di Mario Tronti. Fonte: controlacrisi
La parola chiave serve per aprire la porta dell’agire politico. Ecco allora la difficoltà. La parola partito sembra oggi non assolvere più a questa funzione. Bisogna capire se è la chiave che si è sverzata nel tempo, o se è la serratura a essere stata cambiata, da qualcuno o da qualcosa. La forma-partito, per continuare a usare questa formula di gergo al tempo stesso burocratica ed eloquente, si è dissolta per consunzione interna, o è stata destrutturata da infiltrazioni climatiche esterne? Ricerca. Prima di tutto ricerca. Questo si vuole dire con questo fascicolo di Democrazia e diritto. E ricerca comparata, tra presente e passato e dentro un presente plurale, fatto di storie diverse, ancora declinate nel solco tradizionale dello Stato-nazione.
Più indagine storico-politica, sociologica, politologica, che teoria. Se si è data una teoria del partito, è difficile pensare che si possa dare ancora, in queste condizioni. È interessante notare questa cosa: chi ha speso più pensiero sul tema dell’organizzazione di partito è stato il movimento operaio. La parte avversa si è più preoccupata di sistemare a livello istituzionale la presenza dei partiti. Il dato di fatto è comprensibile. L’interesse dominante aveva la sua forma funzionale di esercizio del potere in quell’altra forma politica moderna, che si chiamava Stato. L’interesse contrapposto, dei dominati, quando ha dovuto cercare una forma politica che desse rappresentazione di sé a livello generale, come faceva la soluzione statale, l’ha trovata nel partito. La socialdemocrazia classica prima, il movimento comunista poi, hanno ambedue percorso, con intelligenza, questa strada. Hanno armato il proprio campo, il proletariato delle città e delle campagne, e quindi la classe operaia con i suoi alleati, nella loro civile lotta di classe, di un esercito, che come tutti gli eserciti, prevedeva soldati e generali, truppe combattenti e stato maggiore. Parlare di partito non si può senza tornare con il pensiero a questa origine storica.
Una vicenda parallela, e cronologicamente contemporanea, è quella dei partiti americani, che tra seconda metà e fine Ottocento, esprimono modelli di organizzazione dell’opinione e del consenso, originali e, malgrado i mutamenti, duraturi. Bisognerebbe tornare a quella vicenda, se non altro per dimostrarne l’inesportabilità, visti i tentativi recenti di importazione che cercano di passare attraverso l’attuale crisi dei partiti. In realtà, partito europeo e partito americano rimangono due visibili realtà alternative, per le diverse forme di sistema istituzionale, per i differenti percorsi di selezione del ceto politico, per gli assolutamente incomparabili e inassimilabili meccanismi di investitura della leadership. Si può dire che, dal secondo dopoguerra del Novecento, l’occupazione politica dell’Europa da parte degli Stati Uniti d’America, si è dovuta sempre fermare davanti alla frontiera invalicabile della forma-partito. E solo la deriva postnovecentesca, iniziata negli ultimi due decenni del secolo, ha aperto varchi a una confusa volontà di cattiva copia di quei modelli.
Un discorso a parte meriterebbe la configurazione dell’idea e della pratica di partito nei sistemi totalitari, fascismo, nazismo, franchismo, salazarismo. Qui il partito diventa strumento di mobilitazione totale. Un grande contenitore ideologico, che dà forma alla massa, l’identifica, l’irregimenta, la muove al servizio del potere di vertice, ma anche luogo pratico di controllo dei singoli nel loro ambito e strumento di formazione delle coscienze. Il partito di Stato è un’originale applicazione dello strumento partito alle condizioni della dittatura, nelle sue varie forme. E la varietà delle forme descrive la diversità delle applicazioni strumentali. Questa indecorosa ammucchiata – indecorosa dal punto di vista etico come dal punto di vista scientifico – che si fa in genere dei partiti al potere nei regimi non democratici, che consegue alla notte delle vacche tutte nere del mantra che recita “i totalitarismi fascista, nazista e comunista”, andrebbe con decisione squalificata nella competizione del dibattito politico. Il partito fascista non era il partito nazista, il partito comunista non era né il partito fascista né il partito nazista. Anche qui la ricerca, l’analisi, la lettura storica delle condizioni, l’interpretazione teorica dei processi, dovrebbe andare finalmente a sostituire l’approssimazione propagandistica, che ha impedito a tutti, ma proprio a tutti, di capire, di conoscere e quindi, su questa base, di giudicare.
