di Roberto Polidori. Fonte: siderlandia
Emiliano Brancaccio è docente di Fondamenti di Economia Politica ed Economia del Lavoro presso l’Università del Sannio a Benevento; è uno tra i più autorevoli analisti e critici delle teorie economiche dominanti. La ferrea rigorosità scientifica del ragionamento, l’impressionante conoscenza storica degli avvenimenti economici e la chiarezza nell’esposizione di argomenti complessi lo rendono ospite particolarmente gradito sulle colonne di importanti testate giornalistiche italiane e in numerose trasmissioni televisive. Il prof. Brancaccio, promotore con altri colleghi dell’Appello degli economisti del 2006 e della Lettera degli economisti dello scorso anno per un indirizzo alternativo di politica economica, è una delle “cassandre” che aveva previsto la crisi della zona euro, argomento tristemente attuale.
Prof. Brancaccio, vuole spiegare in parole semplici al lettore qual è il compito di un economista, cosa significhi “applicare il metodo scientifico” per prendere decisioni di politica economica e perché, per dirla con i Prof. Roncaglia, molto spesso gli “economisti sbagliano”?
Talvolta si usa dire che l’economia politica è quella scienza che tenta di rispondere alle seguenti domande: cosa produrre; quanto produrre; come produrre; come distribuire i prodotti realizzati all’interno di un dato sistema sociale. Il problema è che le risposte cambiano a seconda del contesto storico, e possono essere più o meno agevoli. Per esempio, per quanto riguarda il modo di produzione capitalistico, comprendere le sue “leggi di movimento” per rispondere a quelle domande è cosa molto difficile. Il motivo è che, a differenza dei sistemi precedenti, il capitalismo si caratterizza per un meccanismo impersonale, decentrato, che cioè regola i comportamenti di una miriade di soggetti non coordinati tra di loro. E’ proprio questa intrinseca complessità del capitalismo che ha dato luogo alla nascita della scienza economica, che prima non esisteva. Naturalmente, mi si potrebbe obiettare che una “scienza” può dirsi tale se, oltre a saper descrivere i fenomeni, sa anche prevederli. Accetto volentieri la provocazione. E dico, a questo riguardo, che la scienza economica, oltre ad essere più “giovane”, è anche più difficile delle scienze cosiddette “dure”, come ad esempio la fisica e la chimica. Il motivo è che la previsione delle conseguenze degli atti umani è un’ambizione gigantesca, persino superiore a quella di Galileo, che puntava più modestamente a prevedere il movimento degli astri. Tuttavia, pur nelle difficoltà di una scienza “giovane”, è già possibile attribuire all’economia una capacità non solo descrittiva ma anche previsionale. Sotto questo aspetto è necessario chiarire l’affermazione di Alessandro Roncaglia, il quale si riferiva non agli economisti in generale, ma ad una particolare categoria di economisti: vale a dire gli esponenti del cosiddetto mainstream, cioè della teoria economica attualmente dominante. Questi, secondo Roncaglia, ma anche secondo me, si sono fatti portatori di una visione del funzionamento del sistema capitalistico discutibile nelle sue premesse, che conduce a valutare il meccanismo capitalistico in termini più ottimistici di quanto non sia. E’ per questo che gli economisti del mainstream sono rimasti spiazzati – secondo le loro stesse ammissioni – dalla crisi economica esplosa tra il 2007 e il 2008.
Lei ha intitolato il suo ultimo libro “La crisi del Pensiero Unico”. A cosa si riferisce?
Da una estremizzazione della teoria economica mainstream è scaturita, nell’ultimo trentennio, una visione della politica economica che venne definita da Le Monde Diplomatique “pensiero unico”. Il riferimento, naturalmente, è a quello che nel gergo comune viene definito “liberismo”, ossia la dottrina che pretende di affidare le sorti del sistema al presunto “libero” operare delle forze impersonali del mercato (che in realtà non sono mai del tutto libere né del tutto impersonali). E’ evidente che l’attuale crisi economica non ha soltanto sollevato dubbi sulle premesse della teoria economica mainstream, ma ha soprattutto messo in discussione le implicazioni liberiste che solitamente se ne traevano e che dominavano la scena politica mondiale. Oggi il pensiero unico è indubbiamente in crisi ma non si può dire che sia morto e sepolto. Anzi: tenta continuamente di riaffermare il suo primato.
Se il pensiero unico è in crisi, perché le istituzioni politiche e gli economisti che ne “consigliano” le azioni di politica economica perseverano? Che idea si è fatto?
Io ritengo che l’economia politica e la sua critica abbiano precise basi scientifiche. Ma bisogna anche aggiungere che l’economia affronta temi che incidono talmente tanto sul vissuto quotidiano degli individui, sulle loro condizioni materiali, che diventa inevitabile che la “scienza” sia almeno in parte condizionata dall’elemento ideologico. E che, di conseguenza, le idee della scienza economica siano non semplicemente il frutto di una serie di verifiche metodologiche, teoriche ed empiriche, ma siano anche la risultante di rapporti di forza tra gruppi sociali antagonisti. Evidentemente il pensiero unico resiste perché i gruppi sociali che prediligono quell’indirizzo di politica economica sono tuttora egemoni. Questo è un dato di fatto.
Lei ritiene “scientificamente provate” ad ancora attuali le considerazioni di Marx sul conflitto tra capitale e lavoro? E quelle di Minsky sull’instabilità implicita del capitalismo?
Mi sembra che entrambe le considerazioni trovino evidenti riscontri nella realtà. Per quanto riguarda le analisi minskyane sull’instabilità strutturale del capitalismo, le evidenze erano palesi anche prima dell’ultima crisi economica mondiale. Successivamente alla crisi iniziata tre anni fa, il dato della instabilità del capitale è nuovamente emerso, in tutta la sua limpidezza. Minsky si occupava in particolare dell’instabilità del capitale nelle sue interazioni tra dimensione finanziaria e produttiva. Lo faceva anche in un modo meno ingenuo di quanto non si faccia oggi: a differenza di alcuni osservatori contemporanei, egli per esempio non commetteva l’errore di distinguere tra finanza e produzione reale, come se l’una fosse la mela marcia da togliere e l’altra la mela buona da salvare. Minsky affermava che in realtà l’instabilità del capitale deriva proprio dall’intreccio tra dimensione finanziaria e dimensione reale della produzione. Riguardo poi al conflitto tra capitale e lavoro, certo che esiste! Non vi è indicazione di politica economica che non contenga in termini più o meno impliciti un conflitto tra gruppi sociali contrapposti. Gli esempi recenti, dal tentativo di aumentare la libertà di licenziamento agli attacchi al sistema pensionistico, sono evidenti. Va anche precisato che il conflitto tra capitale e lavoro non è l’unico che si può analizzare in ottica marxista: esiste anche il conflitto tra capitali, che è una componente fondamentale dell’analisi marxista e che è attualissimo. Basti ricordare che la crisi della zona euro rappresenta sotto molti aspetti il riflesso di un conflitto tra capitali appartenenti a diverse nazioni.
A proposito di crisi europea: a giudicare da quello che sta accadendo in queste settimane secondo Lei l’Unione Europea è in pericolo?
