La dittatura dell'ignoranza
di Guido Viale
di Guido Viale
Fonte Sinistrainrete
Ma perché nel paese che ha avuto il più grande partito comunista e il più forte movimento operaio dell’Occidente, una cultura di sinistra egemone per almeno tre decenni, una delle manifestazioni più radicali e prolungate del «’68» e la maggiore proliferazione dei gruppi della sinistra radicale siamo poi caduti tanto in basso da diventare lo zimbello di tutta l’Europa, sia di destra che di sinistra?
Per alcuni, perché non sono stati elaborati quegli anticorpi che hanno permesso invece ad altri popoli e paesi di non venir travolti – o di venir travolti in misura minore – dall’ondata di demagogia e populismo che ha accompagnato gli sviluppi della globalizzazione nel corso degli ultimi due decenni; e che rischia di avere effetti ancora più deleteri con lo scoppio e il prolungarsi – a tempo indeterminato – della crisi economica. Per altri, perché la maggior parte delle risorse di quelle organizzazioni, o di una parte preponderante di esse, è stata per anni impegnata nel contenere, nel contrastare, nello screditare, assai più che nell’assecondare, le spinte sociali di cui pretendevano la rappresentanza; lasciando così liberi i germi della reazione di sviluppare indisturbati tutte le loro potenzialità; o addirittura alimentandoli.
Forse le due tesi non sono così alternative come la loro contrapposta formulazione potrebbe far credere.
Nelle condizioni materiali che stanno alla base del regime berlusconiano c’è certamente un risvolto specificamente italiano; ma ce ne è anche uno, sicuramente più rilevante, di dimensioni planetarie, o comunque transnazionali. Entrambi sono il portato di una mutazione antropologica con cui occorre fare i conti. Anche se i suoi tratti sono complessi, la cifra di questa mutazione è riconducibile a quella «dittatura dell’ignoranza» che ha dato il titolo a un recente testo di Giancarlo Majorino [Tropea, 2010]. In Italia Silvio Berlusconi non ha «sdoganato» soltanto il fascismo, ancora largamente diffuso tra i ranghi dell’ex Alleanza nazionale, e anche altrove. Questo è stato, almeno in parte, un mero epifenomeno della politica.
Quello che Berlusconi ha veramente sdoganato è l’ignoranza; l’orgoglio di essere ignoranti; il disprezzo, questo sì di stampo fascista, per i saperi, qualsiasi sapere, e per i loro cultori; la pretesa di «fare» e saper fare anche senza conoscere e sapere; la convinzione, latente anche prima di lui nello spirito nazionale ma promossa a piene mani dal sentire di cui è espressione il suo regime, di essere migliori di tutti gli altri: in particolare di arabi, «negri», cinesi, slavi, ebrei, a seconda dei gusti. Oggi è del tutto normale per personaggi come Borghezio, Gentilini o Calderoli sentirsi e presentarsi come esemplari di un mondo e di una razza superiori; e considerare e trattare figure come Mandela, Evo Morales o Gandhi, e soprattutto i popoli che li hanno espressi, come esemplari di un universo subumano.
Questo sdoganamento dell’ignoranza, il cui strumento principale è stata in Italia la televisione, privata e di Stato – la peggiore del mondo; e non solo nei notiziari e nelle trasmissioni «politiche», quanto soprattutto nella pappa securitaria [fondata sulla propalazione della paura] e decerebrata rifilata quotidianamente al pubblico culturalmente più indifeso dalle trasmissioni di intrattenimento – si è innestato tuttavia su alcuni processi di fondo che attraversano il panorama mondiale da decenni.
Il primo è il passaggio epocale – uso questo termine abusato a ragion veduta, perché in questo caso lo ritengo appropriato – dalla cultura scritta dei libri, dei giornali e delle riviste alla cultura audiovisiva della televisione e di internet. Solo due o tre altri passaggi hanno avuto sulla storia umana un peso paragonabile: quello tra cultura orale e scrittura, quello dal manoscritto alla stampa e, forse, quello dalla lettura ad alta voce alla lettura mentale. In tutti e tre i casi, le modalità di trasmissione e comunicazione precedenti non sono state eliminate [ancora oggi si imparano a memoria canzoni e persino poesie; qualcuno scrive ancora a mano; molti leggono a voce più o meno sommessa]; ma soverchiate, sicuramente sì.
