Milioni di lavoratori sono stati licenziati o si sono impoveriti a causa della crisi.
Per il settimanale statunitense Time è la conferma che le critiche
di Karl Marx al capitalismo erano giuste
di Michael Schuman, Time, Stati Uniti 25 marzo 2013
Tutti pensavano che Karl Marx fosse morto e sepolto. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica e il grande balzo in avanti della Cina verso il capitalismo, il comunismo era diventato una specie di sfondo pittoresco, buono per i film di James Bond o per gli slogan deliranti di Kim Jongun. Il conflitto di classe, che secondo la dottrina di Marx determina il corso della storia, sembrava essersi dissolto di fronte al benessere prodotto dal libero scambio e dalla libera impresa. La forza onnipresente della globalizzazione, capace di collegare gli angoli più remoti del pianeta attraverso lucrosi rapporti finanziari, esternalizzazioni e imprese senza confini, offriva a chiunque l’opportunità di diventare ricco: dai guru della Silicon valley alle contadine cinesi. Negli ultimi vent’anni del novecento l’Asia ha assistito a quello che forse è il più grande fenomeno di superamento della povertà nella storia umana. Tutto questo è stato possibile grazie agli strumenti capitalistici del commercio, dell’imprenditorialità e degli investimenti esteri. Il capitalismo sembrava aver mantenuto la promessa di portare tutti a un livello più alto di ricchezza e benessere.
O almeno così pensavamo. Con l’economia globale in crisi prolungata e i lavoratori di tutto il mondo alle prese con la disoccupazione, i debiti e la stagnazione dei redditi, la feroce critica di Marx sulla natura intrinsecamente ingiusta e autodistruttiva del capitalismo non può più essere liquidata facilmente. Marx teorizzò che il sistema capitalistico avrebbe inevitabilmente impoverito le masse e concentrato tutta la ricchezza nelle avide mani di pochi, provocando crisi a catena e un’esasperazione del conflitto tra i ricchi e la classe operaia. “L’accumulazione di ricchezza all’uno dei poli è dunque al tempo stesso accumulazione di miseria, tormento di lavoro, schiavitù, ignoranza, brutalizzazione e degradazione mentale al polo opposto”, scriveva Marx.
Un dossier sempre più nutrito di prove empiriche alimenta il sospetto che avesse ragione. È tristemente facile imbattersi in statistiche secondo cui i ricchi stanno diventando sempre più ricchi mentre la classe media e i poveri stanno a guardare. Secondo uno studio pubblicato nel 2012 dall’Economic policy institute, nel 2011 il reddito mediano annuo di un lavoratore maschio a tempo pieno negli Stati Uniti era di 48.202 dollari, meno che nel 1973. Tra il 1983 e il 2010 il 74 per cento dell’aumento di ricchezza negli Stati Uniti è finito nelle mani del 5 per cento più ricco della popolazione, mentre i redditi della fascia più bassa, che comprende il 60 per cento della popolazione, sono diminuiti. Non c’è da stupirsi, quindi, che qualcuno abbia rispolverato il filosofo tedesco. In Cina, il paese marxista che ha voltato le spalle a Marx, Yu Rongjun ha scritto un musical basato su Il capitale, ispirandosi ai recenti avvenimenti mondiali. “È evidente che la realtà coincide con le descrizioni fatte nel libro”, osserva il commediografo.
Sempre più arrabbiati
Non che Marx le avesse azzeccate tutte. La sua “dittatura del proletariato” non ha funzionato secondo i piani. Ma le conseguenze di questa crescente disuguaglianza sono esattamente quelle previste da Marx: la lotta di classe è tornata. I lavoratori di tutto il mondo sono sempre più arrabbiati e pretendono la loro fetta dell’economia globale. Dal congresso statunitense alle piazze di Atene ino alle catene di montaggio in Cina, i fatti della politica e dell’economia sono sempre più influenzati dalle tensioni tra capitale e lavoro. L’esito di questo scontro influenzerà la politica economica globale, il futuro del welfare, la stabilità politica in Cina e i governi, da Washington a Roma. Cosa direbbe oggi Marx? “Più o meno ‘ve l’avevo detto’”, afferma Richard Wolf, economista marxista della New school a New York. “La disparità di reddito sta producendo un livello di tensione che non avevo mai visto in tutta la mia vita”.
Negli Stati Uniti le tensioni sociali sono in aumento. C’è la percezione diffusa di una società divisa tra il 99 per cento (la gente comune che fatica ad arrivare alla fine del mese) e l’1 per cento (i super-ricchi che diventano sempre più ricchi). In un sondaggio realizzato nel 2012 dal Pew research center, due terzi degli interpellati (il 19 per cento in più rispetto al 2009) hanno risposto che negli Stati Uniti c’è un conflitto “forte” o “molto forte” tra ricchi e poveri.