La zona Euro è certamente in pericolo. I famigerati spreads, ossia i differenziali tra i tassi d’interesse dell’Italia e degli altri paesi periferici da un lato, e i tassi tedeschi dall’altro, stanno aumentando anche in virtù del fatto che gli operatori sui mercati finanziari intendono coprirsi contro quello che si definisce “rischio di cambio”. Cioè gli operatori chiedono tassi più alti sui prestiti di questi paesi non solo perché prevedono che questi paesi potrebbero risultare insolventi, ma anche e sopratutto perché temono che alcuni di essi si vedano costretti ad abbandonare l’Euro per svalutare le rispettive monete ed aumentare la competitività, cercando in questo modo di rilanciare domanda e produzione. Questa opzione comporterebbe anche un deprezzamento del valore dei titoli dei paesi che svalutano. Ecco perché gli operatori sono disposti a tenere quei titoli solo a tassi d’interesse più alti. Che dunque ci sia un rischio di deflagrazione della zona Euro ce lo dicono già ora i mercati.
E’ giusto che Merkel e Sarkozy chiedano ai paesi del Mediterraneo il rispetto dei vincoli di deficit e debito su PIL?
Merkel e Sarkozy non sono gli unici a pretendere una riduzione di deficit e debito pubblico dai paesi periferici. E’ l’intero impianto di politica economica europea, dalla Banca Centrale in giù, che chiede ciò. Il problema è che questo impianto è auto-contraddittorio: questa richiesta costringe i paesi debitori a ridurre le spese ed aumentare le tasse nel tentativo di ottemperare alle richieste, ma ciò non fa altro che accentuare il rischio di una recessione perché queste politiche riducono la domanda di merci, riducono la produzione, l’occupazione ed i redditi e quindi rendono più difficile il rimborso dei debiti. Il risultato finale è che le cosiddette politiche di “austerità” non ripristinano affatto la fiducia dei mercati, ma possono addirittura indurre ulteriori vendite di titoli. E’ il proverbiale gatto che si morde la coda, definito negli anni ’30 da Irving Fisher deflazione da debiti. In questa deflazione da debiti ci siamo ormai dentro fino al collo.
I “sacrifici” che ci vengono raccomandati, fra gli altri, dal Presidente della Repubblica, sono indispensabili?
In Italia, a sinistra, ci si è sempre periodicamente innamorati delle parole intrise di senso del sacrificio: una volta era la “austerity”, oggi è il “rigore”. Non ci sarebbe nulla di male se con ciò si intendesse uno sforzo collettivo per rendere il fragile Stato italiano più forte, per sottrarlo alle corruttele e alla speculazione, e per orientare le risorse pubbliche verso scopi produttivi di benessere collettivo. Il problema è che invece quelle parole vengono declinate quasi esclusivamente nel senso della contrazione del bilancio statale e dell’abbattimento della spesa pubblica. Si tratta di un errore gravissimo, che danneggia in primo luogo la classe lavoratrice, che la sinistra dovrebbe candidarsi a rappresentare e a proteggere.
La nostra situazione economica è paragonabile a quella degli anni ’30?
Non lo dico io: gli economisti Barry Eichengreen e Kevin O’Rourke hanno pubblicato una interessante ricerca che ha dimostrato che, dopo la crisi esplosa nel 2008, la caduta iniziale del PIL mondiale è stata persino più accentuata di quanto non fu dopo il 1929, all’inizio della cosiddetta Grande Depressione. Dunque le analogie con la crisi degli anni Trenta sono supportate dai dati. Del resto, lo stesso Presidente uscente della Banca Centrale Europea, Trichet, ha affermato di recente che questa è senza dubbio la crisi economica più grave dal dopoguerra.
Molti economisti hanno recentemente pubblicato dati statistici che attestano come l’attuale distribuzione dei redditi a livello di singoli paesi sia sperequata almeno quanto lo era all’epoca della Grande Crisi. C’è un nesso tra concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi e crisi economica?
La tesi secondo cui la crisi economica può essere favorita da una forte sperequazione dei redditi è stata in effetti sostenuta nel tempo da svariati economisti. Nel campo dei teorici “critici” ricordo Paolo Sylos Labini, che forniva un’interpretazione della grande crisi degli anni Trenta che attribuiva notevole rilievo al problema della divaricazione dei redditi. Ma ve ne sono anche nell’ambito del mainstream: ad esempio, il premio Nobel Joseph Stiglitz ha recentemente aderito a questa tesi. In genere questa chiave di lettura si basa sul fatto che la propensione al consumo dei salari è maggiore rispetto alla propensione al consumo di profitti e rendite. Ossia, se diamo 100 Euro a un operaio, questi evidentemente spenderà una quota significativa di quella somma e tenderà a risparmiarne una quota molto piccola; se invece trasferiamo questi 100 euro a un titolare di capitali o di rendite finanziarie o immobiliari, questi molto probabilmente non si accorgerà nemmeno di averli e tenderà a risparmiarli. Si tratta di un’evidenza ben documentata dai dati empirici. Da questa constatazione si giunge quindi all‘idea che quanto più si sposta il reddito dai lavoratori ai proprietari del capitale tanto più la spesa complessiva, cioè la domanda di merci, tende a deprimersi. Ora, è indubbio che nel corso dell’ultimo trentennio si sia registrato un enorme spostamento di reddito dai salari ai profitti: in Europa, ad esempio, la quota di reddito destinata ai salari è crollata in un trentennio da circa il 67% a poco più del 55%. Ed è anche vero che recenti ricerche pubblicate dal Cambridge Journal of Economics hanno confermato che lo spostamento di redditi dai salari ai profitti ha un effetto depressivo che, cumulandosi del tempo, può avere una rilevanza tutt’altro che trascurabile. Personalmente non saprei dire se questa sia stata la causa principale della crisi. Senz’altro, si tratta di un fattore che può aver contribuito a crearne i presupposti.
Lei ha studiato la crescita delle divergenze manifestatesi fra diverse aree d’Europa a partire dall’entrata in vigore dell’Euro. Che influenza hanno esercitato queste divaricazioni sulla crisi che stiamo attraversando? E come si potrebbe porvi rimedio?
