di Sergio Bruno - sinistrainrete -
L’incultura dominante insiste sul fatto che dalla crisi si esce lavorando di più. Ma in questo modo si ignora che cosa sia la produttività, che cosa la possa migliorare, gli orizzonti temporali degli investimenti. e il ruolo delle politiche
La produttivitàIl presidente di Confindustria Squinzi chiede: “bisogna lavorare di più, più ore, diminuendo festività e ferie. Qualunque tipo di provvedimento sulla competitività passa per il fatto che bisogna lavorare di più, più ore”.
Vediamo gli aspetti economici: la produttività viene misurata come valore di un prodotto rapportato a un fattore della produzione. Questo in principio. In pratica il prodotto viene rapportato al solo lavoro, perché ... è facile contare gli occupati e/o le ore lavorate. Di produttività totale dei fattori si parla solo in pubblicazioni specializzate e di produttività del capitale quasi mai, perché le relative stime sono dubbie e dipendono da ipotesi eroiche. Macchinari e impianti sono così diversi tra loro (eterogenei) che come si fa ad aggregarli? I lavoratori invece .... si può fingere che siano omogenei perché i differenziali di remunerazione sarebbero proporzionali ai loro differenziali di produttività. “Sarebbero”, perché la fiducia in un mercato capace di operare un tale miracolo è tanto cieca da ignorare miriadi di evidenze di segno contrario (si pensi solo a quanto è cresciuto negli ultimi trent’anni lo stipendio relativo dei manager rispetto a quello degli operai).
Squinzi pensa che bisogna lavorare più ore. Il prodotto fisico potrebbe crescere in proporzione esatta, ovvero più o meno proporzionalmente. Nel primo caso la produttività oraria resterebbe eguale, nel secondo aumenterebbe, nel terzo diminuirebbe. Ma in valore? Le si pagano o no le ore lavorate in più (è quel che chiede Angeletti)?
E che succederebbe a fronte di una maggiore produzione se non si riesce a vendere (sembra chiedere, tra le altre considerazioni, Camusso)?
Aspetti tecnici: qualcuno ritiene che gli operai delle fabbriche (ad esempio automobilistiche) tedesche o francesi, che appaiono avere una produttività maggiore di quella italiana, muovano le mani più velocemente di quelli delle fabbriche italiane? E’ evidente che la differenza di produttività non può che dipendere, indipendentemente o congiuntamente, dal fatto che il lay down del processo produttivo delle fabbriche estere è concepito meglio di quello delle fabbriche italiane o dal fatto che il lavoro è applicato a prodotti che si vendono a valori molto diversi tra loro: una cosa è vendere il risultato della stessa quantità di lavoro al prezzo di una utilitaria o a quello di un’auto sfiziosa venduta ad un prezzo superiore.
... il tempo
Una dimensione ormai ignorata da tutti, tecnocrati, governi, imprese. Tempo è quel che chiede la Grecia e che farebbero bene a chiedere anche altri paesi, non solo Spagna, Portogallo e Italia, ma anche la Francia (solo per fare un esempio). L’agire prende tempo, il realizzarsi di effetti prende tempo. La Grecia dice “siamo d’accordo nel fare quel che chiedete ma lasciatecelo fare nel doppio del tempo”. Hanno ragione, perché diluendo nel tempo l’austerità i suoi effetti depressivi sul PIL sarebbero inferiori.
Il tempo e il suo fluire sono, concettualmente, gli elementi logici che consentono di separare i flussi (il PIL, i redditi, la quantità di lavoro impiegato in ciascun periodo, i flussi di risparmio che si formano in ciascun periodo, il deficit pubblico annuo, gli investimenti di ciascun periodo, ...) dagli stock (la capacità produttiva totale esistente in un periodo, la ricchezza, i risparmi accumulati, il debito pubblico accumulato, ...) e dalle variazioni degli stock (il crescere della capacità produttiva, le variazioni del debito pubblico accumulato, ...) e/o dei loro valori (le variazioni dei valori di borsa, quelle dei valori immobiliari, ...). Tutte queste grandezze vengono ormai trattate confusamente da tutti (esempio, la sciatta e diseducativa frase “il PIL, cioè la ricchezza nazionale, sarà il prossimo anno del meno 2%”, al posto dell’espressione corretta “la variazione annua del PIL, cioè il flusso di produzione, del prossimo anno, sarà ...).