Il problema che il Novecento ci ha lasciato irrisolto, e che il dopo Novecento va declinando in forme di nuovo diverse, è appunto il rapporto partito-Stato. Si è posto, in grande, analogamente, nella diversità dei regimi democratici. Il Partaienstaat, lo Stato dei partiti, ha una lunga tradizione di studi, anche legata alla storia dei ceti politici, dagli elitisti a Weimar alla politologia americana fino alla stagione d’oro del “caso italiano”, messo sotto analisi a livello internazionale. E prima di quest’ultimo passaggio, nella lettera e nello spirito della nostra Costituzione repubblicana. Il sistema di potere, di marca democristiana, attraverso la forma del partito di correnti, è stato per un certo periodo un modello vincente di governo della società e di raccolta del consenso, fino all’inevitabile degenerazione e scomposizione. Ma non è che le forme susseguenti di partito abbiano funzionato in modo molto diverso, anzi forse solo in modi più rozzi e volgari. Le cause che hanno portato dalla crisi dei partiti alla crisi della politica – perché questo è stato il percorso, prima la crisi dei partiti poi la crisi della politica – quelle cause sono inscritte in questo quadro di storia recente. Il partito d’opinione, il partito elettorale, il partito personale, sono partiti senza partito. Cioè partiti senza organizzazione, permanente, stabile, quotidiana, non presenti in un generico territorio civile, ma radicati in uno specifico terreno sociale e proprio per ciò, con una visione e una missione.
In questo senso non è precisamente vero che i partiti di oggi soffrono per crisi di rappresentanza. Rappresentano anche troppo, perché rappresentano passivamente, rispecchiano, non interpretano, ascoltano e non parlano. Oggi si può dire correttamente di un giornale che è un partito. Perché la funzione è quella: prendere l’opinione e ripeterla, e con il ripeterla, amplificarla, inseguendo l’opinione dei più, più lettori e più elettori è la stessa cosa. È questa ossessione della maggioranza che fa delle attuali democrazie i regimi più antipolitici che siano mai esistiti. E fa dei meccanismi elettorali la macchina ordinamentale più perfetta che si sia mai data. Non serve più il sorvegliare e punire, basta il chiacchierare e lo spettacolarizzare. La bürgerliche Gesellschaft, la società civile/società borghese, il mondo degli interessi di corpo e dei bisogni privati, o come si dice ora, delle istanze libertarie e dei desideri diffusi, fa direttamente politica, non ha più bisogno di un’intermediazione di partito, così come il governato sceglie direttamente il governante, senza che in mezzo ci sia più l’intralcio di un’istituzione parlamentare. I novatori applaudono, i conservatori riscuotono. Mai una situazione più favorevole per la prassi gattopardesca del tutto cambia non perché tutto rimanga come prima, ma perché tutto diventi peggiore di prima. E infatti, ammirate la scena eccellente: il lavoratore senza contratto, solo, davanti al padrone, il cittadino senza partito, solo, davanti al potere.
Wer aber ist die Partei. Ma chi è il partito? Certo, è difficile di questi tempi recitare la brechtiana Lob der Partei. Eppure, “chi è uno ha due occhi / il partito ha mille occhi”, può tornare a essere vero, più preziosamente vero di tutti i tempi passati. Insopportabile è l’attuale stato del rapporto di forza tra chi sta in basso e chi sta in alto nella scala sociale. La rivolta, collettiva, contro lo stato delle cose è all’ordine del giorno. Questo, e solo questo, è prima di tutto, oggi, politica. Il partito è un’arma, di difesa collettiva contro il sopruso e lo sfruttamento cui è sottoposto ognuno di noi, individualmente preso, in questa forma di società. Ed è un’arma offensiva, di attacco a un esercizio del potere tutto e solo nelle mani di chi adesso in effetti comanda, in modo palese oppure occulto, nelle forme verticalizzate del potere personalizzato oppure nelle forme orizzontali diffuse del potere partecipato. Il partito è un’arma nella battaglia delle idee, l’intellettuale collettivo che produce cultura alternativa a quella dominante, e chiede giustamente all’intellettuale singolo di farsi carico del punto di vista della parte a cui sceglie di appartenere.