Gli squilibri sui quali io e molti altri economisti ci siamo soffermati essenzialmente riguardano i rapporti commerciali tra i paesi della zona euro. Abbiamo rilevato che, soprattutto a partire dalla nascita della moneta unica, si è verificata una crescita dei surplus commerciali verso l’estero della Germania ed un corrispondente aumento dei deficit commerciali verso l’estero di Grecia, Spagna, Portogallo, Italia e, in parte, anche della Francia. Questi squilibri commerciali all’interno della zona euro rappresentano sicuramente una delle cause principali dell’effetto particolarmente grave che la crisi mondiale sta avendo sull’Unione monetaria europea. Questi squilibri sono in larga misura determinati dalla politica della Germania, che si contraddistingue per l’obiettivo di spingere sulle esportazioni e tenere sotto controllo la domanda interna e quindi le importazioni. I tedeschi, per generare un sistematico surplus di esportazioni sulle importazioni, attuano politiche restrittive e di forte contenimento dei salari in rapporto alla produttività. Basti ricordare che dal 2000 ad oggi, mentre nel resto d’Europa i salari reali sono cresciuti di circa il 5%, in Germania la crescita dei salari reali è stata pari a zero. Questo contenimento dei salari tedeschi avviene nonostante una crescita significativa della produttività. Ma quando la produttività cresce mentre i salari restano al palo, si verifica automaticamente uno spostamento della distribuzione del reddito dai salari verso i profitti, che conquistano gli incrementi di produttività. Non a caso, dal 2000 ad oggi, in Germania si è anche verificata una caduta della quota salari su PIL totale dell’ordine del 3%, mentre nel resto d’Europa è stata pari allo 0,7%. Questo spostamento di reddito è estremamente significativo, e contribuisce ad accentuare gli squilibri interni alla zona euro. Se la Germania insiste sulla strada della competizione salariale, la zona euro rischia di essere spacciata perché i paesi periferici, ad un certo punto, potrebbero essere costretti a sganciarsi dalla moneta unica per svalutare, nel tentativo di guadagnare competitività e riequilibrare il disavanzo commerciale. Questo esito non sarebbe da imputare solo alla debolezza economica dei paesi periferici. La Germania sarebbe corresponsabile, se non di più. Per risolvere il problema la Germania dovrebbe ribaltare la propria politica economica, che da restrittiva dovrebbe diventare espansiva: dovrebbe cioè puntare non più solo sull’esportazione ma anche sull’importazione di merci. A questo riguardo si potrebbero utilizzare diversi meccanismi. Personalmente ho suggerito l’adozione di uno “standard retributivo europeo”. Si tratta di uno strumento che costringerebbe la Germania a far crescere i salari più della produttività fino al riassorbimento del surplus verso l’estero. Questo meccanismo è interessante perché contribuisce anche a sfatare un luogo comune: solitamente si dice che la salvezza della zona euro è in confitto con gli interessi dei lavoratori, nel senso che se si vuole salvare l’euro i lavoratori devono fare sacrifici. Lo “standard” invece dimostra che gli interessi dei lavoratori europei e la salvezza dell’euro sono obiettivi coincidenti.
Le cronache di questi giorni ci parlano del tentativo della francese Edf di aggiudicarsi la proprietà di Edison. E’ forse iniziato lo “shopping” del patrimonio industriale italiano ad opera dei capitali stranieri?
Una delle conseguenze della crisi della zona euro consiste nel fatto che i paesi maggiormente indebitati si caratterizzano anche per una tendenza delle loro imprese ad accumulare debiti che non riescono a rimborsare. In queste circostanze, per recuperare condizioni di solvibilità, può accadere che si sia costretti a mettere parti di capitale sul mercato – in sostanza, si sia costretti a vendere. Ed è possibile che i compratori siano esteri. A questo riguardo va segnalata una cosa: se la zona euro dovesse deflagrare e quindi si verificasse una svalutazione da parte dell’Italia e degli altri paesi deboli, la probabilità di acquisizioni da parte di soggetti stranieri sarebbe ancora maggiore. Lo dimostra il caso del 1992: dopo la crisi del Sistema Monetario Europeo e la conseguente svalutazione della Lira, l’Italia fu attraversata da un processo di privatizzazioni nel quale i principali acquirenti furono stranieri e questo per un motivo semplice: la svalutazione riduce il valore dei capitali nazionali e quindi consente ai capitali esteri di fare shopping a buon mercato. E’ quel processo che Marx ed Hilferding definivano “centralizzazione dei capitali”.
Veniamo al tema “lavoro”. Il 23 ottobre, sul Corriere della Sera, gli economisti Alesina e Giavazzi hanno avanzato 10 proposte a costo zero per dare una “scossa” al paese. Le prime 4 hanno anticipato la lettera d’intenti di Berlusconi in materia di liberalizzazione del mercato del lavoro: la terza chiede l’applicazione dell’Art. 8 del decreto di Agosto e la quarta reintroduce le gabbie salariali tra Nord e Sud. D’altra parte c’è chi, all’interno del più importante partito d’opposizione, sostiene che “bisogna fare come in Germania”.
Iniziamo dall’esortazione a “fare come in Germania”. Il tentativo di imitare un competitore altamente efficiente è una cosa comprensibile. Il fatto che si desideri emulare la capacità tedesca di sviluppare la produttività è sensato. Ma c’è un problema: se tutti davvero “facessimo come la Germania” non si capirebbe più chi compra le merci! Mi spiego: abbiamo detto che la Germania si caratterizza per una strategia di sviluppo basata sul controllo della domanda interna, sul contenimento dei salari rispetto alla produttività e sulla forte crescita delle esportazioni rispetto alle importazioni. Questo modello di sviluppo ha funzionato efficacemente perché vi sono stati, di converso, paesi – come l’Italia, la Spagna, la Grecia, il Portogallo e la stessa Francia – che si sono resi disponibili a indebitarsi verso l’estero per comprare merci tedesche. Si comprende di conseguenza che se tutti pretendiamo di fare come la Germania, se cioè puntiamo a generare un eccesso di esportazioni sulle importazioni – anche attraverso un forte contenimento del costo del lavoro – il risultato è che cadremo tutti inesorabilmente in una depressione generalizzata. Esiste quindi un evidente vizio logico nello slogan “dobbiamo fare come la Germania”.
Per quanto riguarda le proposte avanzate da Alesina e Giavazzi, se ci soffermiamo sulla richiesta di rendere più flessibile il mercato del lavoro, bisogna ricordare che l’Italia ha già lungamente praticato questa politica. Fra 1998 e 2008 il nostro paese si è contraddistinto per una caduta degli indici di protezione del lavoro calcolati dall’OCSE che in Europa è stata la più pesante di tutte. Ora, riguardo agli effetti di questo tipo di politica sull’occupazione, il prof. Giavazzi sa bene – essendo coautore dell’edizione italiana del suo manuale di macroeconomia – che Olivier Blanchard, direttore dell’ufficio ricerca del Fondo Monetario Internazionale, a conclusione di una rassegna di tutte le ricerche realizzate a riguardo, ha rilevato che non c’è una correlazione fra protezioni del lavoro e disoccupazione: la maggiore flessibilità del lavoro non riduce la disoccupazione. Anzi, bisognerebbe tener conto del fatto che la precarizzazione del lavoro, rendendo più facili i licenziamenti in tempo di crisi, fa cadere più velocemente il monte salari e quindi rischia di accentuare la recessione. In generale, cioè, tende a determinare una maggiore instabilità del ciclo economico. Detto questo, indubbiamente c’è una cosa che la maggiore flessibilità dei contratti di lavoro determina ed è la riduzione del potere contrattuale dei lavoratori; in questo modo la dinamica salariale si ferma o addirittura comincia a declinare. Sotto questo aspetto si potrebbe magari pensare che chi propone la maggiore flessibilità del lavoro di fatto auspichi una ulteriore compressione dei salari in modo da aumentare la competitività nazionale. Questa è una tesi brutale ma logicamente sensata. Il problema è che questo tipo di politica – ripeto, lungamente praticata in Italia – non ha determinato un miglioramento della competitività relativa del paese: il nostro deficit commerciale verso l’estero è comunque aumentato. Questa politica non ha funzionato perché, in misura ancor più accentuata, l’ha praticata anche la Germania. In questa rincorsa al ribasso delle tutele, dei diritti e dei salari contro la Germania noi rischieremo sempre di soccombere. Non solo: la corsa al ribasso in quanto tale, generando una deflazione generalizzata, non fa altro che accentuare il profilo della crisi europea.