Se è vero che i «contenuti» veicolati su questi supporti possono essere gli stessi – ma in genere non lo sono – le modalità di trasmissione e di recepimento ne alterano radicalmente la portata. In fin dei conti il medium è il messaggio. Su questo punto non occorre insistere perché è stato ampiamente analizzato: la pagina scritta richiede attenzione, sforzo, riflessione, invita a costruire schemi e griglie per sistemare – e sistematizzare sulla base di un principio di coerenza – quanto appreso. L’audiovisivo è molto più volatile; consente – anche se non necessariamente impone – una ricezione più passiva; non comporta, se non in rari casi, uno sforzo di apprendimento e meno ancora di interpretazione o di «traduzione»; permette di passare da un tema all’altro – o addirittura da un universo all’altro – con la semplice pressione di un tasto; non si deposita, o si deposita solo flebilmente, nel costrutto mentale del recipiente; soprattutto si rinnova ogni giorno, cancellando o relegando nell’oblio quello che era stato detto o comunicato solo ieri.
L’espressione «cultura del palinsesto», che un tempo indicava il faticoso recupero di un supporto organico, raschiando la pelle di una capra per depositarvi sopra un nuovo testo a spese di quello cancellato – che magari era assai più importante e che a volte oggi riusciamo a recuperare con sofisticate tecnologie – ai giorni nostri sta a indicare che le informazioni, come le affermazioni, cambiano ogni giorno; che quello che viene detto o visto oggi può contraddire completamente quanto detto o visto ieri – o anche oggi stesso – senza bisogno di spiegazioni. Quello che si perde, soprattutto, è la tensione alla costruzione di un universo cognitivo coerente e unitario. Come è noto, Berlusconi è stato il più rapido a capire e ad appropriarsi di questo meccanismo.
In un ambiente del genere, l’unico modo per consolidare dei saperi è quello di legarli strettamente a un’attività pratica. Le cascate di parole e di immagini che ci investono attraverso i media audiovisivi difficilmente si depositano, e quando lo fanno si sovrappongono in strati tra loro impermeabili. Ma come la moneta cattiva scaccia quella buona, l’inflazione di informazioni e immagini prodotta dai media restringono progressivamente lo spazio riservato al testo scritto e meditato.
La scuola tradizionale e tutta la formazione scolastica odierna sono state le prime vittime di questo cambio di paradigma. Ancora quasi interamente affidate all’accumulo di parole scritte in quotidiana competizione con la marea di suoni, immagini e parole, gridate, sussurrate o cantate, provocata dai media. Ovvio che a scuola non si impari più nulla o quasi. Nessuno lo sa meglio degli insegnanti, anche quando ne danno la colpa ai ragazzi.
Il secondo processo a cui è riconducibile la dittatura dell’ignoranza è il fondamentalismo, non solo religioso – islamico, cristiano, giudaico o induista: ma sempre vissuto come fattore identitario, con effetti sanguinosi perseguiti in nome del bene contro il male – ma anche «razziale»: trasferendo magari dal piano biologico a quello culturale – in senso «antropologico» – la pretesa superiorità di un’etnia o di una nazione sull’altra. Il fondamentalismo è stato e viene alimentato soprattutto da una reazione identitaria e difensiva nei confronti dei processi di sradicamento, di perdita delle proprie certezze, di aumento dell’insicurezza indotti dalla globalizzazione.
Cresce in tutto il mondo il numero delle persone disposte a sostenere che nella Bibbia, nel Corano, nelle Upanishad o nel Vangelo – spesso senza conoscerne o senza nemmeno saperne leggere il testo – o in loro interpretazioni schematiche, dogmatiche o addirittura false, e comunque sempre autoritarie, è contenuto tutto quello che una persona giusta deve sapere; e pronte a negare qualsiasi evidenza, scientifica e non, che ne contraddica anche solo una singola sentenza.
Anche in questo caso il berlusconismo, questa volta anticipato dalla Lega, disinvoltamente passata dall’adorazione del dio Po, o Eridano, e dai riti celtici all’alleanza con Cristo re, ha saputo e potuto mettere a frutto la sostanza fondamentalmente razzista di questa chiusura culturale. Lo ha fatto con un’alleanza tra trono e altare configurata ad hoc per coprire reciprocamente le rispettive debolezze. Il risultato più feroce e grottesco di questo innesto sono le dissertazioni psudoscientifiche sullo statuto dell’embrione, sulla tempistica dell’estinzione della vita o sull’omosessualità. E lo sarà probabilmente ben presto anche l’imposizione del creazionismo, come già avviene in molte scuole degli Stati Uniti.
