di Rassegna.it -
Il 64% disposto a emigrare, il 25% a essere sottopagato. La legge Fornero? Un disastro per il 57,6%. Cercano lavoro su Internet e giornali. Ai colloqui penalizzate le donne. Indagine del Centro di ricerche sociali su lavoro e nuove forme di occupazione
Due giovani su tre sono pronti a partire (foto Attilio Cristini) (immagini di Attilio Cristini)
(Labitalia) – Il 64% dei giovani italiani sarebbe propenso ad andare a vivere lontano, il 37% ha inviato il suo curriculum all’estero e sarebbe pronto a trasferirsi, il 25% è disposto ad essere sottopagato. Come cercano lavoro? Il primo alleato è Internet, ma gli annunci sul giornale resistono ancora. E la legge Fornero? Un “disastro” per il 57,6% degli intervistati. Questi alcuni dei risultati emersi dal sondaggio del Centro di ricerche sociali sul lavoro e le nuove forme di occupazione ‘Work in Progress’.
Il sondaggio, costruito attraverso la raccolta di dati con metodo ‘cawi’ (computer-assisted web interviewing), ha coinvolto 800 giovani tra i 18 e i 35 anni, per il 66% con una laurea di secondo livello, ed è stato realizzato in collaborazione con FondItalia, Fondo paritetico per la formazione continua, e seguito dai media partner Labitalia e ‘Walk on Job’. Dall’indagine emerge che il 12% degli intervistati sarebbe disposto ad accettare il non rispetto del contratto o l’abuso di un contratto atipico e il 2% sarebbe disposto a mettere da parte anche la sua integrità morale.Dalla ricerca emerge, inoltre, un interesse per i giovani italiani verso l’estero e tra le mete più ambite figurano Francia, Svizzera e Inghilterra. “Forse – ha spiegato Tommaso Dilonardo, avvocato del lavoro e fondatore e presidente di ‘Work in Progress’ – ad essere poco flessibile è la stessa politica, incapace di interpretare i tempi e perciò di promulgare leggi efficaci, chiusa in un dibattito ideologico distante dalle reali esigenze lavorative dei giovani. La riforma Fornero, che per il 57,6% degli intervistati ha peggiorato la situazione, ha aumentato i costi per le imprese e il precariato per i lavoratori”. E riferisce il racconto di un’intervistata: “Nonostante abbia accettato di essere sottopagata, che i miei contratti non siano stati rispettati, abbia messo da parte la mia integrità morale, in Italia non ho comunque trovato lavoro, quindi sono andata a vivere decisamente lontano da casa e dall’Italia”.
E ai colloqui? Il 55% degli intervistati afferma di aver risposto a domande che riguardavano la sfera privata, prima fra tutte ‘Sei sposato/a? Convivi? Vivi con i tuoi genitori? Hai figli o hai intenzione di averne a breve? Mi parli dei componenti della sua famiglia, che lavoro fanno i tuoi genitori?’.
“Sono domande, rivolte soprattutto al genere femminile, che nascondono un pregiudizio – ha commentato Dilonardo – sulla effettiva capacità da parte delle donne di svolgere un ruolo di primo piano nella società. Il nostro questionario rivela che al 43,2% è stato chiesto se è sposato o convive; al 20,4% se ha figli o ha intenzione di averne a breve; a molti, infine, è stato chiesto anche il background dei loro genitori. Insomma, passa il tempo ma la società italiana cambia poco: sono domande che evidenziano un ritardo prima di tutto culturale; manca ancora, purtroppo, il concetto di merito, in un Paese dove l’ascensore sociale è sempre più immobile”.
“Il sondaggio mette in evidenza alcuni aspetti di cui noi di ‘Walk on Job’ abbiamo spesso sentore e che abbiamo analizzato in diverse inchieste: in particolare – ha precisato il direttore di ‘Walk on Job’ (magazine di attualità, università e mondo del lavoro), Cristina Maccarrone – ci stupisce (in negativo) che durante i colloqui si facciano certe domande sulla vita privata che non sono realmente finalizzate all’assunzione, violando la legge sulla privacy, oltre a continuare a discriminare le donne chiedendo loro se vogliono avere una famiglia, a breve o in futuro (che parliamo a fare di tasso di natalità basso se poi non le agevoliamo?), non mi sarei aspettata domande sul lavoro dei genitori o sulle persone con cui si vive, il che dimostra che il mondo del lavoro ha ancora molte cose da sistemare”.
Anche nell’ambito della formazione, i giovani dimostrano di avere le idee chiare su ciò che non funziona e sui cambiamenti che andrebbero prodotti. Infatti, dall’indagine emerge come, per il 73% dei giovani la scuola e l’università dovrebbero prevedere dei corsi o delle iniziative volte a favorire l’incontro dei giovani con il mercato del lavoro; tuttavia, i master specializzati non sono stati determinanti per trovare lavoro per il 31% degli intervistati.
Sempre secondo i dati ‘Work in Progress’, il 34% non si è ma iscritto a un corso di formazione perché crede che le aziende per prime dovrebbero provvedere a preoccuparsi della formazione delle risorse; inoltre, per il 31,6%, i costi dei corsi sono proibitivi. “La scuola dovrebbe fornire gli strumenti per il lavoro, non solo teoria o corsi dai nomi altisonanti. Ad esempio, impariamo a parlare l’inglese, a leggere il giornale, a usare Excel”, si legge fra i commenti.
E i giovani per cercare lavoro si affidano a Internet per il 71%, al secondo posto i siti aziendali, seguono con il 25% i social network (tra questi il più utilizzato è Linkedin). Ma i metodi più tradizionali continuano ad avere un ruolo determinante: si rivolgono agli sportelli del lavoro o agenzie interinali il 32,4% degli intervistati, mentre il 24,3% preferisce consultare gli annunci sul giornale.
“Che il primo mezzo per cercare lavoro sia Internet – ha concluso Dilonardo – è un dato interessante, ma se immaginiamo che, invece di doversi districare nel mare magnum di Internet, i giovani potessero godere delle potenzialità della rete gestita con la competenza e la sicurezza che potrebbe dare un servizio fornito dai centri per l’impiego, i giovani, e anche gli over 50 (dimenticati ma pure esistenti e anch’essi in difficoltà) potrebbero cogliere quelle opportunità (anche scarse, complicate, poco remunerate) che invece ora, nell’assenza della pubblica amministrazione, è più difficile e ‘pericoloso’ trovare. Dico ‘pericoloso’ perché un conto sarebbe una banca dati internazionale gestita dai centri per l’impiego, altro conto è Internet, tout court”.
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