Giusto una precisazione sulla linea di pensiero Ichino-Boeri, che propongono la ricetta della flex-security, secondo la quale in Italia ci sarebbe bisogno di “maggiore flessibilità e meno precarietà”. Da un punto di vista scientifico che valenza ha un’affermazione del genere?
L’idea della “flex-security” è che, da un lato, bisognerebbe rendere più facili i licenziamenti e, dall’altro, si dovrebbero aumentare le tutele sul mercato del lavoro, per esempio i sussidi di disoccupazione. Ci sono due elementi che rendono questa politica discutibile. In primo luogo, per arrivare a una dimensione di sussidi tale da ridurre significativamente la precarietà del lavoro, la spesa pubblica complessiva dovrebbe essere molto elevata – e non si capisce come i promotori intendano finanziarla. In secondo luogo, non è chiaro il motivo per cui bisognerebbe rendere i licenziamenti più facili. La ricerca economica infatti non è riuscita a dimostrare che contratti più flessibili determinino effetti positivi sul sistema economico. Per esempio, noi rileviamo sul piano dell’analisi empirica che contratti flessibili hanno effetti controversi sulla produttività del lavoro: addirittura possono ridurla. Ciò perché il lavoratore con minori tutele ha meno incentivi a investire e a formarsi e tende più facilmente ad assumere un comportamento alienato, opportunistico e al limite ostile nei confronti del luogo e dell’azienda presso cui lavora. Non si capiscono quindi gli obbiettivi generali di questa proposta.
Lei ritiene che la sinistra italiana sia sufficientemente preparata sul piano economico per affrontare i tempi difficili che stiamo attraversando?
Le sinistre – e più in generale gli eredi del movimento operaio – sono rimaste schiacciate dalla crisi. Non soltanto i liberisti più oltranzisti, ma anche autorevoli esponenti della sinistra hanno ritenuto che il modo di produzione capitalistico si fosse stabilizzato, che fosse ormai esente da crisi sistemiche. Per cui il ruolo delle sinistre a quel punto si riduceva a chiedere un po’ di redistribuzione a fronte di una crescita che veniva trainata fondamentalmente dal meccanismo della finanza privata. A causa di questa illusione le sinistre sono rimaste spiazzate dalla crisi almeno quanto i propugnatori del liberismo più sfrenato. Detto questo, oggi rilevo qualche ripensamento rispetto alle idee che hanno caratterizzato i decenni passati. Per esempio, nella riunione tenutasi a Varsavia nel dicembre 2010 le forze aderenti al partito socialista europeo hanno iniziato a prendere atto che l’assetto delle istituzioni europee è auto-contraddittorio e non è in grado di reggere a una situazione di crisi come quella che stiamo a attraversando. Rilevo pure che le illusioni della “terza via”, del “liberismo temperato”, sono state accantonate e si è recuperata una visione più vicina alla tradizione novecentesca socialdemocratica e del movimento operaio. Pure nella attuale segreteria del Partito Democratico sembra affiorare la volontà di superare i vecchi retaggi. Basti pensare che il PD ha incorporato la proposta di “standard retributivo europeo” all’interno del suo programma di riforme, pubblicato lo scorso aprile. Detto ciò, tuttavia, io avverto pure un terrificante ritardo delle sinistre rispetto al ritmo di propagazione della crisi. Le nuove idee infatti faticano ad imporsi. All’interno dei partiti della sinistra c’è ancora da battagliare con soggetti che, mentre le macerie gli cadono addosso, continuano a propugnare le solite ricette del pareggio di bilancio pubblico e del liberismo sul mercato del lavoro. Questo ritardo rischiamo di pagarlo carissimo. Se davvero l’Unione europea dovesse deflagrare, le responsabilità risiederebbero non solo tra i portatori degli interessi prevalenti in Germania, ma anche nell’incapacità dei partiti socialisti europei – e più in generale delle forze eredi più o meno dirette del movimento operaio – di modificare il loro indirizzo di politica economica in tempo per fronteggiare la crisi.
Facciamo un gioco che andava di moda qualche anno fa nella stampa anglosassone. Se Emiliano Brancaccio fosse un dittatore cosa farebbe nell’immediato per far fronte alla crisi?
Se fossi un dittatore mi dimetterei [ridendo]. A parte gli scherzi, bisognerebbe piuttosto porsi il problema di contrastare l’attuale tendenza verso strutture decisionali oligarchiche. Bisognerebbe mettere in funzione una democrazia realmente rappresentativa degli interessi prevalenti ed effettivamente partecipata. Una democrazia che funzionasse davvero probabilmente prenderebbe atto del fatto che l’unità europea per essere salvata necessita di riforme. In primo luogo, di un “motore interno” dello sviluppo economico e sociale. Il regime di accumulazione del capitale trainato dalla finanza privata – in particolare statunitense – è infatti entrato in crisi e difficilmente potrà essere ripristinato. Questa è un’occasione storica per poter costruire un nuovo e diverso regime di sviluppo. Una possibilità verte sul recupero, sull’aggiornamento e sul rilancio del concetto di pianificazione pubblica. E’ possibile cioè concepire un motore dello sviluppo economico europeo fondato sulla pianificazione pubblica degli investimenti. Se la politica monetaria e la politica fiscale venissero orientate in questa direzione si attiverebbe un propulsore interno, in grado di salvaguardare l’unità europea. A questo motore bisognerebbe però aggiungere un meccanismo di riequilibrio nei rapporti sociali fra le classi e commerciali fra le nazioni. Lo “standard retributivo europeo” è una delle tante soluzioni possibili.
Ma come si potrebbe, qui e ora, fare in modo che queste politiche alternative siano praticate?
Forse bisognerebbe chiarire, soprattutto ai tedeschi, che se davvero salta la moneta unica allora rischierà di saltare anche il mercato unico europeo. Bisognerebbe cioè dire con chiarezza che i paesi periferici, se fossero costretti a uscire dalla zona euro, potrebbero non solo svalutare, ma anche introdurre limiti alla circolazione di capitali e di merci. Questa opzione, che potremmo definire “neo-protezionista”, costituirebbe una minaccia grave per la Germania, una minaccia più grave della sola svalutazione perché, come abbiamo detto, la Germania fonda una parte significativa del proprio sviluppo economico sulla capacità di penetrare i mercati esteri. Per quanto paradossale possa sembrare, una esplicita minaccia protezionistica potrebbe costituire una strategia in grado di portarci alla salvezza della zona Euro.