Si, lo so, che questa è una lingua estinta, che il parlare “nuovo” non riconosce più. È vera l’obiezione di fondo: questo forse il partito è stato, questo certo non lo è più. Chi di noi se la sente di riconoscersi, qui e ora, in un partito che c’è? Mi ricordo di una frase che disse Laura Lombardo-Radice Ingrao, poco prima della morte: dovevamo diventare vecchi per ritrovarci a essere dei senza partito. Essere dei senza partito per chi vuole fare una politica combattente, forte, efficace, che cambia, che conquista, è una maledizione. Liberarsi da questa maledizione è il compito da passare alle più giovani generazioni. Le strade sono due, parallele e complementari: ripulire la memoria e riarmare la prospettiva. Con una rivista, si può fare bene, volendo, la prima cosa. È quanto cerca di fare questo numero. Per la seconda, non tutto, anzi quasi niente, è nelle nostre mani. Si possono comunque proporre dei buoni argomenti a favore. Uno è questo. La politica è entrata in crisi quando si è destrutturata, con un’operazione, consapevole da destra e inconsapevole da sinistra, la sua forma organizzata. Storicamente, questa forma era il partito. Si può arrivare a pensare che questa parola sia ormai irrimediabilmente senza forma. Ma resta il problema: la politica non si autorganizza, la politica deve essere organizzata. Allora l’alternativa non è: partito sì o partito no, l’alternativa è: politica organizzata o antipolitica. È scandaloso pensare che qui si colloca uno dei punti di differenza tra sinistra e destra?
La parola chiave serve per aprire la porta dell’agire politico. Ecco allora la difficoltà. La parola partito sembra oggi non assolvere più a questa funzione. Bisogna capire se è la chiave che si è sverzata nel tempo, o se è la serratura a essere stata cambiata, da qualcuno o da qualcosa. La forma-partito, per continuare a usare questa formula di gergo al tempo stesso burocratica ed eloquente, si è dissolta per consunzione interna, o è stata destrutturata da infiltrazioni climatiche esterne? Ricerca. Prima di tutto ricerca. Questo si vuole dire con questo fascicolo di Democrazia e diritto. E ricerca comparata, tra presente e passato e dentro un presente plurale, fatto di storie diverse, ancora declinate nel solco tradizionale dello Stato-nazione.
Più indagine storico-politica, sociologica, politologica, che teoria. Se si è data una teoria del partito, è difficile pensare che si possa dare ancora, in queste condizioni. È interessante notare questa cosa: chi ha speso più pensiero sul tema dell’organizzazione di partito è stato il movimento operaio. La parte avversa si è più preoccupata di sistemare a livello istituzionale la presenza dei partiti. Il dato di fatto è comprensibile. L’interesse dominante aveva la sua forma funzionale di esercizio del potere in quell’altra forma politica moderna, che si chiamava Stato. L’interesse contrapposto, dei dominati, quando ha dovuto cercare una forma politica che desse rappresentazione di sé a livello generale, come faceva la soluzione statale, l’ha trovata nel partito. La socialdemocrazia classica prima, il movimento comunista poi, hanno ambedue percorso, con intelligenza, questa strada. Hanno armato il proprio campo, il proletariato delle città e delle campagne, e quindi la classe operaia con i suoi alleati, nella loro civile lotta di classe, di un esercito, che come tutti gli eserciti, prevedeva soldati e generali, truppe combattenti e stato maggiore. Parlare di partito non si può senza tornare con il pensiero a questa origine storica.