L’inasprimento del conflitto ha dominato la politica statunitense. Lo scontro tra i partiti sul problema del deficit di bilancio è stato, in larga misura, uno scontro di classe. Ogni volta che il presidente Barack Obama parla di aumentare le tasse ai più ricchi per risanare il bilancio, i conservatori gridano alla “guerra di classe” contro i ricchi. Ma anche loro stanno facendo una lotta di classe. Il piano di risanamento fiscale dell’amministrazione colpisce la classe media e i poveri con i tagli ai servizi sociali.
Ci sono segnali che questo nuovo classismo stia spostando il dibattito sulla politica economica statunitense. Nel centro del mirino c’è la teoria del trickle down, secondo cui il successo dell’1 per cento porta dei benefici anche al 99 per cento. Secondo David Madland, direttore della commissione di esperti Center for american progress, la campagna per le presidenziali del 2012 ha riportato all’attenzione la necessità di ricostruire la classe media secondo una nuova scala di priorità politiche. “Il modo di pensare l’economia è stato stravolto”, dice Madland. “Ma sembra che stia avvenendo un cambiamento radicale”.
La campagna di Hollande
La ferocia di questa nuova lotta di classe è ancora più evidente in Francia. Nel maggio del 2012 il divario tra ricchi e poveri, accentuato dalla crisi, è apparso sempre più intollerabile ai cittadini, che hanno eletto presidente il socialista François Hollande, famoso per la frase “i ricchi non mi piacciono”. La chiave della sua vittoria in campagna elettorale è stata la promessa di aumentare le tasse ai più ricchi per mantenere il welfare. Per evitare i drastici tagli alla spesa pubblica introdotti in altri paesi europei, Hollande ha proposto di aumentare l’aliquota massima dell’imposta sui redditi addirittura al 75 per cento. La proposta è stata bocciata dalla corte costituzionale, ma il presidente sta cercando il sistema per introdurre una misura equivalente. Ribaltando una decisione particolarmente impopolare del suo predecessore, Hollande ha riportato l’età pensionabile a sessant’anni per alcune categorie di lavoratori. Molti in Francia vorrebbero che si spingesse addirittura oltre. “La proposta sulle tasse dev’essere il primo passo di una presa d’atto da parte del governo che il capitalismo, nella sua forma attuale, è diventato così iniquo e malato che senza riforme profonde rischia di implodere”, dice Charlotte Boulanger, esperta che si occupa di ong.
Le mosse di Hollande hanno scatenato la controffensiva dei capitalisti. “Il potere politico nasce dalla canna del fucile”, diceva Mao Zedong, ma in un mondo dove das Kapital è sempre più mobile le armi della lotta di classe sono cambiate. Piuttosto che darla vinta a Hollande, molti ricchi francesi si stanno spostando all’estero, portando con sé preziosi posti di lavoro e investimenti. Jean-Émile Rosenblum, fondatore del sito di ecommerce Pixmania, si è trasferito negli Stati Uniti, dove spera di trovare un clima più accogliente per gli imprenditori. “Il conflitto di classe è una normale conseguenza della crisi, ma la strumentalizzazione politica che se n’è fatta è demagogica e discriminatoria”, dice Rosenblum. “Invece di affidarsi agli imprenditori per creare le imprese e i posti di lavoro di cui abbiamo bisogno, la Francia li caccia via”.
Il divario tra ricchi e poveri rischia di diventare esplosivo anche in Cina. Nei mercati emergenti lo scontro tra ricchi e poveri sta diventando un motivo di preoccupazione per la politica. Contrariamente a quanto pensano molti statunitensi ed europei, la Cina non è il paradiso dei lavoratori. La “ciotola di ferro per il riso” – un’espressione dell’epoca di Mao che indicava un posto di lavoro per tutta la vita – è scomparsa insieme al maoismo, e le riforme hanno lasciato ai lavoratori pochi diritti. Anche se i salari nelle città cinesi stanno crescendo in modo significativo, il divario tra ricchi e poveri è ancora molto ampio. Un altro sondaggio del Pew center ha rivelato che quasi la metà dei cinesi considera la distanza tra ricchi e poveri un problema molto grave, mentre l’80 per cento concorda con l’affermazione che in Cina “i ricchi si arricchiscono e i poveri stanno sempre peggio”.
Nelle città industriali cinesi il risentimento sta arrivando al punto di ebollizione. “La gente pensa che facciamo la bella vita, ma la realtà della fabbrica è molto diversa”, dice Peng Ming, operaio nell’enclave industriale di Shenzhen, nel sud della Cina. Alle prese con orari interminabili, costi sempre più alti, manager indifferenti e frequenti ritardi nei pagamenti, i lavoratori cominciano davvero a somigliare al proletariato. “Il modo in cui i ricchi fanno i soldi è sfruttare i lavoratori”, dice Guan Guohau, un altro operaio di Shenzhen. “Il comunismo è la nostra speranza”. Se il governo non interverrà per migliorare le loro condizioni, dicono gli operai, i lavoratori saranno sempre più motivati a prendere in mano la situazione. “I lavoratori si organizzeranno”, prevede Peng. “I lavoratori devono essere uniti”.