Emiliano Brancaccio , La crisi del pensiero unico, Franco Angeli, 2010, seconda edizione
Emiliano Brancaccio è docente di Fondamenti di Economia Politica ed Economia del Lavoro presso l’Università del Sannio a Benevento; è uno tra i più autorevoli analisti e critici delle teorie economiche dominanti. La ferrea rigorosità scientifica del ragionamento, l’impressionante conoscenza storica degli avvenimenti economici e la chiarezza nell’esposizione di argomenti complessi lo rendono ospite particolarmente gradito sulle colonne di importanti testate giornalistiche italiane e in numerose trasmissioni televisive. Il prof. Brancaccio, promotore con altri colleghi dell’Appello degli economisti del 2006 e della Lettera degli economisti dello scorso anno per un indirizzo alternativo di politica economica, è una delle “cassandre” che aveva previsto la crisi della zona euro, argomento tristemente attuale.
Prof. Brancaccio, vuole spiegare in parole semplici al lettore qual è il compito di un economista, cosa significhi “applicare il metodo scientifico” per prendere decisioni di politica economica e perché, per dirla con i Prof. Roncaglia, molto spesso gli “economisti sbagliano”?
Talvolta si usa dire che l’economia politica è quella scienza che tenta di rispondere alle seguenti domande: cosa produrre; quanto produrre; come produrre; come distribuire i prodotti realizzati all’interno di un dato sistema sociale. Il problema è che le risposte cambiano a seconda del contesto storico, e possono essere più o meno agevoli. Per esempio, per quanto riguarda il modo di produzione capitalistico, comprendere le sue “leggi di movimento” per rispondere a quelle domande è cosa molto difficile. Il motivo è che, a differenza dei sistemi precedenti, il capitalismo si caratterizza per un meccanismo impersonale, decentrato, che cioè regola i comportamenti di una miriade di soggetti non coordinati tra di loro. E’ proprio questa intrinseca complessità del capitalismo che ha dato luogo alla nascita della scienza economica, che prima non esisteva. Naturalmente, mi si potrebbe obiettare che una “scienza” può dirsi tale se, oltre a saper descrivere i fenomeni, sa anche prevederli. Accetto volentieri la provocazione. E dico, a questo riguardo, che la scienza economica, oltre ad essere più “giovane”, è anche più difficile delle scienze cosiddette “dure”, come ad esempio la fisica e la chimica. Il motivo è che la previsione delle conseguenze degli atti umani è un’ambizione gigantesca, persino superiore a quella di Galileo, che puntava più modestamente a prevedere il movimento degli astri. Tuttavia, pur nelle difficoltà di una scienza “giovane”, è già possibile attribuire all’economia una capacità non solo descrittiva ma anche previsionale. Sotto questo aspetto è necessario chiarire l’affermazione di Alessandro Roncaglia, il quale si riferiva non agli economisti in generale, ma ad una particolare categoria di economisti: vale a dire gli esponenti del cosiddetto mainstream, cioè della teoria economica attualmente dominante. Questi, secondo Roncaglia, ma anche secondo me, si sono fatti portatori di una visione del funzionamento del sistema capitalistico discutibile nelle sue premesse, che conduce a valutare il meccanismo capitalistico in termini più ottimistici di quanto non sia. E’ per questo che gli economisti del mainstream sono rimasti spiazzati – secondo le loro stesse ammissioni – dalla crisi economica esplosa tra il 2007 e il 2008.
Lei ha intitolato il suo ultimo libro “La crisi del Pensiero Unico”. A cosa si riferisce?
Da una estremizzazione della teoria economica mainstream è scaturita, nell’ultimo trentennio, una visione della politica economica che venne definita da Le Monde Diplomatique “pensiero unico”. Il riferimento, naturalmente, è a quello che nel gergo comune viene definito “liberismo”, ossia la dottrina che pretende di affidare le sorti del sistema al presunto “libero” operare delle forze impersonali del mercato (che in realtà non sono mai del tutto libere né del tutto impersonali). E’ evidente che l’attuale crisi economica non ha soltanto sollevato dubbi sulle premesse della teoria economica mainstream, ma ha soprattutto messo in discussione le implicazioni liberiste che solitamente se ne traevano e che dominavano la scena politica mondiale. Oggi il pensiero unico è indubbiamente in crisi ma non si può dire che sia morto e sepolto. Anzi: tenta continuamente di riaffermare il suo primato.
Se il pensiero unico è in crisi, perché le istituzioni politiche e gli economisti che ne “consigliano” le azioni di politica economica perseverano? Che idea si è fatto?
Io ritengo che l’economia politica e la sua critica abbiano precise basi scientifiche. Ma bisogna anche aggiungere che l’economia affronta temi che incidono talmente tanto sul vissuto quotidiano degli individui, sulle loro condizioni materiali, che diventa inevitabile che la “scienza” sia almeno in parte condizionata dall’elemento ideologico. E che, di conseguenza, le idee della scienza economica siano non semplicemente il frutto di una serie di verifiche metodologiche, teoriche ed empiriche, ma siano anche la risultante di rapporti di forza tra gruppi sociali antagonisti. Evidentemente il pensiero unico resiste perché i gruppi sociali che prediligono quell’indirizzo di politica economica sono tuttora egemoni. Questo è un dato di fatto.
Lei ritiene “scientificamente provate” ad ancora attuali le considerazioni di Marx sul conflitto tra capitale e lavoro? E quelle di Minsky sull’instabilità implicita del capitalismo?
Mi sembra che entrambe le considerazioni trovino evidenti riscontri nella realtà. Per quanto riguarda le analisi minskyane sull’instabilità strutturale del capitalismo, le evidenze erano palesi anche prima dell’ultima crisi economica mondiale. Successivamente alla crisi iniziata tre anni fa, il dato della instabilità del capitale è nuovamente emerso, in tutta la sua limpidezza. Minsky si occupava in particolare dell’instabilità del capitale nelle sue interazioni tra dimensione finanziaria e produttiva. Lo faceva anche in un modo meno ingenuo di quanto non si faccia oggi: a differenza di alcuni osservatori contemporanei, egli per esempio non commetteva l’errore di distinguere tra finanza e produzione reale, come se l’una fosse la mela marcia da togliere e l’altra la mela buona da salvare. Minsky affermava che in realtà l’instabilità del capitale deriva proprio dall’intreccio tra dimensione finanziaria e dimensione reale della produzione. Riguardo poi al conflitto tra capitale e lavoro, certo che esiste! Non vi è indicazione di politica economica che non contenga in termini più o meno impliciti un conflitto tra gruppi sociali contrapposti. Gli esempi recenti, dal tentativo di aumentare la libertà di licenziamento agli attacchi al sistema pensionistico, sono evidenti. Va anche precisato che il conflitto tra capitale e lavoro non è l’unico che si può analizzare in ottica marxista: esiste anche il conflitto tra capitali, che è una componente fondamentale dell’analisi marxista e che è attualissimo. Basti ricordare che la crisi della zona euro rappresenta sotto molti aspetti il riflesso di un conflitto tra capitali appartenenti a diverse nazioni.
A proposito di crisi europea: a giudicare da quello che sta accadendo in queste settimane secondo Lei l’Unione Europea è in pericolo?
