Da mesi i commentatori si dividono tra chi considera il Movimento 5 stelle una «costola della sinistra» e chi lo considera un’organizzazione populista, prevalentemente di destra, in certi casi tendenzialmente fascista. Sono vere entrambe le cose.
È stato sottolineato più volte che i contenuti ambientalisti del programma e l’insistenza sulla democrazia diretta e partecipativa avvicinino il Movimento alla sinistra libertaria e ambientalista degli anni Settanta e Ottanta.
In particolare, è dirompente la forza del messaggio partecipativo, lanciato dal M5S con una radicalità e un’efficacia che nessun movimento politico della sinistra recente è riuscito ad avere: l’annullamento della differenza tra rappresentati e rappresentanti; la sostituzione della delega con la partecipazione; la distruzione del professionismo politico. Dov’è, invece, nel M5S, la «destra»? In primo luogo, in una possibile evoluzione di questo stesso ideale democratico. Se vissuta come un obbiettivo che una sola forza sociale può autenticamente perseguire contro tutte le altre (partiti, sindacati, ecc.), l’iper-democrazia può rovesciarsi nel suo contrario. La forza politica che, come il M5S, avoca solo a sé una reale natura democratica, può presentare come iper-democratiche tutte le sue scelte, anche quelle che limitano l’agire democratico.
Se la democrazia radicale prevede la fine dei partiti, non è impossibile immaginare che di fronte a una prevedibile opposizione dei partiti alla propria estinzione, questa fine sia determinata, da un eventuale «governo a 5 Stelle, attraverso forzature non democratiche. In secondo luogo, il livello di «virtù» che il M5S richiede ai propri rappresentanti e attivisti è talmente elevato (per esempio prevede che sia annullata qualsiasi ambizione personale), da essere perseguibile solo attraverso un rigidissimo controllo centralizzato. Cosa che infatti avviene nel Movimento, dove si cerca di impedire che emergano sia protagonismi individuali, sia organismi collettivi che facciano da contrappeso al ruolo di Grillo e Casaleggio.
Tra i leader e i tanti singoli attivisti ed eletti, che sempre singoli e tendenzialmente anonimi devono rimanere, non ci deve essere niente. Altrimenti, avvertono Grillo e Casaleggio, «diventiamo un partito». Con il risultato che, al momento, nella sua struttura nazionale il M5S è un organismo molto meno democratico di un partito. Se questo è il modello di Stato che i due leader del M5S hanno in mente, non è molto rassicurante. In effetti, questo è un modello che ricalca proprio la forma del cosiddetto «capitalismo cognitivo». Come ha ricordato più volte, tra gli altri, Carlo Formenti, l’economia della Rete è caratterizzata da una vasta partecipazione dal basso (di utenti, consumatori, mediattivisti, ecc.) e da una restrizione piramidale in alto, cioè dal ruolo oligopolistico di poche grandissime imprese (Google, Amazon, ecc.). Il M5S sembra organizzato in modo analogo.
Forse l’analogia tra la sua forma e quella dell’economia della Rete ne spiega, in parte, il successo. Che questo sia il modello, lo fa pensare il rapporto che il M5S instaura con i movimenti. Nel suo recente comizio elettorale a Susa, Grillo ha fatto abbassare le bandiere No-Tav: «non siete più un comitato di protesta, adesso siamo tutti cittadini». Adesso vi rappresento io, è il messaggio. Nel mio Tutto c’è spazio anche per voi, non c’è bisogno che voi esprimiate autonomamente il vostro punto di vista. Questo è, in effetti, il rapporto prevalente che Grillo instaura con i movimenti di cui condivide le lotte. Raramente questo rapporto è un lavoro comune, una condivisione di finalità. Più spesso il M5S lavora autonomamente e «parallelamente» sugli stessi temi dei movimenti, cercando di rappresentarli sul piano elettorale e presentando quelle lotte come proprie. L’idea di essere una Totalità, la rappresentazione di un mondo di cittadini indifferenziato per condizione sociale e orientamento politico, è agli antipodi della storia e della natura della sinistra, che sono basate sulla costruzione di «parzialità organizzate».
La crisi dell’idea stessa di parzialità, l’emergere di questa «voglia di Totalità», è probabilmente una delle cause della crisi storica della sinistra. Grillo ha inoltre progressivamente spostato a destra il suo discorso politico, facendo suoi temi come la protesta anti-tasse, l’assunzione del piccolo imprenditore a proprio riferimento sociale, la libertà di impresa vista come bene in sé. In terzo luogo, estranea alla sinistra è la figura del creatore del M5S. La Casaleggio e Associati è un’impresa di punta del web marketing. La sua rete di relazioni comprende Confindustria, lobb y italiane come Aspen, lobby internazionali come l’American Chamber of Commerce, importanti imprese multinazionali, in particolare dell’informatica e dello spettacolo.
