
1. Meriti e limiti di Syriza
Il merito principale di Syriza è stato quello di aver saputo incanalare e raccogliere, almeno elettoralmente, la forte radicalizzazione che attraversa la società greca. Da quasi tre anni la Grecia vede in piazza un potente movimento sociale. Un movimento che non è riuscito a fermare le scelte del blocco dominante, a sua volta eterodiretto dalle istituzione europee e dal Fmi, ma che non ha mai abbassato la testa. L'immagine di questo movimento è quella della capitale in fiamme, nel pomeriggio di domenica 12 febbraio (vedi La disfatta e la (possibile) riscossa), mentre il parlamento approvava i nuovi sacrifici imposta dalla troika (Ue, Bce, Fmi).
I limiti risiedono in una linea che ad un no chiaro al Memorandum imposto dall'Europa, fa corrispondere un programma assai evanescente. Syriza si è presentata alle elezioni del 6 maggio, e poi a quelle decisive del 17 giugno, con l'illusione della «rinegoziazione del debito» in un'Europa «più a sinistra», anche alla luce della vittoria di Hollande in Francia. I suoi dirigenti, a partire dal leader Alexis Tsipras, hanno sempre sostenuto di non voler uscire dall'Unione e dall'euro, ma di volervi invece rimanere, solo con qualche sconto sui sacrifici richiesti.
Pur augurandoci il suo successo elettorale, abbiamo segnalato negativamente questa impostazione prima del voto di giugno (vedi, ad esempio, La sinistra greca alla prova del fuoco). Ed una critica analoga è stata espressa, dopo il voto, anche da Emiliano Brancaccio nell'articolo Syriza? Paga per la sua ambiguità.
Syriza non è dunque quel che molti in Italia pensano, basti pensare alla sua accettazione della Nato. E tuttavia la domanda di una «Syriza italiana» è comprensibile, visto lo stato comatoso in cui versa la cosiddetta sinistra radicale, sia nella sua componente governista e Pd-dipendente, sia in quella antagonista e di opposizione.
2. Una differenza decisiva: l'alternatività alla sinistra del capitale
Quel che differenzia la sinistra greca (oltre a Syriza, il Kke e le altre formazioni minori) dalla sinistra italiana, è l'alternatività rispetto alle forze di quella che possiamo definire come «sinistra del capitale», in Grecia il Pasok, in Italia il Pd. Questa differenza sarà anche dipesa dalla diversa strutturazione dei sistemi politici, ma alla fine è proprio questo il punto decisivo che rende così difformi i panorami politici dei due paesi.
La sinistra greca non si è compromessa nelle alleanze di «centrosinistra», esattamente il contrario di quel che ha fatto la sinistra italiana. Le formazioni che hanno preso vita dopo lo scioglimento del Pci del 1991 (Prc, Pdci, Sel), non hanno invece mai avuto un orizzonte strategico che guardasse oltre l'alleanza con il carrozzone Pds-Ds-Pd. Si pensa forse che vent'anni di politica opportunista possano essere cancellati con un colpo di spugna? A qualcuno potrebbe oggi tornar comodo, ma non si riconquista in breve tempo la credibilità perduta in un tragitto così lungo. Del resto le tre formazioni di cui sopra si sono alleate con il partito di Bersani perfino alle amministrative del maggio scorso, dunque non con un Pd all'opposizione del governo Berlusconi, bensì con un Pd impegnato a sostenere con convinzione l'esecutivo Monti, cioè il governo più antipopolare della storia repubblicana.
Tra l'altro, se oggi il dissenso e la rabbia popolare dirige i suoi consensi su Grillo, oltre che sull'astensionismo, la ragione principale sta proprio in questa subalternità strutturale di una sinistra che si vorrebbe «radicale», ma che è invece giustamente percepita come gregaria ed interna ad un sistema politico complessivamente asservito alle oligarchie dominanti. Il grillismo ha attecchito in Italia proprio per mancanza di alternative a questo sistema, mentre in Grecia le cose sono andate diversamente grazie all'esistenza di una sinistra credibilmente alternativa.
Ecco un punto che chiamerebbe alla riflessione chi di dovere, perché è davvero illuminante il fatto che la ventennale storia del Prc abbia portato nell'attuale vicolo cieco, con il minimo di forza ed influenza politica nel momento massimo della crisi sistemica. Sarebbero andate così le cose se Rifondazione avesse quanto meno evitato di impaludarsi nelle alleanze di centrosinistra? La domanda è retorica e la risposta la conoscono tutti, ma finché i diretti interessati eviteranno come il peccato ogni seria riflessione ci vediamo costretti a riproporla.
3. Una «Syriza degli esclusi»?
Se una coalizione alla greca - radicale nella sua alternatività alla sinistra del capitale, anche se subalterna rispetto al Moloch europeo - può essere esclusa, sembra invece affacciarsi l'ipotesi di una sorta di «Syriza degli esclusi». Il motore di questa ipotetica costruzione non sarebbero tanto le forze che ne farebbero parte, quanto il meccanismo escludente messo eventualmente in moto dal Pd.
Ognuno capisce quale sarebbe la forza, meglio dire la debolezza, di una siffatta coalizione. Essa non sarebbe un «fronte del rifiuto» (rifiuto dei diktat europei e delle forze che li traducono in atti politici in Italia), bensì un'accozzaglia del «non possiamo fare altro».
Paolo Ferrero, ora che vede messa in dubbio (dal Pd, beninteso) la propria tradizionale politica delle alleanze elettorali, scopre Syriza, così come due mesi fa lanciava appelli a fare il Front de Gauche come in Francia. Evidentemente, più che un giudizio di merito la ricerca è quella - assai disperata - di un'ancora di salvataggio. Leggiamo l'ex ministro del governo Prodi: «Per la prima volta una forza di sinistra contro le politiche di austerità europee, dichiaratamente antiliberista e anticapitalista, raggiunge una percentuale del 27% e complessivamente le forze della sinistra antiliberista arrivano attorno al 40%. Lo fa in nome di un’altra Europa, di una Europa democratica basta sui diritti sociali e civili, dove il rovesciamento delle attuali politiche europee non è finalizzato ad un nuovo nazionalismo ma ad una nuova Europa».
Da notare il doppio richiamo all'Europa - l'altra Europa, una nuova Europa - contrapposti al «nazionalismo», ovviamente evocato per negare anche solo una discussione sul tabù della sovranità nazionale. Altrettanto ovviamente, Ferrero evita ogni riflessione autocritica. Bisogna fare una Syriza italiana solo perché oggi questa sembra l'unica possibilità per rimettere piede nelle aule parlamentari.
Se questo è Ferrero, potete immaginarvi Vendola. Costui ha reagito all'asse Bersani-Casini accoppiandosi con Di Pietro. Bersani (ed anche Casini) lo vorrebbero come copertura a sinistra del montismo nella prossima legislatura. Di Pietro invece non lo vogliono. A volte è un populista, parla male l'italiano e sputacchia mentre impreca in molisano: non può entrare nel salotto della sinistra capitalista, il galateo lo impedisce.