La zona Euro è certamente in pericolo. I famigerati spreads, ossia i differenziali tra i tassi d’interesse dell’Italia e degli altri paesi periferici da un lato, e i tassi tedeschi dall’altro, stanno aumentando anche in virtù del fatto che gli operatori sui mercati finanziari intendono coprirsi contro quello che si definisce “rischio di cambio”. Cioè gli operatori chiedono tassi più alti sui prestiti di questi paesi non solo perché prevedono che questi paesi potrebbero risultare insolventi, ma anche e sopratutto perché temono che alcuni di essi si vedano costretti ad abbandonare l’Euro per svalutare le rispettive monete ed aumentare la competitività, cercando in questo modo di rilanciare domanda e produzione. Questa opzione comporterebbe anche un deprezzamento del valore dei titoli dei paesi che svalutano. Ecco perché gli operatori sono disposti a tenere quei titoli solo a tassi d’interesse più alti. Che dunque ci sia un rischio di deflagrazione della zona Euro ce lo dicono già ora i mercati.
E’ giusto che Merkel e Sarkozy chiedano ai paesi del Mediterraneo il rispetto dei vincoli di deficit e debito su PIL?
Merkel e Sarkozy non sono gli unici a pretendere una riduzione di deficit e debito pubblico dai paesi periferici. E’ l’intero impianto di politica economica europea, dalla Banca Centrale in giù, che chiede ciò. Il problema è che questo impianto è auto-contraddittorio: questa richiesta costringe i paesi debitori a ridurre le spese ed aumentare le tasse nel tentativo di ottemperare alle richieste, ma ciò non fa altro che accentuare il rischio di una recessione perché queste politiche riducono la domanda di merci, riducono la produzione, l’occupazione ed i redditi e quindi rendono più difficile il rimborso dei debiti. Il risultato finale è che le cosiddette politiche di “austerità” non ripristinano affatto la fiducia dei mercati, ma possono addirittura indurre ulteriori vendite di titoli. E’ il proverbiale gatto che si morde la coda, definito negli anni ’30 da Irving Fisher deflazione da debiti. In questa deflazione da debiti ci siamo ormai dentro fino al collo.
I “sacrifici” che ci vengono raccomandati, fra gli altri, dal Presidente della Repubblica, sono indispensabili?
In Italia, a sinistra, ci si è sempre periodicamente innamorati delle parole intrise di senso del sacrificio: una volta era la “austerity”, oggi è il “rigore”. Non ci sarebbe nulla di male se con ciò si intendesse uno sforzo collettivo per rendere il fragile Stato italiano più forte, per sottrarlo alle corruttele e alla speculazione, e per orientare le risorse pubbliche verso scopi produttivi di benessere collettivo. Il problema è che invece quelle parole vengono declinate quasi esclusivamente nel senso della contrazione del bilancio statale e dell’abbattimento della spesa pubblica. Si tratta di un errore gravissimo, che danneggia in primo luogo la classe lavoratrice, che la sinistra dovrebbe candidarsi a rappresentare e a proteggere.
La nostra situazione economica è paragonabile a quella degli anni ’30?
Non lo dico io: gli economisti Barry Eichengreen e Kevin O’Rourke hanno pubblicato una interessante ricerca che ha dimostrato che, dopo la crisi esplosa nel 2008, la caduta iniziale del PIL mondiale è stata persino più accentuata di quanto non fu dopo il 1929, all’inizio della cosiddetta Grande Depressione. Dunque le analogie con la crisi degli anni Trenta sono supportate dai dati. Del resto, lo stesso Presidente uscente della Banca Centrale Europea, Trichet, ha affermato di recente che questa è senza dubbio la crisi economica più grave dal dopoguerra.
Molti economisti hanno recentemente pubblicato dati statistici che attestano come l’attuale distribuzione dei redditi a livello di singoli paesi sia sperequata almeno quanto lo era all’epoca della Grande Crisi. C’è un nesso tra concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi e crisi economica?
La tesi secondo cui la crisi economica può essere favorita da una forte sperequazione dei redditi è stata in effetti sostenuta nel tempo da svariati economisti. Nel campo dei teorici “critici” ricordo Paolo Sylos Labini, che forniva un’interpretazione della grande crisi degli anni Trenta che attribuiva notevole rilievo al problema della divaricazione dei redditi. Ma ve ne sono anche nell’ambito del mainstream: ad esempio, il premio Nobel Joseph Stiglitz ha recentemente aderito a questa tesi. In genere questa chiave di lettura si basa sul fatto che la propensione al consumo dei salari è maggiore rispetto alla propensione al consumo di profitti e rendite. Ossia, se diamo 100 Euro a un operaio, questi evidentemente spenderà una quota significativa di quella somma e tenderà a risparmiarne una quota molto piccola; se invece trasferiamo questi 100 euro a un titolare di capitali o di rendite finanziarie o immobiliari, questi molto probabilmente non si accorgerà nemmeno di averli e tenderà a risparmiarli. Si tratta di un’evidenza ben documentata dai dati empirici. Da questa constatazione si giunge quindi all‘idea che quanto più si sposta il reddito dai lavoratori ai proprietari del capitale tanto più la spesa complessiva, cioè la domanda di merci, tende a deprimersi. Ora, è indubbio che nel corso dell’ultimo trentennio si sia registrato un enorme spostamento di reddito dai salari ai profitti: in Europa, ad esempio, la quota di reddito destinata ai salari è crollata in un trentennio da circa il 67% a poco più del 55%. Ed è anche vero che recenti ricerche pubblicate dal Cambridge Journal of Economics hanno confermato che lo spostamento di redditi dai salari ai profitti ha un effetto depressivo che, cumulandosi del tempo, può avere una rilevanza tutt’altro che trascurabile. Personalmente non saprei dire se questa sia stata la causa principale della crisi. Senz’altro, si tratta di un fattore che può aver contribuito a crearne i presupposti.
Lei ha studiato la crescita delle divergenze manifestatesi fra diverse aree d’Europa a partire dall’entrata in vigore dell’Euro. Che influenza hanno esercitato queste divaricazioni sulla crisi che stiamo attraversando? E come si potrebbe porvi rimedio?