Una vicenda parallela, e cronologicamente contemporanea, è quella dei partiti americani, che tra seconda metà e fine Ottocento, esprimono modelli di organizzazione dell’opinione e del consenso, originali e, malgrado i mutamenti, duraturi. Bisognerebbe tornare a quella vicenda, se non altro per dimostrarne l’inesportabilità, visti i tentativi recenti di importazione che cercano di passare attraverso l’attuale crisi dei partiti. In realtà, partito europeo e partito americano rimangono due visibili realtà alternative, per le diverse forme di sistema istituzionale, per i differenti percorsi di selezione del ceto politico, per gli assolutamente incomparabili e inassimilabili meccanismi di investitura della leadership. Si può dire che, dal secondo dopoguerra del Novecento, l’occupazione politica dell’Europa da parte degli Stati Uniti d’America, si è dovuta sempre fermare davanti alla frontiera invalicabile della forma-partito. E solo la deriva postnovecentesca, iniziata negli ultimi due decenni del secolo, ha aperto varchi a una confusa volontà di cattiva copia di quei modelli.
Un discorso a parte meriterebbe la configurazione dell’idea e della pratica di partito nei sistemi totalitari, fascismo, nazismo, franchismo, salazarismo. Qui il partito diventa strumento di mobilitazione totale. Un grande contenitore ideologico, che dà forma alla massa, l’identifica, l’irregimenta, la muove al servizio del potere di vertice, ma anche luogo pratico di controllo dei singoli nel loro ambito e strumento di formazione delle coscienze. Il partito di Stato è un’originale applicazione dello strumento partito alle condizioni della dittatura, nelle sue varie forme. E la varietà delle forme descrive la diversità delle applicazioni strumentali. Questa indecorosa ammucchiata – indecorosa dal punto di vista etico come dal punto di vista scientifico – che si fa in genere dei partiti al potere nei regimi non democratici, che consegue alla notte delle vacche tutte nere del mantra che recita “i totalitarismi fascista, nazista e comunista”, andrebbe con decisione squalificata nella competizione del dibattito politico. Il partito fascista non era il partito nazista, il partito comunista non era né il partito fascista né il partito nazista. Anche qui la ricerca, l’analisi, la lettura storica delle condizioni, l’interpretazione teorica dei processi, dovrebbe andare finalmente a sostituire l’approssimazione propagandistica, che ha impedito a tutti, ma proprio a tutti, di capire, di conoscere e quindi, su questa base, di giudicare.
Il problema che il Novecento ci ha lasciato irrisolto, e che il dopo Novecento va declinando in forme di nuovo diverse, è appunto il rapporto partito-Stato. Si è posto, in grande, analogamente, nella diversità dei regimi democratici. Il Partaienstaat, lo Stato dei partiti, ha una lunga tradizione di studi, anche legata alla storia dei ceti politici, dagli elitisti a Weimar alla politologia americana fino alla stagione d’oro del “caso italiano”, messo sotto analisi a livello internazionale. E prima di quest’ultimo passaggio, nella lettera e nello spirito della nostra Costituzione repubblicana. Il sistema di potere, di marca democristiana, attraverso la forma del partito di correnti, è stato per un certo periodo un modello vincente di governo della società e di raccolta del consenso, fino all’inevitabile degenerazione e scomposizione. Ma non è che le forme susseguenti di partito abbiano funzionato in modo molto diverso, anzi forse solo in modi più rozzi e volgari. Le cause che hanno portato dalla crisi dei partiti alla crisi della politica – perché questo è stato il percorso, prima la crisi dei partiti poi la crisi della politica – quelle cause sono inscritte in questo quadro di storia recente. Il partito d’opinione, il partito elettorale, il partito personale, sono partiti senza partito. Cioè partiti senza organizzazione, permanente, stabile, quotidiana, non presenti in un generico territorio civile, ma radicati in uno specifico terreno sociale e proprio per ciò, con una visione e una missione.
