Dal rigore di Pericle alla disinvoltura di Berlusconi, da Platone ai dubbi di don Milani: "Non c'è nulla che sia ingiusto quanto far le parti uguali tra disuguali"
di Giovanni Ghiselli Fonte: arcoiris
In questi giorni la democrazia è stata negata di fatto da un colpo di Stato in nome della tecnocrazia, di quel potere dei tecnici dalla parola e dallo sguardo freddo, gli umbratici doctores, i professori cresciuti nell’ombra dai quali ci aspettiamo rassegnati l’imposizione di quei sacrifici che non abbiamo permesso ci venissero addossati dal ludico, alquanto ridicolo dominus appena tramontato. Costui era un magister ludi che ci ha fatto anche ridere con i suoi innumerevoli cachinni, non sine candidis et nigris puellis.
Questi signori della finanza, se pure negano che ci spremeranno sangue con lacrime, di sicuro non ci faranno ridere. Siedono freddi nell’ombra fredda, e presto, molti uccelli giaceranno spennati ai loro piedi. Uccelli piccoli e deboli del resto. Mi sembra dunque il momento di passare in rassegna pregi e difetti, elogi e biasimi della democrazia, il regime che si fa derivar dalla costituzione e dal governo di quel grande e vero signore che fu Pericle.
Finché questo stratego visse, ad Atene vigeva un’aristocrazia con il consenso della massa, secondo la definizione data da Aspasia nel Menesseno di Platone (238d). Inoltre questo governo era un regime educativo, tale che non escludeva nessuno per debolezza sociale, né per povertà, né per oscurità dei padri; e neppure preferiva alcuno per i motivi contrari. Chi era reputato saggio e onesto, otteneva il consenso e le cariche. Questo era possibile poiché i cittadini nascevano uguali, ossia con le medesime possibilità di sviluppo. Aspasia compose tale discorso encomiastico perché venisse recitato da Pericle, secondo Socrate.
Infatti gli stessi pregi vengono attribuiti alla “sua” democrazia dal grande stratego ateniese nel discorso che Tucidide gli fa pronunciare, in encomio dei caduti nel primo anno di guerra, e in elogio di Atene, la scuola dell’Ellade. Vediamo alcune frasi iniziali del lógos epitáfios di Pericle. “In effetti ci avvaliamo di una costituzione che non cerca di emulare le leggi dei vicini, ma siamo noi di esempio a qualcuno piuttosto che imitare gli altri. Di nome, per il fatto di essere amministrata non per pochi ma per la maggioranza, essa è chiamata democrazia: per legge c’è una condizione di uguaglianza per tutti, e uno viene preferito alle cariche pubbliche, secondo la reputazione, per come viene stimato in qualche campo, non per il partito di provenienza più che per il suo valore; né d’altra parte, se uno può fare qualche cosa di buono per la città, non ne è mai stato impedito per l’oscurità della sua posizione sociale” (Storie, II, 37, 1).
In altre parole nessuno era avvantaggiato, né svantaggiato per il partito da cui proveniva, né alcuno veniva inceppato dalla povertà o dalla modesta posizione sociale, se poteva fare qualche cosa di buono per la comunità. Questo principio sacro, attualmente profanato, si trova altresì nell’articolo 3 della Costituzione italiana.
I nostri padri costituenti, che sicuramente avevano letto Tucidide, stabilirono che “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Entrambe le costituzioni ricordate evidenziano il fatto che se non c’è l’uguaglianza, non c’è vera libertà. Lo ripeterà Giacomo Leopardi nello Zibaldone (923). Ora io non credo che questi tecnocrati, banchieri e finanzieri vari, si adopereranno in favore dell’uguaglianza e delle pari opportunità per tutti, condizioni senza le quali non c’è vera democrazia. Spero di sbagliarmi sul loro conto. Vedremo i fatti dopo le parole.
Dopo l’encomio, sentiamo alcune opinioni contrarie alla democrazia. Severo critico della democrazia demagogica, radicale e sfrenata, è Platone che nell’VIII libro della Repubblica biasima la mancanza di serietà di questo regime che non si dà pensiero delle abitudini morali di chi fa politica, ma onora chi si vanta di essere amico del popolo. E’ una costituzione anarchica e variopinta, che distribuisce una certa uguaglianza nello stesso modo a uguali e disuguali (558c). In questo passo c’è l’idea che l’uguaglianza imposta a persone diverse e disuguali sia opera di un regime privo di giustizia.
Può sembrare un’idea elitaria e reazionaria, ma la presenta anche Don Milani, in un contesto tutt’altro che elitario: “Perché non c’è nulla che sia ingiusto quanto far le parti eguali fra disuguali”. Le commedie di Aristofane mettono in rilievo e in ridicolo l’impudenza dei demagoghi succeduti a Pericle, in particolare quella di Cleone, e la parzialità del tribunale popolare dell’Eliea che avrebbe perseguitato i ricchi e i nobili. Come con Berlusconi c’è stata la psicosi del comunismo, allora c’era la fobia della tirannide. Diffuse, entrambe, per coprire malaffare e malefatte.