È importante distinguere flussi e stocks: il debito pubblico (uno stock) è il risultato di flussi di deficit annui accumulati nel corso di parecchio tempo. I governi non possono che agire sui flussi, usando l’austerità fiscale sui flussi per ridurre il debito e, per questa via, il rapporto debito/PIL. È per questo che ci vuole tempo, i flussi sono una frazione piccola degli stock. Tra i fenomeni che hanno luogo nel tempo esistono interrelazioni non banali, che dipendono da quanto si fa per unità di tempo. Anche il PIL è sensibile alle azioni restrittive sui flussi, anche se non necessariamente in proporzione alla diminuzione annua del deficit, sicché il PIL cresce meno o si riduce con il ridursi della spesa pubblica e il crescere delle imposte, tanto più intensamente quanto più drastica, e cioè concentrata nel tempo, è l’azione sui flussi. Risultato: se decrescono sia il debito che il PIL può accadere che il rapporto debito/PIL aumenti; ed è proprio quel che è accaduto. Il bello è che tutti ne sono consapevoli, perfino la Troika, perfino i tedeschi, ma l’intransigenza non cambia. Forse che l’obiettivo non è la riduzione del rapporto debito/PIL greco?
... la lungimiranza
Dice Marchionne: faremo gli investimenti quando vi sarà la ripresa. Creare nuovi modelli, predisporre gli impianti e organizzare nuove produzioni prende tempo, anni. Se la Fiat parte nella creazione di modelli solo dopo i primi segni di ripresa non può che perdere nella concorrenza di chi, investendo in ricerca e sviluppo in via permanente e rischiando di anticipare gli investimenti in capacità produttiva, si prepara in tempo.
C’è di più. Se tutti facessero come Marchionne, la ripresa non potrebbe emergere. Uno dei compiti dei governi, meglio ancora “il” compito di un ipotetico ministro europeo dell’economia, sarebbe quello di indurre sforzi di investimento proiettando scenari di crescita e coordinando ed incentivando gli attori di maggiori dimensioni ad uniformarsi a tale scenario.
Dicono Squinzi e tanti altri che bisogna essere più innovativi. Ma non dicono come. Le innovazioni sono come i risultati della ricerca. Si può essere ragionevolmente certi che quando partono cento progetti di ricerca un certo numero di essi darà risultati importanti, ma non si può scommettere sul successo di un singolo progetto, il cui fallimento non è di per sé uno spreco. È quindi il “sistema ricerca”, la sua qualità ma anche e forse soprattutto la suo estensione dimensionale, che garantiscono il successo (sempre con un ritardo temporale significativo). Ed in questo sta la lungimiranza. Se il sistema industriale italiano non è competitivo è facile prendersela con il lavoro e chiedere di lavorare di più per minori compensi. Si tratta di una competitività, di basso profilo e di effimera durata, che è possibile ottenere subito, se i lavoratori e le loro organizzazioni vengono messe in un angolo.
... competitività e innovazioni
Il punto è che la competitività dei nostri concorrenti internazionali dipende dal capitale umano, da come lo si organizza e utilizza. I nostri concorrenti internazionali hanno un sistema della ricerca che differisce dal nostro soprattutto perché, accanto alle università e ai centri di ricerca pubblici, esistono laboratori di ricerca, strutturati e formalizzati, presso l’industria. Questi laboratori hanno una loro relativa autonomia, contabilità separate e i ricercatori che in essi lavorano hanno uno status sociale ed esplicite prospettive di carriera. È possibile emulare tali modelli?
La risposta è “forse”, ma una tale trasformazione richiede tempo e non basta certo una singola legge ad hoc. In questo senso i crediti di imposta che sono già previsti per l’assunzione di dottori di ricerca nel 2012 saranno quasi sicuramente oggetto di uso opportunistico (è arduo capire se l’assunzione è “aggiuntiva”, anche se l’assunzione di personale qualificato è comunque cosa buona e giusta). Il problema è infatti, in Italia, rendere conveniente l’emergere nell’industria dei laboratori di ricerca quali istituzioni stabili, quali realtà organizzative permanenti, dotate di apparecchiature ed impianti, capaci di riprodurre team ben strutturati per competenze, età e prestigio. Questo e non altro sono i veri laboratori di ricerca.
Si crei dunque una normativa di favore per la ricerca privata, via crediti di imposta, anche generosissima ma vincolata al fatto di includere la presenza di laboratori negli statuti di impresa, con contabilità separate, ovvero per consorzi di imprese, e si condizionino imprese e consorzi ad inquadrare i ricercatori privati (per i quali non sono previsti oggi contratti che tengano conto delle peculiarità del lavoro di ricerca) nel quadro di contratti di lavoro specifici. La generosità estrema, che potrebbe essere modulata nel tempo, non costerebbe niente in caso di insuccesso, mentre genererebbe benefici compensativi in caso di successo.
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