In questo senso non è precisamente vero che i partiti di oggi soffrono per crisi di rappresentanza. Rappresentano anche troppo, perché rappresentano passivamente, rispecchiano, non interpretano, ascoltano e non parlano. Oggi si può dire correttamente di un giornale che è un partito. Perché la funzione è quella: prendere l’opinione e ripeterla, e con il ripeterla, amplificarla, inseguendo l’opinione dei più, più lettori e più elettori è la stessa cosa. È questa ossessione della maggioranza che fa delle attuali democrazie i regimi più antipolitici che siano mai esistiti. E fa dei meccanismi elettorali la macchina ordinamentale più perfetta che si sia mai data. Non serve più il sorvegliare e punire, basta il chiacchierare e lo spettacolarizzare. La bürgerliche Gesellschaft, la società civile/società borghese, il mondo degli interessi di corpo e dei bisogni privati, o come si dice ora, delle istanze libertarie e dei desideri diffusi, fa direttamente politica, non ha più bisogno di un’intermediazione di partito, così come il governato sceglie direttamente il governante, senza che in mezzo ci sia più l’intralcio di un’istituzione parlamentare. I novatori applaudono, i conservatori riscuotono. Mai una situazione più favorevole per la prassi gattopardesca del tutto cambia non perché tutto rimanga come prima, ma perché tutto diventi peggiore di prima. E infatti, ammirate la scena eccellente: il lavoratore senza contratto, solo, davanti al padrone, il cittadino senza partito, solo, davanti al potere.
Wer aber ist die Partei. Ma chi è il partito? Certo, è difficile di questi tempi recitare la brechtiana Lob der Partei. Eppure, “chi è uno ha due occhi / il partito ha mille occhi”, può tornare a essere vero, più preziosamente vero di tutti i tempi passati. Insopportabile è l’attuale stato del rapporto di forza tra chi sta in basso e chi sta in alto nella scala sociale. La rivolta, collettiva, contro lo stato delle cose è all’ordine del giorno. Questo, e solo questo, è prima di tutto, oggi, politica. Il partito è un’arma, di difesa collettiva contro il sopruso e lo sfruttamento cui è sottoposto ognuno di noi, individualmente preso, in questa forma di società. Ed è un’arma offensiva, di attacco a un esercizio del potere tutto e solo nelle mani di chi adesso in effetti comanda, in modo palese oppure occulto, nelle forme verticalizzate del potere personalizzato oppure nelle forme orizzontali diffuse del potere partecipato. Il partito è un’arma nella battaglia delle idee, l’intellettuale collettivo che produce cultura alternativa a quella dominante, e chiede giustamente all’intellettuale singolo di farsi carico del punto di vista della parte a cui sceglie di appartenere.
Si, lo so, che questa è una lingua estinta, che il parlare “nuovo” non riconosce più. È vera l’obiezione di fondo: questo forse il partito è stato, questo certo non lo è più. Chi di noi se la sente di riconoscersi, qui e ora, in un partito che c’è? Mi ricordo di una frase che disse Laura Lombardo-Radice Ingrao, poco prima della morte: dovevamo diventare vecchi per ritrovarci a essere dei senza partito. Essere dei senza partito per chi vuole fare una politica combattente, forte, efficace, che cambia, che conquista, è una maledizione. Liberarsi da questa maledizione è il compito da passare alle più giovani generazioni. Le strade sono due, parallele e complementari: ripulire la memoria e riarmare la prospettiva. Con una rivista, si può fare bene, volendo, la prima cosa. È quanto cerca di fare questo numero. Per la seconda, non tutto, anzi quasi niente, è nelle nostre mani. Si possono comunque proporre dei buoni argomenti a favore. Uno è questo. La politica è entrata in crisi quando si è destrutturata, con un’operazione, consapevole da destra e inconsapevole da sinistra, la sua forma organizzata. Storicamente, questa forma era il partito. Si può arrivare a pensare che questa parola sia ormai irrimediabilmente senza forma. Ma resta il problema: la politica non si autorganizza, la politica deve essere organizzata. Allora l’alternativa non è: partito sì o partito no, l’alternativa è: politica organizzata o antipolitica. È scandaloso pensare che qui si colloca uno dei punti di differenza tra sinistra e destra?
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