Per esempio: se uno voleva comprare degli scorfani, il venditore di sardelle che non li aveva, accusava l’appassionato di scorfani di volerne fare provvista per la tirannide (Vespe, 495). Se uno chiedeva una cipolla per condire le alici, l’ortolana, sprovvista di cipolle, gli domandava minacciosamente se voleva una cipolla per la tirannide (498). Sicché gli Eliasti, i giudici popolari, che valutavano in modo arbitrario tali denunce assurde, erano corteggiati e lusingati da tutti.
Una critica più seria, sostenuta da diversi autori (oltre Platone, Isocrate, Aristotele, Senofonte, lo Pseudosenofonte, Polibio) sosteneva che il demos (popolo) non voleva sottostare alla legge e che il suo krátos (potere) in realtà era una forma di strapotere svantaggioso per le persone educate e abbienti. La demokratía dunque era una specie di dittatura del proletariato molto prima di Lenin.
Tucidide fa l’elogio finale di Pericle dicendo che era incorruttibile al denaro e teneva in pugno la massa lasciandola libera, ma non si faceva condurre più di quanto la conducesse lui (II, 65, 8). Morto Pericle nel 429, però le cose cambiarono in peggio. Dopo la battaglia delle Arginuse (del 406) il popolo voleva condannare a morte gli strateghi che pure vincitori, non avevano salvato la flotta e molti marinai dal naufragio.
La proposta era illegale in quanto non prevedeva di distinguere, secondo la legge, le responsabilità individuali degli accusati. Durante il processo ci fu un tentativo di difesa, ma nella massa era stato inoculato il desiderio del capro espiatorio ed essa gridava che era grave se qualcuno non permetterva al popolo di fare quanto voleva (Senofonte, Elleniche, I, 7, 12). E’ questa la formula che caratterizza la degenerazione della democrazia secondo Polibio il quale sostiene che non è democrazia quella in cui la massa sia padrona di fare tutto ciò che voglia e preferisca; invece, lo è quella presso la quale è tradizionale e abituale venerare gli dèi, onorare i genitori, rispettare gli anziani, obbedire alle leggi. Quando prevale il parere dei più, allora possiamo parlare di democrazia (Storie, 6, 4, 4).
Ora il parere dei più non prevale, anzi non viene nemmeno richiesto, e in questa fase nel nostro paese non c’è democrazia. Ma l’apparenza copre e violenta la verità, come altre volte nella storia, e la giustizia corrisponde, come sempre, all’utile del più forte.
di Giovanni Ghiselli Fonte: arcoiris
In questi giorni la democrazia è stata negata di fatto da un colpo di Stato in nome della tecnocrazia, di quel potere dei tecnici dalla parola e dallo sguardo freddo, gli umbratici doctores, i professori cresciuti nell’ombra dai quali ci aspettiamo rassegnati l’imposizione di quei sacrifici che non abbiamo permesso ci venissero addossati dal ludico, alquanto ridicolo dominus appena tramontato. Costui era un magister ludi che ci ha fatto anche ridere con i suoi innumerevoli cachinni, non sine candidis et nigris puellis.
Questi signori della finanza, se pure negano che ci spremeranno sangue con lacrime, di sicuro non ci faranno ridere. Siedono freddi nell’ombra fredda, e presto, molti uccelli giaceranno spennati ai loro piedi. Uccelli piccoli e deboli del resto. Mi sembra dunque il momento di passare in rassegna pregi e difetti, elogi e biasimi della democrazia, il regime che si fa derivar dalla costituzione e dal governo di quel grande e vero signore che fu Pericle.
Finché questo stratego visse, ad Atene vigeva un’aristocrazia con il consenso della massa, secondo la definizione data da Aspasia nel Menesseno di Platone (238d). Inoltre questo governo era un regime educativo, tale che non escludeva nessuno per debolezza sociale, né per povertà, né per oscurità dei padri; e neppure preferiva alcuno per i motivi contrari. Chi era reputato saggio e onesto, otteneva il consenso e le cariche. Questo era possibile poiché i cittadini nascevano uguali, ossia con le medesime possibilità di sviluppo. Aspasia compose tale discorso encomiastico perché venisse recitato da Pericle, secondo Socrate.
Infatti gli stessi pregi vengono attribuiti alla “sua” democrazia dal grande stratego ateniese nel discorso che Tucidide gli fa pronunciare, in encomio dei caduti nel primo anno di guerra, e in elogio di Atene, la scuola dell’Ellade. Vediamo alcune frasi iniziali del lógos epitáfios di Pericle. “In effetti ci avvaliamo di una costituzione che non cerca di emulare le leggi dei vicini, ma siamo noi di esempio a qualcuno piuttosto che imitare gli altri. Di nome, per il fatto di essere amministrata non per pochi ma per la maggioranza, essa è chiamata democrazia: per legge c’è una condizione di uguaglianza per tutti, e uno viene preferito alle cariche pubbliche, secondo la reputazione, per come viene stimato in qualche campo, non per il partito di provenienza più che per il suo valore; né d’altra parte, se uno può fare qualche cosa di buono per la città, non ne è mai stato impedito per l’oscurità della sua posizione sociale” (Storie, II, 37, 1).
