e dipendono dal mercato, dalle mosse dei grandi squali della finanza predatoria. Nel contesto di un sistema segnato dal predominio del capitale finanziario, effettivamente sovrani sono soltanto i predoni-creditori, mentre stati come l’Italia, a maggior ragione perché sovradeterminati in quanto membri dell’Unione europea, sono stati-vassalli e per nulla sovrani.
La prima ragione per andare ad un default programmato del debito estero ( che può declinarsi in varie forme, dal ripudio puro e semplice, alla moratoria alla ristrutturazione negoziata) è quindi propria questa: che solo attraverso questo ripudio lo Stato può riconquistare una fetta della sua propria sovranità politica, cessando di fungere da Stato-esattore anti-popolare per nome e per conto della finanza predatoria internazionale.
La seconda ragione per ripudiare il debito estero è lampante. Quali benefici può avere il popolo italiano dal fatto che lo Stato agisce come esattore di prima istanza per drenare risorse ingentissime a vantaggio della finanza predatoria mondiale, anglosassone anzitutto? Nessuno. “Onorare” questo debito equivale ad accettare una rapina, equivale anzi a fornire denaro al predone malgrado quest’ultimo punti alla tempia una pistola scarica. E’ come se uno fornisse al boia la corda con cui impiccarsi. Il vantaggio del default programmato è che lo Stato disporrebbe delle sue risorse, che non finirebbero nel Pozzo di San Patrizio del capitalismo-casinò, ma potrebbero essere immesse nel mercato interno, per realizzare un piano generale per il lavoro, per sanare il paese dalle sue ferite strutturali, per finanziare la ricerca, l’istruzione pubblica, lo stato sociale, o anche solo per permettere alle aziende di finanziarsi a costi meno onerosi. Non c'è dubbio che un default, per quanto autodeterminato e programmato implica un periodo di sacrifici anche per le masse popolari, ma esso evita ad esse di subire un massacro sociale di proporzioni epocali.
La terza ragione di questo ripudio è che lungi dal rappresentare un cataclisma, la temporanea fuoriuscita dai mercati finanziari di capitale, può essere un grosso vantaggio. Stare in questi mercati può essere relativamente conveniente in fasi di espansione dei mercati finanziari, quando cioè si possono ottenere prestiti a tassi molto vantaggiosi. Tutti gli indicatori mostrano che dopo il 2008 prendere soldi in prestito sui mercati finanziari costa sempre più caro, che i prestatori si comportano come cravattari, come strozzini. Gli interessi che lo Stato deve pagare in questi giorni sono oramai al 7% (tre volte e passa più alti della Germania: in barba al fatto che saremmo in un’Unione!) con effetti devastanti per le imprese italiane che pagano interessi sempre più cari quando chiedono soldi alle banche. Quello greco è un caso clamoroso: se vuole vendere i suoi titoli a dieci anni Atene è obbligata dai mercati a pagare il 25% di interessi. Se si tiene conto che il Fmi presta soldi, anche a paesi a rischio come ad esempio quelli africani ad un tasso del 3/5%, quello verso la Grecia è un caso lampante di usura. Ci sarebbe da portare in tribunale come banditi tutti i prestatori.
Si deve uscire sì da questi mercati, riconvertendo il debito estero in interno, rivendendo i titoli di stato ai cittadini italiani ad un tasso ad esempio del 5%. Ciò che non solo metterebbe al riparo i risparmi degli italiani (preoccupazione di cui tutti i globalisti si riempiono la bocca), ma le casse dello Stato dalle scorribande della cleptocrazia imperialista.
Che fine fanno i debiti contratti dallo Stato con le banche? E qui veniamo alla quarta ragione. Occorre nazionalizzare il sistema bancario e passare ad una banca unica nazionale a gestione pubblica, con la clausola che viene fatto divieto alle banche di agire come banche d’affari. In caso di nazionalizzazione, di presa di possesso delle banche creditrici da parte dello Stato, è evidente che lo stato diventerebbe creditore di se stesso, ovvero il debito verrebbe annullato. Dato che negli ultimi vent’anni le banche hanno spinto i risparmiatori a sbarazzarsi dei tioli per comperare le loro proprie obbligazioni, lo Stato si farebbe garante di questi risparmi cristallizzati in obbligazioni bancarie, convertendoli appunto in titoli di stato.
