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di A. Fab. -Qualcosa è cambiato. All’inizio della campagna elettorale Pier Luigi Bersani ripeteva ancora: «In caso di pareggio si torna a votare». Ieri ha corretto: «Un paese serio non può continuare a inseguire le elezioni». È la conferma, l’ennesima, che la collaborazione con il centro montiano è più che un’eventualità. È una certezza, lo schema fisso con il quale il Pd si presenta alle ultime due settimane di campagna elettorale.
Stefano Fassina, «giovane turco» e responsabile economico del partito, ieri mattina si era attenuto alla vecchia linea. «Nel caso di ingovernabilità – aveva spiegato – si cambia la legge elettorale e si torna al voto». Poco dopo ha corretto via twitter, con una spiegazione eloquente: «Si torni a votare è stata la risposta all’ipotesi di ingovernabilità, se manca la maggioranza al senato del centrosinistra più Monti». Con Monti, al contrario, governare si può.
Sia Fassina che Bersani ragionano sui sondaggi. L’ultimo più che suggerire l’allargamento al professore lo impone. Non è un sondaggio «ostile», lo ha fatto per Sky la Tecnè di Carlo Buttaroni, che collabora abitualmente con l’Unità. Il sondaggio assegna ancora un margine alla coalizione di centrosinistra, ma non più di tranquillità: 4,1% alla camera. La brutta notizia arriva dal senato, dove il premio di maggioranza è regionale e sono tornate in bilico anche regioni che sembravano acquisite al centrosinistra, come la Campania (Pd e Sel avrebbero solo 0,4% in più), il Piemonte (+2,2% per il centrosinistra) e la Puglia (+3,2% per il centrosinistra). Mentre sia Sicilia che Veneto sembrano ormai stabilmente al centrodestra, che ha un vantaggio che va dai 7 agli 11 punti percentuali. Stando così le cose, se pure Bersani dovesse riuscire nell’impresa di vincere in Lombardia (dove, in base a questa rilevazione, c’è al momento una perfetta parità) non conquisterebbe il numero minimo di 158 senatori, maggioranza assoluta a palazzo Madama. Dunque intesa obbligata con Monti, che continua a non brillare nelle intenzioni di voto ma che comunque dovrebbe portare a casa una trentina di senatori (Grillo qualcuno di più, ma è fuori dal gioco delle alleanze, mentre Ingroia non riuscirebbe a superare la soglia di sbarramento dell’8% nemmeno in Campania). La triste previsione diventa tragica, per Bersani, se si considera che nel caso al Pdl dovesse riuscire di aggiungere un paio di regioni alla Lombardia, ad esempio il Piemonte e la Campania, neanche l’alleanza con Monti basterebbe. Per formare un governo bisognerebbe strappare qualche senatore a Berlusconi.
Dai numeri alle parole cambia poco. «La destra non è certo quella stremata di 4-5 mesi fa – ammette Bersani – allo squillare delle trombe del Cavaliere sapevo che si sarebbero rimessi in movimento e Berlusconi sta riconquistando quelli che prima erano delusi». Ma il segretario aggiunge di essere ancora convinto di poter avere quel «51%» che in ogni caso lo spingerebbe ad aprire il dialogo con il «centro democratico». «Comunque non avevo mai detto che la vittoria era in tasca – aggiunge – la destra c’è, ma sono fiducioso». L’unica cosa che però a questo punto può escludere è la ripetizione delle larghe intese con Berlusconi. Alle cui offese ieri ha replicato con signorilità: «Mi ha fatto l’imitazione, fa ridere, nel cabaret è forte ma il paese non ha bisogno di cabaret».
Oggi e domani il segretario del Pd sarà in Piemonte, dove incrocia anche Renzi, convinto a rimettersi in pista più dalla rimonta berlusconiana che dalle richieste dello staff. Ma la conclusione della campagna elettorale Bersani la farà tradizionalmente a Roma, in una piazza di semiperiferia perché San Giovanni è occupata da Grillo. Scelta pericolosa, confronto inevitabile. E la San Giovanni (Bosco) del Pd è assai più piccola: La politica c’è passata una sola volta, in occasione di un funerale (quello di Piergiorgio Welby).
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