In altre parole nessuno era avvantaggiato, né svantaggiato per il partito da cui proveniva, né alcuno veniva inceppato dalla povertà o dalla modesta posizione sociale, se poteva fare qualche cosa di buono per la comunità. Questo principio sacro, attualmente profanato, si trova altresì nell’articolo 3 della Costituzione italiana.
I nostri padri costituenti, che sicuramente avevano letto Tucidide, stabilirono che “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Entrambe le costituzioni ricordate evidenziano il fatto che se non c’è l’uguaglianza, non c’è vera libertà. Lo ripeterà Giacomo Leopardi nello Zibaldone (923). Ora io non credo che questi tecnocrati, banchieri e finanzieri vari, si adopereranno in favore dell’uguaglianza e delle pari opportunità per tutti, condizioni senza le quali non c’è vera democrazia. Spero di sbagliarmi sul loro conto. Vedremo i fatti dopo le parole.
Dopo l’encomio, sentiamo alcune opinioni contrarie alla democrazia. Severo critico della democrazia demagogica, radicale e sfrenata, è Platone che nell’VIII libro della Repubblica biasima la mancanza di serietà di questo regime che non si dà pensiero delle abitudini morali di chi fa politica, ma onora chi si vanta di essere amico del popolo. E’ una costituzione anarchica e variopinta, che distribuisce una certa uguaglianza nello stesso modo a uguali e disuguali (558c). In questo passo c’è l’idea che l’uguaglianza imposta a persone diverse e disuguali sia opera di un regime privo di giustizia.
Può sembrare un’idea elitaria e reazionaria, ma la presenta anche Don Milani, in un contesto tutt’altro che elitario: “Perché non c’è nulla che sia ingiusto quanto far le parti eguali fra disuguali”. Le commedie di Aristofane mettono in rilievo e in ridicolo l’impudenza dei demagoghi succeduti a Pericle, in particolare quella di Cleone, e la parzialità del tribunale popolare dell’Eliea che avrebbe perseguitato i ricchi e i nobili. Come con Berlusconi c’è stata la psicosi del comunismo, allora c’era la fobia della tirannide. Diffuse, entrambe, per coprire malaffare e malefatte.
Per esempio: se uno voleva comprare degli scorfani, il venditore di sardelle che non li aveva, accusava l’appassionato di scorfani di volerne fare provvista per la tirannide (Vespe, 495). Se uno chiedeva una cipolla per condire le alici, l’ortolana, sprovvista di cipolle, gli domandava minacciosamente se voleva una cipolla per la tirannide (498). Sicché gli Eliasti, i giudici popolari, che valutavano in modo arbitrario tali denunce assurde, erano corteggiati e lusingati da tutti.
Una critica più seria, sostenuta da diversi autori (oltre Platone, Isocrate, Aristotele, Senofonte, lo Pseudosenofonte, Polibio) sosteneva che il demos (popolo) non voleva sottostare alla legge e che il suo krátos (potere) in realtà era una forma di strapotere svantaggioso per le persone educate e abbienti. La demokratía dunque era una specie di dittatura del proletariato molto prima di Lenin.
Tucidide fa l’elogio finale di Pericle dicendo che era incorruttibile al denaro e teneva in pugno la massa lasciandola libera, ma non si faceva condurre più di quanto la conducesse lui (II, 65, 8). Morto Pericle nel 429, però le cose cambiarono in peggio. Dopo la battaglia delle Arginuse (del 406) il popolo voleva condannare a morte gli strateghi che pure vincitori, non avevano salvato la flotta e molti marinai dal naufragio.
La proposta era illegale in quanto non prevedeva di distinguere, secondo la legge, le responsabilità individuali degli accusati. Durante il processo ci fu un tentativo di difesa, ma nella massa era stato inoculato il desiderio del capro espiatorio ed essa gridava che era grave se qualcuno non permetterva al popolo di fare quanto voleva (Senofonte, Elleniche, I, 7, 12). E’ questa la formula che caratterizza la degenerazione della democrazia secondo Polibio il quale sostiene che non è democrazia quella in cui la massa sia padrona di fare tutto ciò che voglia e preferisca; invece, lo è quella presso la quale è tradizionale e abituale venerare gli dèi, onorare i genitori, rispettare gli anziani, obbedire alle leggi. Quando prevale il parere dei più, allora possiamo parlare di democrazia (Storie, 6, 4, 4).
Ora il parere dei più non prevale, anzi non viene nemmeno richiesto, e in questa fase nel nostro paese non c’è democrazia. Ma l’apparenza copre e violenta la verità, come altre volte nella storia, e la giustizia corrisponde, come sempre, all’utile del più forte.
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