Un progetto nato in questo ambiente può favorire gli interessi dei ceti popolari? Oppure è plausibile pensare che offra delle opportunità alle élite economiche? Gli apprezzamenti al risultato elettorale del M5S arrivati da ambienti di Goldman Sachs e Confindustria lo lasciano pensare. E allora? Il Movimento 5 stelle è sia di sinistra che di destra, sia iperdemocratico che autoritario. Comprende in sé tutte le forme con cui la politica rappresentativa è stata sfidata in questi anni dall’alto e dal basso: è al contempo un movimento sociale, un partito-azienda, un partito personale.
Contiene in sé un’idea di politicizzazione totale della società («non votatemi, attivatevi») e l’idea di una spoliticizzazione tecnocratica, in cui l’amministrazione sostituisce la politica (le competenze al posto delle appartenenze). È profetico (l’Utopia acritica della Rete) e antiprofetico, cioè contro quella particolare tipologia di profezia politica che è l’ideologia moderna. La crisi della democrazia rappresentativa ha due possibili esiti: l’autoritarismo tecnocratico, magari ornato di qualche elemento partecipativo, e la democrazia partecipativa. Il M5S contiene in sé entrambe le possibilità. Anche da questa co-presenza deriva il suo successo: le difficoltà di una costruzione «assemblearistica» della decisione politica è aggirata attraverso il verticismo.
Il suo successo segnala che, usando il linguaggio di Gramsci, nella politica contemporanea c’è una nuova oscillazione dalla «guerra di trincea» (in cui le alternative politiche sono comprese negli assetti esistenti) alla «guerra di movimento»: ad essere in gioco sono gli assetti sociali stessi, le forme generali della politica e dell’economia. Questo passaggio apre alla sinistra un campo inedito di possibilità. A condizione che sappia giocare a questo livello. Che sappia elaborare, accanto a un proprio modello di democrazia radicale, un suo progetto globale di società. In crisi non è solo la rappresentanza, ma anche il capitalismo.
Su questo Grillo non dice (quasi) niente: questo è compito nostro, è il nostro terreno. Agire a questo livello significa, a mio parere, costruire un nuovo soggetto plurale che sappia federare tra loro le lotte per i beni comuni, i movimenti anti-austerity, le lotte del lavoro, il mondo del lavoro dipendente e quello del lavoro «cognitivo», provando a costruire un’alternativa globale di società, un progetto di «democrazia dei beni comuni», l’idea innovativa di un «socialismo del XXI secolo».
È stato sottolineato più volte che i contenuti ambientalisti del programma e l’insistenza sulla democrazia diretta e partecipativa avvicinino il Movimento alla sinistra libertaria e ambientalista degli anni Settanta e Ottanta.
In particolare, è dirompente la forza del messaggio partecipativo, lanciato dal M5S con una radicalità e un’efficacia che nessun movimento politico della sinistra recente è riuscito ad avere: l’annullamento della differenza tra rappresentati e rappresentanti; la sostituzione della delega con la partecipazione; la distruzione del professionismo politico. Dov’è, invece, nel M5S, la «destra»? In primo luogo, in una possibile evoluzione di questo stesso ideale democratico. Se vissuta come un obbiettivo che una sola forza sociale può autenticamente perseguire contro tutte le altre (partiti, sindacati, ecc.), l’iper-democrazia può rovesciarsi nel suo contrario. La forza politica che, come il M5S, avoca solo a sé una reale natura democratica, può presentare come iper-democratiche tutte le sue scelte, anche quelle che limitano l’agire democratico.
Se la democrazia radicale prevede la fine dei partiti, non è impossibile immaginare che di fronte a una prevedibile opposizione dei partiti alla propria estinzione, questa fine sia determinata, da un eventuale «governo a 5 Stelle, attraverso forzature non democratiche. In secondo luogo, il livello di «virtù» che il M5S richiede ai propri rappresentanti e attivisti è talmente elevato (per esempio prevede che sia annullata qualsiasi ambizione personale), da essere perseguibile solo attraverso un rigidissimo controllo centralizzato. Cosa che infatti avviene nel Movimento, dove si cerca di impedire che emergano sia protagonismi individuali, sia organismi collettivi che facciano da contrappeso al ruolo di Grillo e Casaleggio.
Tra i leader e i tanti singoli attivisti ed eletti, che sempre singoli e tendenzialmente anonimi devono rimanere, non ci deve essere niente. Altrimenti, avvertono Grillo e Casaleggio, «diventiamo un partito». Con il risultato che, al momento, nella sua struttura nazionale il M5S è un organismo molto meno democratico di un partito. Se questo è il modello di Stato che i due leader del M5S hanno in mente, non è molto rassicurante. In effetti, questo è un modello che ricalca proprio la forma del cosiddetto «capitalismo cognitivo». Come ha ricordato più volte, tra gli altri, Carlo Formenti, l’economia della Rete è caratterizzata da una vasta partecipazione dal basso (di utenti, consumatori, mediattivisti, ecc.) e da una restrizione piramidale in alto, cioè dal ruolo oligopolistico di poche grandissime imprese (Google, Amazon, ecc.). Il M5S sembra organizzato in modo analogo.