Probabilmente sta già succedendo. Misurare il malcontento dei lavoratori in Cina è difficile, ma secondo gli esperti è in aumento. Una nuova generazione di operai delle fabbriche – più informati dei genitori grazie a internet – è diventata più esplicita nel richiedere migliori condizioni salariali e lavorative. Per il momento la risposta è stata contraddittoria. Il governo ha alzato i salari minimi per sostenere i redditi, ha inasprito le leggi sul lavoro per dare maggiori tutele ai lavoratori. In alcuni casi ha concesso il diritto di sciopero. Ma le iniziative di mobilitazione da parte dei lavoratori sono ancora fortemente scoraggiate, spesso con la forza. Ecco perché il proletariato cinese crede poco alla sua “dittatura”. “Il governo pensa più alle aziende che a noi”, afferma Guan. Se Xi Jinping non riformerà l’economia ridistribuendo una parte dei frutti della crescita alla gente comune, si rischia di alimentare il malcontento sociale.
È proprio quello che avrebbe previsto Marx. Una volta che il proletariato avesse preso coscienza dei suoi interessi di classe, avrebbe rovesciato l’iniquo sistema capitalistico rimpiazzandolo con un nuovo paradiso socialista. I comunisti “dichiarano apertamente che i loro ini possono essere raggiunti solo con il rovesciamento violento di tutto l’ordinamento sociale inora esistente. I proletari non hanno da perdervi che le loro catene”, scriveva Marx.
Sistemi da rivedere
In tutto il mondo l’insofferenza dei lavoratori sta crescendo. Decine di migliaia di persone sono scese in piazza in città come Madrid e Atene, protestando contro la paurosa disoccupazione e contro le misure di austerità che stanno ulteriormente peggiorando la situazione. Per ora, però, la rivoluzione marxista non si è ancora materializzata. I lavoratori avranno anche problemi comuni, ma non si coalizzano tra di loro per risolverli. Negli Stati Uniti, per esempio, durante la crisi le iscrizioni al sindacato hanno continuato a diminuire, mentre il movimento Occupy Wall street ha esaurito la sua spinta. Chi protesta, spiega Jacques Rancière, esperto di marxismo dell’università di Parigi, non punta a scalzare il capitalismo, come aveva previsto Marx, ma semplicemente a riformarlo. “Tra i manifestanti non si sente invocare il rovesciamento o la distruzione dei sistemi socioeconomici esistenti”, dice Rancière. “Oggi il conflitto di classe chiede una revisione di questi sistemi per far sì che diventino più praticabili e sostenibili nel lungo termine attraverso una ridistribuzione della ricchezza”.
Nonostante le rivendicazioni, le politiche economiche attuali continuano ad alimentare le tensioni di classe. In Cina i vertici del partito hanno promesso di ridurre le disparità di reddito, ma in pratica hanno evitato di fare tutte quelle riforme (lotta alla corruzione, liberalizzazione del settore finanziario) che servirebbero a raggiungere l’obiettivo. I governi europei, oppressi dai debiti, hanno tagliato i programmi di welfare nonostante la disoccupazione in aumento e la crescita stagnante. Nella maggior parte dei casi la soluzione scelta per rimediare al capitalismo è stata introdurre ancora più capitalismo. I creditori di Roma, Madrid e Atene spingono per smantellare le tutele dei lavoratori e per deregolamentare i mercati interni. Lo scrittore britannico Owen Jones, autore di Chavs: the demonization of the working class (Coatti: la demonizzazione della classe operaia) l’ha definita “una guerra di classe dall’alto”.
Sono rimasti in pochi a contrastarla. Il formarsi di un mercato del lavoro globale ha spuntato le armi dei sindacati in tutto il mondo industrializzato. La sinistra, trascinata a destra dall’offensiva liberista di Margaret Thatcher e Ronald Reagan, non è riuscita a trovare un’alternativa credibile. “Praticamente tutti i partiti progressisti o di sinistra, chi prima e chi dopo, hanno contribuito all’ascesa e all’allargamento dei mercati finanziari e allo smantellamento dei sistemi di welfare per dimostrare di essere capaci di fare le riforme”, osserva Rancière. “Direi che la possibilità che un partito o un governo laburista o socialista, in qualsiasi paese del mondo, possa ripensare in modo significativo – figuriamoci rivoluzionare – il sistema economico esistente è molto esile”. Questo lascia aperta una possibilità inquietante: che Marx abbia diagnosticato non solo le imperfezioni del capitalismo, ma anche gli esiti di queste imperfezioni. Se la politica non troverà il modo di concedere più opportunità a tutti, i lavoratori di tutto il mondo potrebbero unirsi davvero. E Marx si prenderebbe la sua rivincita.
Michael Schuman
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