La quinta ragione è che un default programmato unilaterale, data la consistenza dell’economia e del debito italiani, manderebbe all’aria l’eurozona e spingerebbe, non solo noi, a ritornare alla sovranità monetaria, a battere moneta in proprio, potendo così di nuovo agire su una leva che ha una importanza straordinaria, sia dal punto di vista politico che da quello squisitamente economico, in funzione pro-ciclica o anticiclica. Che l’euro sia una gabbia mortale è dimostrato, senza andare troppo lontano, dai paesi membri dell’Unione europea che hanno mantenuto le loro valute nazionali: essi conoscono quasi tutti una crescita del Pil mentre chi usa l’euro, ora anche la Germania, sono in recessione. La sovranità monetaria, permettendo di agire sui cambi (svalutazione) e sui prezzi (inflazione), consente di agire sia sulle partite correnti (import-export) che sulla curva dei debiti pubblici e quindi su come si ripartisce la ricchezza nazionale.
Nb
Siccome al potere abbiamo dei comitati d’affari dei grandi predatori finanziari e della banche (che son giunti persino a mettere come primo ministro un “podestà forestiero"), per realizzare questo programma occorre un cambio di regime, occorre un governo popolare. Non sappiamo se questo cambio avverrà per tempo, è certo che esso consiste in una sollevazione generale. Se questo cambio di regime non ci sarà, la catastrofe economica e sociale sarà inevitabile.
Si dice che dobbiamo “onorare” il debito, altrimenti, ove lo Stato italiano non pagasse ciò sarebbe non solo "disonorevole" ma causerebbe il default, la bancarotta, la catastrofe economica, la fine del mondo. Si tratta di uno ragionamento che non si sta in piedi, né dal punto di vista politico, né da quello morale e, quel che è peggio, non ha alcun rigore scientifico. E’ uno spauracchio la cui validità è pari a quella della minaccia della dannazione perpetua dell’anima in caso di peccato mortale.
Ad ogni peccato deve corrispondere una espiazione, come nel diritto ad ogni reato una pena. Nell’un caso e nell’altro si tratta di meccanismi per normare la vita associata. Chi decide cosa sia peccato o meno, cosa sia lecito o meno, è sempre un’autorità costituita, sia essa ierocratica o secolare, la quale infine, grazie al monopolio della forza, commina la condanna e obbliga il reo a scontare la pena. Ove l’autorità costituita, pur ostentando la propria terzietà, è invece sempre uno strumento della classe dominante, o di un’alleanza delle classi dominanti.
Lo spauracchio ideologico del default
Lo spauracchio ideologico del default funge oggigiorno da peccato mortale, è il pretesto con cui la potenza dominante, ovvero il capitalismo finanziario globale, minaccia gli stati indebitati che in caso di ripudio essi verranno condannati all’inferno, ove l’inferno è l’esclusione perpetua dai mercati finanziari internazionali. Come se questa esclusione fosse una specie di embargo o di blocco economico. Che si tratti di uno spauracchio, di una pistola scarica, lo dimostra la storia dei numerosi default conosciuti in epoca capitalistica, tra cui la serie di default a grappolo che negli ultimi venti anni hanno riguardato svariati paesi tra cui la Russia, la Turchia, le Tigri asiatiche, quasi tutta l’America latina, fino a quello memorabile dell’Argentina del 2001.
Ma cos’è un default? Esso consiste «... nell’inadempimento da parte di uno stato di un’obbligazione per rimborso di capitale o pagamento di interessi alla data di scadenza (o entro il periodo di moratoria prefissato). Questi episodi includono i casi in cui il debito ristrutturato viene infine estinto a condizioni meno favorevoli di quelle dell’obbligazione originaria». [Carmen M. Reinhart e Kenneth S. Rogoff. Questa volta è diverso, Il saggiatore 2009 p.38]
Esso non equivale quindi, sic et simpliciter, come si vuole far credere, alla bancarotta, al fallimento. E anche ove il default diventasse un fallimento, ciò non può riguardare uno Stato. Come affermò Walter Wriston, presidente del colosso americano Citibank «Gli stati non falliscono», può fallire un’azienda, o una banca, non uno Stato. Un’azienda o una banca vanno in bancarotta quando i debiti accumulati sono tali che non possono essere rimborsati in alcun modo. I creditori, grazie alla decisione dell’autorità giudiziaria, procedono allora a pignorare e confiscare i beni patrimoniali del fallito nel tentativo di recuperare le somme prestate. Il trasferimento di valore dal debitore al creditore che prima sarebbe dovuto avvenire con il pagamento di interessi, avviene ora con un atto forzoso, in base alla regola Mors tua vita mea.