Forse l’analogia tra la sua forma e quella dell’economia della Rete ne spiega, in parte, il successo. Che questo sia il modello, lo fa pensare il rapporto che il M5S instaura con i movimenti. Nel suo recente comizio elettorale a Susa, Grillo ha fatto abbassare le bandiere No-Tav: «non siete più un comitato di protesta, adesso siamo tutti cittadini». Adesso vi rappresento io, è il messaggio. Nel mio Tutto c’è spazio anche per voi, non c’è bisogno che voi esprimiate autonomamente il vostro punto di vista. Questo è, in effetti, il rapporto prevalente che Grillo instaura con i movimenti di cui condivide le lotte. Raramente questo rapporto è un lavoro comune, una condivisione di finalità. Più spesso il M5S lavora autonomamente e «parallelamente» sugli stessi temi dei movimenti, cercando di rappresentarli sul piano elettorale e presentando quelle lotte come proprie. L’idea di essere una Totalità, la rappresentazione di un mondo di cittadini indifferenziato per condizione sociale e orientamento politico, è agli antipodi della storia e della natura della sinistra, che sono basate sulla costruzione di «parzialità organizzate».
La crisi dell’idea stessa di parzialità, l’emergere di questa «voglia di Totalità», è probabilmente una delle cause della crisi storica della sinistra. Grillo ha inoltre progressivamente spostato a destra il suo discorso politico, facendo suoi temi come la protesta anti-tasse, l’assunzione del piccolo imprenditore a proprio riferimento sociale, la libertà di impresa vista come bene in sé. In terzo luogo, estranea alla sinistra è la figura del creatore del M5S. La Casaleggio e Associati è un’impresa di punta del web marketing. La sua rete di relazioni comprende Confindustria, lobb y italiane come Aspen, lobby internazionali come l’American Chamber of Commerce, importanti imprese multinazionali, in particolare dell’informatica e dello spettacolo.
Un progetto nato in questo ambiente può favorire gli interessi dei ceti popolari? Oppure è plausibile pensare che offra delle opportunità alle élite economiche? Gli apprezzamenti al risultato elettorale del M5S arrivati da ambienti di Goldman Sachs e Confindustria lo lasciano pensare. E allora? Il Movimento 5 stelle è sia di sinistra che di destra, sia iperdemocratico che autoritario. Comprende in sé tutte le forme con cui la politica rappresentativa è stata sfidata in questi anni dall’alto e dal basso: è al contempo un movimento sociale, un partito-azienda, un partito personale.
Contiene in sé un’idea di politicizzazione totale della società («non votatemi, attivatevi») e l’idea di una spoliticizzazione tecnocratica, in cui l’amministrazione sostituisce la politica (le competenze al posto delle appartenenze). È profetico (l’Utopia acritica della Rete) e antiprofetico, cioè contro quella particolare tipologia di profezia politica che è l’ideologia moderna. La crisi della democrazia rappresentativa ha due possibili esiti: l’autoritarismo tecnocratico, magari ornato di qualche elemento partecipativo, e la democrazia partecipativa. Il M5S contiene in sé entrambe le possibilità. Anche da questa co-presenza deriva il suo successo: le difficoltà di una costruzione «assemblearistica» della decisione politica è aggirata attraverso il verticismo.
Il suo successo segnala che, usando il linguaggio di Gramsci, nella politica contemporanea c’è una nuova oscillazione dalla «guerra di trincea» (in cui le alternative politiche sono comprese negli assetti esistenti) alla «guerra di movimento»: ad essere in gioco sono gli assetti sociali stessi, le forme generali della politica e dell’economia. Questo passaggio apre alla sinistra un campo inedito di possibilità. A condizione che sappia giocare a questo livello. Che sappia elaborare, accanto a un proprio modello di democrazia radicale, un suo progetto globale di società. In crisi non è solo la rappresentanza, ma anche il capitalismo.
Su questo Grillo non dice (quasi) niente: questo è compito nostro, è il nostro terreno. Agire a questo livello significa, a mio parere, costruire un nuovo soggetto plurale che sappia federare tra loro le lotte per i beni comuni, i movimenti anti-austerity, le lotte del lavoro, il mondo del lavoro dipendente e quello del lavoro «cognitivo», provando a costruire un’alternativa globale di società, un progetto di «democrazia dei beni comuni», l’idea innovativa di un «socialismo del XXI secolo».
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