Il vuoto culturale indotto o favorito da questi due processi, cioè la dittatura dell’ignoranza e il fondamentalismo, convive con – o addirittura si qualifica come – una sorta di pragmatismo «di ordinanza», imposto dalla cosiddetta fine delle ideologie: in realtà di una sola ideologia, quella socialista, con la sua appendice comunista; che forse ideologia non era, bensì un insieme di saperi, seppur parziali e di parte, e certo irrigiditi da una codificazione autoritaria, e in questa forma sicuramente inadatti all’interpretazione del mondo attuale; ma la cui cancellazione ha lasciato dietro di sé solo macerie.
Perché le altre cosiddette «ideologie» dei due secoli scorsi non sono certo scomparse. Quella cattolica – la «dottrina sociale della chiesa» nelle varie formulazioni che hanno tenuto uniti molti partiti occidentali per più di un secolo – o genericamente cristiana, lungi dallo scomparire, è possentemente risorta negli ultimi decenni in forme più radicali, brutali e «ideologiche» sotto le vesti, appunto, di integralismo fondamentalista. E quella liberale, trasmutatasi in fondamentalismo liberista, ha ormai occupato tutta la scena planetaria sotto forma di «pensiero unico». Che altro non è che la forma più schematica e idiota di un «mercatismo» da tempo impegnato a identificare tutte le manifestazioni della vita umana, e a volte anche quelle della natura, con una sorta di totalitario «darwinismo sociale»: un meccanismo fondato sulla competizione e la selezione comandato dal gioco di un mercato concorrenziale che non è mai esistito e mai esisterà in quella forma. Se non negli scritti dottrinari di centinaia di migliaia di accademici che hanno fatto da scudo alla prassi dei rispettivi allievi.
I quali, come ha ben illustrato Naomi Klein in «Shock Economy» [Rizzoli, 2007), dalle istituzioni universitarie in cui sono stati allevati hanno finito per occupare tutti i gangli vitali degli organismi che governano i processi della globalizzazione economica: dalla Banca mondiale alla Wto, dal Fmi alla Commissione europea, fino a coinvolgere i vertici di quasi tutti gli Stati sia dell’Occidente che di quelli nati dalla dissoluzione dell’impero sovietico, e persino della Repubblica popolare cinese, che pure si dichiara ancora «comunista».
Proprio perché autentica ideologia, che non ha alcun riscontro non solo nella realtà dei processi economici [i «mercati» reali], ma nemmeno nella prassi di chi la professa solo per farne un paravento delle proprie scelte, il liberismo o «pensiero unico» può essere senz’altro identificato con la forma più dispiegata e diffusa di ignoranza: una forma, cioè, non solo di occultamento della verità, ma di orgoglio nel volerla ignorare. Mentre i suoi proseliti, di destra e di sinistra, o né di destra né di sinistra, non sono che sacerdoti di questa «dittatura dell’ignoranza».
Il riscontro più immediato di questo fenomeno – ma ce ne sono altri mille disponibili, basta osservare un’assemblea di Confindustria – lo troviamo nell’auditel: è il mercato pubblicitario, che riflette puntualmente indici di ascolto ampiamente determinati da chi controlla i media, a indirizzare la programmazione, cioè le «scelte culturali» dei palinsesti: cioè a far precipitare i contenuti delle trasmissioni televisive verso la decerebrazione totale. Il riscontro più massiccio e tangibile dello stesso fenomeno è invece il controllo totale del mercato, cioè della rendita fondiaria e della speculazione edilizia, sulla morfologia delle città e sulle forme dell’espansione urbana: in tutto il mondo. Cioè sulle basi materiali, fisiche, solide, che costituiscono l’infrastruttura della convivenza umana; con il loro portato di idiotismo abitativo, di brutalità sociale, di analfabetismo culturale e di bruttezza.