Uno Stato non può fallire, a meno che non si verifichino quattro condizioni allo stesso tempo: (1) che esso non disponga più di entrare fiscali e le sue casse si prosciughino perché cittadini e imprese smettono di pagare i tributi; (2) che tutta l’economia sottoposta alla sua giurisdizione cessi di produrre beni e servizi; (3) che i patrimoni che soggiacciono alla sua giurisdizione si volatilizzino; (4) che non possa più battere moneta.
L’Italia non può fallire perché di queste quattro condizioni ne sussiste soltanto l'ultima, visto che da un decennio ha ceduto la sua sovranità monetaria alla Bce. Non può fallire poiché anche in caso di recessione grave l’economia italiana resterebbe pur sempre una grande potenza mondiale, perché anche ove la recessione facesse diminuire le entrate fiscali esse non potrebbero svanire, perché l’ammontare dei patrimoni diretti e indiretti che cadono sotto la sua giurisdizione sono, procapite, tra i più ingenti del pianeta —il patrimonio finanziario totale degli italiani, ha un valore pari a 3.565 miliardi, due volte e mezza il Pil, ed è così composto: obbligazioni, titoli esteri, fondi d'investimento: 44,2%; Titoli di stato italiani: 5%; contante, cc, depositi bancari e risparmio postale: 29,8%; assicurazioni e fondi pensione: 17,7%; altro: 3%. [dati Bankitalia 2009]
Ma anche volendo stare al caso di un’azienda, per capire la differenza tra default e fallimento, si prenda ad esempio il caso di un’impresa che, contratto un debito con una banca, si trovi nell’impossibilità di rimborsare il suo debito alla scadenza pattuita. Cosa fa la banca creditrice? La manda in bancarotta confiscandogli i suoi beni col rischio di avere in cambio un patrimonio illiquido aleatorio? Per niente! Analizza i suoi bilanci, il rapporto tra fatturato e ricavi, apprezza i suoi asset, cerca di capire di che natura sono le difficoltà dell’azienda in questione. Sceglie quindi di negoziare il suo credito con il debitore, dilazionando il rimborso, ricontrattando gli interessi ed eventualmente il capitale. La massima a cui il creditore sempre si attiene è: meglio meno ma meglio. Ciò vale a maggior ragione in situazioni di credit crunch [blocco della moneta circolante], quando il fattore liquidità monetaria è in cima a ogni altra preoccupazione.
Quando di mezzo c’è il debito sovrano di uno Stato ciò vale a maggior ragione. Gli stati che non hanno "onorato" i loro debiti coi prestatori esteri, sono andati in default ma non sono falliti, non hanno chiuso affatto i battenti. Nessun “tribunale fallimentare internazionale”, che infatti non esiste, ha posto loro i sigilli. Tranne rarissimi casi —quattro in tutto, in cui lo stato creditore ha punito con l’aggressione il debitore: guarda caso la Gran Bretagna e gli USA in veste di creditori-aggressori. E nemmeno è vero che la “punizione” per gli stati insolventi sia stata l’espulsione dai mercati internazionale dei capitali. L’Argentina, che nel 2001 conobbe il default di debito estero più grande sino ad allora conosciuto, è lì a dimostrarlo. V’è infine un altro fattore macroscopico che salta agli occhi. Se l’insolvenza per debito estero giunge solo dopo una bolla, un’abbuffata finanziaria-speculativa, è altrettanto vero che dopo un default, pere certi versi proprio grazie ad esso, lo stato insolvente conosce una forte ripresa economica. Clamorosi sono i casi delle Tigri asiatiche, della Russia, del Messico, della Turchia, del Brasile e infine proprio dell’Argentina.
Il debito italiano, l’inganno del “debito sovrano” e il default.
Lo stato è indebitato per la mastodontica cifra di 1.900 miliardi di euro con chi ha acquistato i suoi titoli di stato. A questa cifra vanno aggiunti gli interessi i quali vanno crescendo, e vanno crescendo non perché lo Stato continui a spendere più di quanto incamera, ma a causa dello smottamento dell’eurozona, il quale determina la fuga dei creditori dal mercati finanziari europei.