Gli squilibri sui quali io e molti altri economisti ci siamo soffermati essenzialmente riguardano i rapporti commerciali tra i paesi della zona euro. Abbiamo rilevato che, soprattutto a partire dalla nascita della moneta unica, si è verificata una crescita dei surplus commerciali verso l’estero della Germania ed un corrispondente aumento dei deficit commerciali verso l’estero di Grecia, Spagna, Portogallo, Italia e, in parte, anche della Francia. Questi squilibri commerciali all’interno della zona euro rappresentano sicuramente una delle cause principali dell’effetto particolarmente grave che la crisi mondiale sta avendo sull’Unione monetaria europea. Questi squilibri sono in larga misura determinati dalla politica della Germania, che si contraddistingue per l’obiettivo di spingere sulle esportazioni e tenere sotto controllo la domanda interna e quindi le importazioni. I tedeschi, per generare un sistematico surplus di esportazioni sulle importazioni, attuano politiche restrittive e di forte contenimento dei salari in rapporto alla produttività. Basti ricordare che dal 2000 ad oggi, mentre nel resto d’Europa i salari reali sono cresciuti di circa il 5%, in Germania la crescita dei salari reali è stata pari a zero. Questo contenimento dei salari tedeschi avviene nonostante una crescita significativa della produttività. Ma quando la produttività cresce mentre i salari restano al palo, si verifica automaticamente uno spostamento della distribuzione del reddito dai salari verso i profitti, che conquistano gli incrementi di produttività. Non a caso, dal 2000 ad oggi, in Germania si è anche verificata una caduta della quota salari su PIL totale dell’ordine del 3%, mentre nel resto d’Europa è stata pari allo 0,7%. Questo spostamento di reddito è estremamente significativo, e contribuisce ad accentuare gli squilibri interni alla zona euro. Se la Germania insiste sulla strada della competizione salariale, la zona euro rischia di essere spacciata perché i paesi periferici, ad un certo punto, potrebbero essere costretti a sganciarsi dalla moneta unica per svalutare, nel tentativo di guadagnare competitività e riequilibrare il disavanzo commerciale. Questo esito non sarebbe da imputare solo alla debolezza economica dei paesi periferici. La Germania sarebbe corresponsabile, se non di più. Per risolvere il problema la Germania dovrebbe ribaltare la propria politica economica, che da restrittiva dovrebbe diventare espansiva: dovrebbe cioè puntare non più solo sull’esportazione ma anche sull’importazione di merci. A questo riguardo si potrebbero utilizzare diversi meccanismi. Personalmente ho suggerito l’adozione di uno “standard retributivo europeo”. Si tratta di uno strumento che costringerebbe la Germania a far crescere i salari più della produttività fino al riassorbimento del surplus verso l’estero. Questo meccanismo è interessante perché contribuisce anche a sfatare un luogo comune: solitamente si dice che la salvezza della zona euro è in confitto con gli interessi dei lavoratori, nel senso che se si vuole salvare l’euro i lavoratori devono fare sacrifici. Lo “standard” invece dimostra che gli interessi dei lavoratori europei e la salvezza dell’euro sono obiettivi coincidenti.
Le cronache di questi giorni ci parlano del tentativo della francese Edf di aggiudicarsi la proprietà di Edison. E’ forse iniziato lo “shopping” del patrimonio industriale italiano ad opera dei capitali stranieri?
Una delle conseguenze della crisi della zona euro consiste nel fatto che i paesi maggiormente indebitati si caratterizzano anche per una tendenza delle loro imprese ad accumulare debiti che non riescono a rimborsare. In queste circostanze, per recuperare condizioni di solvibilità, può accadere che si sia costretti a mettere parti di capitale sul mercato – in sostanza, si sia costretti a vendere. Ed è possibile che i compratori siano esteri. A questo riguardo va segnalata una cosa: se la zona euro dovesse deflagrare e quindi si verificasse una svalutazione da parte dell’Italia e degli altri paesi deboli, la probabilità di acquisizioni da parte di soggetti stranieri sarebbe ancora maggiore. Lo dimostra il caso del 1992: dopo la crisi del Sistema Monetario Europeo e la conseguente svalutazione della Lira, l’Italia fu attraversata da un processo di privatizzazioni nel quale i principali acquirenti furono stranieri e questo per un motivo semplice: la svalutazione riduce il valore dei capitali nazionali e quindi consente ai capitali esteri di fare shopping a buon mercato. E’ quel processo che Marx ed Hilferding definivano “centralizzazione dei capitali”.
Veniamo al tema “lavoro”. Il 23 ottobre, sul Corriere della Sera, gli economisti Alesina e Giavazzi hanno avanzato 10 proposte a costo zero per dare una “scossa” al paese. Le prime 4 hanno anticipato la lettera d’intenti di Berlusconi in materia di liberalizzazione del mercato del lavoro: la terza chiede l’applicazione dell’Art. 8 del decreto di Agosto e la quarta reintroduce le gabbie salariali tra Nord e Sud. D’altra parte c’è chi, all’interno del più importante partito d’opposizione, sostiene che “bisogna fare come in Germania”.
Iniziamo dall’esortazione a “fare come in Germania”. Il tentativo di imitare un competitore altamente efficiente è una cosa comprensibile. Il fatto che si desideri emulare la capacità tedesca di sviluppare la produttività è sensato. Ma c’è un problema: se tutti davvero “facessimo come la Germania” non si capirebbe più chi compra le merci! Mi spiego: abbiamo detto che la Germania si caratterizza per una strategia di sviluppo basata sul controllo della domanda interna, sul contenimento dei salari rispetto alla produttività e sulla forte crescita delle esportazioni rispetto alle importazioni. Questo modello di sviluppo ha funzionato efficacemente perché vi sono stati, di converso, paesi – come l’Italia, la Spagna, la Grecia, il Portogallo e la stessa Francia – che si sono resi disponibili a indebitarsi verso l’estero per comprare merci tedesche. Si comprende di conseguenza che se tutti pretendiamo di fare come la Germania, se cioè puntiamo a generare un eccesso di esportazioni sulle importazioni – anche attraverso un forte contenimento del costo del lavoro – il risultato è che cadremo tutti inesorabilmente in una depressione generalizzata. Esiste quindi un evidente vizio logico nello slogan “dobbiamo fare come la Germania”.
Per quanto riguarda le proposte avanzate da Alesina e Giavazzi, se ci soffermiamo sulla richiesta di rendere più flessibile il mercato del lavoro, bisogna ricordare che l’Italia ha già lungamente praticato questa politica. Fra 1998 e 2008 il nostro paese si è contraddistinto per una caduta degli indici di protezione del lavoro calcolati dall’OCSE che in Europa è stata la più pesante di tutte. Ora, riguardo agli effetti di questo tipo di politica sull’occupazione, il prof. Giavazzi sa bene – essendo coautore dell’edizione italiana del suo manuale di macroeconomia – che Olivier Blanchard, direttore dell’ufficio ricerca del Fondo Monetario Internazionale, a conclusione di una rassegna di tutte le ricerche realizzate a riguardo, ha rilevato che non c’è una correlazione fra protezioni del lavoro e disoccupazione: la maggiore flessibilità del lavoro non riduce la disoccupazione. Anzi, bisognerebbe tener conto del fatto che la precarizzazione del lavoro, rendendo più facili i licenziamenti in tempo di crisi, fa cadere più velocemente il monte salari e quindi rischia di accentuare la recessione. In generale, cioè, tende a determinare una maggiore instabilità del ciclo economico. Detto questo, indubbiamente c’è una cosa che la maggiore flessibilità dei contratti di lavoro determina ed è la riduzione del potere contrattuale dei lavoratori; in questo modo la dinamica salariale si ferma o addirittura comincia a declinare. Sotto questo aspetto si potrebbe magari pensare che chi propone la maggiore flessibilità del lavoro di fatto auspichi una ulteriore compressione dei salari in modo da aumentare la competitività nazionale. Questa è una tesi brutale ma logicamente sensata. Il problema è che questo tipo di politica – ripeto, lungamente praticata in Italia – non ha determinato un miglioramento della competitività relativa del paese: il nostro deficit commerciale verso l’estero è comunque aumentato. Questa politica non ha funzionato perché, in misura ancor più accentuata, l’ha praticata anche la Germania. In questa rincorsa al ribasso delle tutele, dei diritti e dei salari contro la Germania noi rischieremo sempre di soccombere. Non solo: la corsa al ribasso in quanto tale, generando una deflazione generalizzata, non fa altro che accentuare il profilo della crisi europea.