Ma chi detiene questi titoli. Fatta eccezione per una quota che era del 5% (dato di tre anni fa e che al massimo è giunta al 10% nell'anno corrente) in mano a cittadini e imprese italiani, tutto il resto, ovvero più o meno il 90%, circola nei mercati finanziari mondiali, è transato nelle borse, e dunque soggetto alle oscillazioni, ai capricci di questi mercati —che, beninteso, non sono governati da una mano invisibile, ma soggiacciono alle mosse e ai capricci dei predoni più grandi.
Per la precisione il debito italiano è in mano a banche (tra cui le banche centrali e la stessa Bce), fondi privati e sovrani, fondi ad alto rischio [hedge], gruppi assicurativi, sia italiani che stranieri. Di questo 85% di debito circa 60% è posseduto da creditori esteri, mentre il 40% è posseduto da banche e assicurazioni italiane. Quando parliamo di banche si devono intendere le grandi banche d’affari (o di investimento) tipo Unicredit o Intesa, non le tradizionali banche commerciali; banche che agiscono come i fondi speculativi, che utilizzano i risparmi raccolti per moltiplicare i profitti, con investimenti ad alto rischio. Le banche a cui è consentito, attraverso il principio della leva [leverage], di poter investire (e speculare per) cifre superiori di cinque, dieci o quindi volte il capitale a loro disposizione. Questo è il meccanismo che sta alla base dei fallimenti bancari, che secondo chi scrive saranno la miccia dell’imminente collasso europeo —il caso della banca franco-belga DEXIA è solo l’aperitivo.
Fu responsabilità storica degli Amato, dei Draghi e dei Ciampi se a partire dagli anni ’80, a globalizzazione montante, il debito pubblico italiano, che era al 90% debito interno, diventò debito estero, venne immesso nei mercati finanziari speculativi internazionali, e se fu consentito alle banche di mutarsi da commerciali a d’affari, la qualcosa andò in parallelo al colossale processo di concentrazione bancaria, favorito dai governi “tecnici” e di centro-sinistra.
Si trattò di due passaggi decisivi, di due trasformazioni gigantesche. In ossequio alla libera circolazione dei capitali e al mito della globalizzazione il sistema bancario italiano entrò con tutti e due i piedi nella bisca del capitalismo-casinò, gettò la propria liquidità nel gioco d’azzardo. Il debito pubblico, diventando da interno ad estero, venne sottratto alla giurisdizione dello Stato. Qui l’inganno clamoroso della locuzione di “Debito sovrano”: in verità lo Stato non è sovrano del suo debito dal momento che questo è in mano alla speculazione internazionale, e il suo andamento e i suoi rendimenti sfuggono del tutto alla sovranità dello stato indebitato e dipendono dal mercato, dalle mosse dei grandi squali della finanza predatoria. Nel contesto di un sistema segnato dal predominio del capitale finanziario, effettivamente sovrani sono soltanto i predoni-creditori, mentre stati come l’Italia, a maggior ragione perché sovradeterminati in quanto membri dell’Unione europea, sono stati-vassalli e per nulla sovrani.
La prima ragione per andare ad un default programmato del debito estero ( che può declinarsi in varie forme, dal ripudio puro e semplice, alla moratoria alla ristrutturazione negoziata) è quindi propria questa: che solo attraverso questo ripudio lo Stato può riconquistare una fetta della sua propria sovranità politica, cessando di fungere da Stato-esattore anti-popolare per nome e per conto della finanza predatoria internazionale.
La seconda ragione per ripudiare il debito estero è lampante. Quali benefici può avere il popolo italiano dal fatto che lo Stato agisce come esattore di prima istanza per drenare risorse ingentissime a vantaggio della finanza predatoria mondiale, anglosassone anzitutto? Nessuno. “Onorare” questo debito equivale ad accettare una rapina, equivale anzi a fornire denaro al predone malgrado quest’ultimo punti alla tempia una pistola scarica. E’ come se uno fornisse al boia la corda con cui impiccarsi. Il vantaggio del default programmato è che lo Stato disporrebbe delle sue risorse, che non finirebbero nel Pozzo di San Patrizio del capitalismo-casinò, ma potrebbero essere immesse nel mercato interno, per realizzare un piano generale per il lavoro, per sanare il paese dalle sue ferite strutturali, per finanziare la ricerca, l’istruzione pubblica, lo stato sociale, o anche solo per permettere alle aziende di finanziarsi a costi meno onerosi. Non c'è dubbio che un default, per quanto autodeterminato e programmato implica un periodo di sacrifici anche per le masse popolari, ma esso evita ad esse di subire un massacro sociale di proporzioni epocali.
La terza ragione di questo ripudio è che lungi dal rappresentare un cataclisma, la temporanea fuoriuscita dai mercati finanziari di capitale, può essere un grosso vantaggio. Stare in questi mercati può essere relativamente conveniente in fasi di espansione dei mercati finanziari, quando cioè si possono ottenere prestiti a tassi molto vantaggiosi. Tutti gli indicatori mostrano che dopo il 2008 prendere soldi in prestito sui mercati finanziari costa sempre più caro, che i prestatori si comportano come cravattari, come strozzini. Gli interessi che lo Stato deve pagare in questi giorni sono oramai al 7% (tre volte e passa più alti della Germania: in barba al fatto che saremmo in un’Unione!) con effetti devastanti per le imprese italiane che pagano interessi sempre più cari quando chiedono soldi alle banche. Quello greco è un caso clamoroso: se vuole vendere i suoi titoli a dieci anni Atene è obbligata dai mercati a pagare il 25% di interessi. Se si tiene conto che il Fmi presta soldi, anche a paesi a rischio come ad esempio quelli africani ad un tasso del 3/5%, quello verso la Grecia è un caso lampante di usura. Ci sarebbe da portare in tribunale come banditi tutti i prestatori.
Si deve uscire sì da questi mercati, riconvertendo il debito estero in interno, rivendendo i titoli di stato ai cittadini italiani ad un tasso ad esempio del 5%. Ciò che non solo metterebbe al riparo i risparmi degli italiani (preoccupazione di cui tutti i globalisti si riempiono la bocca), ma le casse dello Stato dalle scorribande della cleptocrazia imperialista.
Che fine fanno i debiti contratti dallo Stato con le banche? E qui veniamo alla quarta ragione. Occorre nazionalizzare il sistema bancario e passare ad una banca unica nazionale a gestione pubblica, con la clausola che viene fatto divieto alle banche di agire come banche d’affari. In caso di nazionalizzazione, di presa di possesso delle banche creditrici da parte dello Stato, è evidente che lo stato diventerebbe creditore di se stesso, ovvero il debito verrebbe annullato. Dato che negli ultimi vent’anni le banche hanno spinto i risparmiatori a sbarazzarsi dei tioli per comperare le loro proprie obbligazioni, lo Stato si farebbe garante di questi risparmi cristallizzati in obbligazioni bancarie, convertendoli appunto in titoli di stato.
La quinta ragione è che un default programmato unilaterale, data la consistenza dell’economia e del debito italiani, manderebbe all’aria l’eurozona e spingerebbe, non solo noi, a ritornare alla sovranità monetaria, a battere moneta in proprio, potendo così di nuovo agire su una leva che ha una importanza straordinaria, sia dal punto di vista politico che da quello squisitamente economico, in funzione pro-ciclica o anticiclica. Che l’euro sia una gabbia mortale è dimostrato, senza andare troppo lontano, dai paesi membri dell’Unione europea che hanno mantenuto le loro valute nazionali: essi conoscono quasi tutti una crescita del Pil mentre chi usa l’euro, ora anche la Germania, sono in recessione. La sovranità monetaria, permettendo di agire sui cambi (svalutazione) e sui prezzi (inflazione), consente di agire sia sulle partite correnti (import-export) che sulla curva dei debiti pubblici e quindi su come si ripartisce la ricchezza nazionale.
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Siccome al potere abbiamo dei comitati d’affari dei grandi predatori finanziari e della banche (che son giunti persino a mettere come primo ministro un “podestà forestiero"), per realizzare questo programma occorre un cambio di regime, occorre un governo popolare. Non sappiamo se questo cambio avverrà per tempo, è certo che esso consiste in una sollevazione generale. Se questo cambio di regime non ci sarà, la catastrofe economica e sociale sarà inevitabile.
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