Giusto una precisazione sulla linea di pensiero Ichino-Boeri, che propongono la ricetta della flex-security, secondo la quale in Italia ci sarebbe bisogno di “maggiore flessibilità e meno precarietà”. Da un punto di vista scientifico che valenza ha un’affermazione del genere?
L’idea della “flex-security” è che, da un lato, bisognerebbe rendere più facili i licenziamenti e, dall’altro, si dovrebbero aumentare le tutele sul mercato del lavoro, per esempio i sussidi di disoccupazione. Ci sono due elementi che rendono questa politica discutibile. In primo luogo, per arrivare a una dimensione di sussidi tale da ridurre significativamente la precarietà del lavoro, la spesa pubblica complessiva dovrebbe essere molto elevata – e non si capisce come i promotori intendano finanziarla. In secondo luogo, non è chiaro il motivo per cui bisognerebbe rendere i licenziamenti più facili. La ricerca economica infatti non è riuscita a dimostrare che contratti più flessibili determinino effetti positivi sul sistema economico. Per esempio, noi rileviamo sul piano dell’analisi empirica che contratti flessibili hanno effetti controversi sulla produttività del lavoro: addirittura possono ridurla. Ciò perché il lavoratore con minori tutele ha meno incentivi a investire e a formarsi e tende più facilmente ad assumere un comportamento alienato, opportunistico e al limite ostile nei confronti del luogo e dell’azienda presso cui lavora. Non si capiscono quindi gli obbiettivi generali di questa proposta.
Lei ritiene che la sinistra italiana sia sufficientemente preparata sul piano economico per affrontare i tempi difficili che stiamo attraversando?
Le sinistre – e più in generale gli eredi del movimento operaio – sono rimaste schiacciate dalla crisi. Non soltanto i liberisti più oltranzisti, ma anche autorevoli esponenti della sinistra hanno ritenuto che il modo di produzione capitalistico si fosse stabilizzato, che fosse ormai esente da crisi sistemiche. Per cui il ruolo delle sinistre a quel punto si riduceva a chiedere un po’ di redistribuzione a fronte di una crescita che veniva trainata fondamentalmente dal meccanismo della finanza privata. A causa di questa illusione le sinistre sono rimaste spiazzate dalla crisi almeno quanto i propugnatori del liberismo più sfrenato. Detto questo, oggi rilevo qualche ripensamento rispetto alle idee che hanno caratterizzato i decenni passati. Per esempio, nella riunione tenutasi a Varsavia nel dicembre 2010 le forze aderenti al partito socialista europeo hanno iniziato a prendere atto che l’assetto delle istituzioni europee è auto-contraddittorio e non è in grado di reggere a una situazione di crisi come quella che stiamo a attraversando. Rilevo pure che le illusioni della “terza via”, del “liberismo temperato”, sono state accantonate e si è recuperata una visione più vicina alla tradizione novecentesca socialdemocratica e del movimento operaio. Pure nella attuale segreteria del Partito Democratico sembra affiorare la volontà di superare i vecchi retaggi. Basti pensare che il PD ha incorporato la proposta di “standard retributivo europeo” all’interno del suo programma di riforme, pubblicato lo scorso aprile. Detto ciò, tuttavia, io avverto pure un terrificante ritardo delle sinistre rispetto al ritmo di propagazione della crisi. Le nuove idee infatti faticano ad imporsi. All’interno dei partiti della sinistra c’è ancora da battagliare con soggetti che, mentre le macerie gli cadono addosso, continuano a propugnare le solite ricette del pareggio di bilancio pubblico e del liberismo sul mercato del lavoro. Questo ritardo rischiamo di pagarlo carissimo. Se davvero l’Unione europea dovesse deflagrare, le responsabilità risiederebbero non solo tra i portatori degli interessi prevalenti in Germania, ma anche nell’incapacità dei partiti socialisti europei – e più in generale delle forze eredi più o meno dirette del movimento operaio – di modificare il loro indirizzo di politica economica in tempo per fronteggiare la crisi.
Facciamo un gioco che andava di moda qualche anno fa nella stampa anglosassone. Se Emiliano Brancaccio fosse un dittatore cosa farebbe nell’immediato per far fronte alla crisi?
Se fossi un dittatore mi dimetterei [ridendo]. A parte gli scherzi, bisognerebbe piuttosto porsi il problema di contrastare l’attuale tendenza verso strutture decisionali oligarchiche. Bisognerebbe mettere in funzione una democrazia realmente rappresentativa degli interessi prevalenti ed effettivamente partecipata. Una democrazia che funzionasse davvero probabilmente prenderebbe atto del fatto che l’unità europea per essere salvata necessita di riforme. In primo luogo, di un “motore interno” dello sviluppo economico e sociale. Il regime di accumulazione del capitale trainato dalla finanza privata – in particolare statunitense – è infatti entrato in crisi e difficilmente potrà essere ripristinato. Questa è un’occasione storica per poter costruire un nuovo e diverso regime di sviluppo. Una possibilità verte sul recupero, sull’aggiornamento e sul rilancio del concetto di pianificazione pubblica. E’ possibile cioè concepire un motore dello sviluppo economico europeo fondato sulla pianificazione pubblica degli investimenti. Se la politica monetaria e la politica fiscale venissero orientate in questa direzione si attiverebbe un propulsore interno, in grado di salvaguardare l’unità europea. A questo motore bisognerebbe però aggiungere un meccanismo di riequilibrio nei rapporti sociali fra le classi e commerciali fra le nazioni. Lo “standard retributivo europeo” è una delle tante soluzioni possibili.
Ma come si potrebbe, qui e ora, fare in modo che queste politiche alternative siano praticate?
Forse bisognerebbe chiarire, soprattutto ai tedeschi, che se davvero salta la moneta unica allora rischierà di saltare anche il mercato unico europeo. Bisognerebbe cioè dire con chiarezza che i paesi periferici, se fossero costretti a uscire dalla zona euro, potrebbero non solo svalutare, ma anche introdurre limiti alla circolazione di capitali e di merci. Questa opzione, che potremmo definire “neo-protezionista”, costituirebbe una minaccia grave per la Germania, una minaccia più grave della sola svalutazione perché, come abbiamo detto, la Germania fonda una parte significativa del proprio sviluppo economico sulla capacità di penetrare i mercati esteri. Per quanto paradossale possa sembrare, una esplicita minaccia protezionistica potrebbe costituire una strategia in grado di portarci alla salvezza della zona Euro.
Emiliano Brancaccio , La crisi del pensiero unico, Franco Angeli, 2010, seconda edizione
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