Per questi motivi il populismo autoritario e personalizzato – di cui Berlusconi è forse l’esponente maggiore nel mondo odierno, e sicuramente quello di maggiore successo, ma non certo l’unico – è la manifestazione più vistosa di una tendenza che si radica in questi due processi in atto, declinandoli in differenti versioni nazionali, regionali, locali, o anche etniche e religiose [anche la chiesa cattolica, da Wojtyla in poi – anzi, soprattutto con Wojtyla – è una tipica manifestazione di questo andazzo: populismo, autoritarismo, fondamentalismo e dittatura dell’ignoranza].
All’interno di questo meccanismo infernale la competizione politica si è ridotta a una corsa al peggio: vince chi riesce a falsare di più la realtà; a degradare di più contenuti e forme della comunicazione; a solleticare maggiormente gli istinti più bassi – e sempre latenti – dell’umanità; a farle rinunciare più tranquillamente alla propria dignità; a promuovere di più il servilismo [l’entourage di Berlusconi ne è sicuramente l’esempio più vistoso del mondo; ma, anche qui, la gerarchia cattolica non gli è da meno]. E’ un processo di cui siamo quotidianamente spettatori; ma spesso anche, volontariamente o no, sia attori che vittime. Il suo fondamento è noto, ed è stato battezzato con un acronimo: Tina [«There is no alternative»: non si può fare diversamente]. E’ la gabbia in cui si sono autoreclusi tutti quelli che accettano di competere nello stesso agone, sulla stessa arena. Ma individuare un’altra arena e promuovere un impegno collettivo in essa è, come ognun sa, tutt’altro che semplice.
In altra sede [«Prove di un mondo diverso», NdaPress, 2009] ho proposto una periodizzazione di questo processo per ricollocarlo in un tempo storico: primo passo – ma indispensabile – per prospettarne un possibile superamento: gli oltre sessant’anni che separano la crisi attuale dalla fine della seconda guerra mondiale possono essere divisi in due parti. La prima, i cosiddetti «trenta gloriosi», si sono svolti, bene o male, all’insegna della decolonizzazione; di una pretesa «competizione pacifica» tra Occidente e Comunismo [pur nel quadro della guerra fredda; e certo contrassegnata da orrori come i gulag, le dittature imposte con colpi di stato, i conflitti sanguinosi in Corea, in Vietnam, in Africa, in Medio oriente]; e soprattutto all’insegna dello «sviluppo» economico, della crescita dell’occupazione, dei livelli salariali, del welfare e del consumismo nei paesi «sviluppati»; della loro attesa in quelli via via decolonizzati.
La seconda parte del periodo ha visto l’inversione di tutti questi processi: il fallimento delle promesse della decolonizzazione; la fine dell’equilibrio bipolare e la moltiplicazione delle guerre locali; la contrazione dei redditi del lavoro e l’aumento di quelli del capitale, con il conseguente aumento stellare delle differenze sociali, tanto nel primo quanto nel secondo, nel terzo e nel quarto mondo; il crollo del welfare, l’esplosione del debito delle persone, delle imprese, delle economie, dei governi nazionali e locali, usato soprattutto per procrastinare una resa dei conti; la conseguente «finanziarizzazione» dell’economia mondiale.
Se a mettere in mora gli equilibri – meglio sarebbe dire gli squilibri – instaurati nel corso di questo secondo periodo è stata l’esplosione della crisi finanziaria, e poi economica, e in ultima analisi ambientale, a mettere in mora gli equilibri dei «trenta gloriosi» era sta l’esplosione del ’68: cioè dei movimenti sociali che a partire dalla metà degli anni sessanta, e per tutta la prima metà dei settanta, avevano attraversato quasi tutti i paesi, sia dell’Occidente che del «Terzo mondo» e del mondo comunista, muovendo dalle università per investire in modo più o meno profondo tutto l’assetto sociale.
I tratti costitutivi comuni a tutti quei movimenti, per lo meno nella loro fase iniziale, erano stati uno spirito di rivolta e una temperie antiautoritaria tesi all’affermazione della propria autonomia personale nell’ambito di un processo di crescita collettiva. Temperie e spirito che si erano poi propagati in tutti gli ambiti sociali: dalle fabbriche all’università, dalle scuole alle carceri, dai corpi militari all’amministrazione della giustizia, dai quartieri ai laboratori di ricerca: con il tentativo di disarticolare le linee di comando gerarchico – e non solo quelle del sistema di fabbrica – attraverso la messa in questione del proprio ruolo e dei propri compiti. Ma quei movimenti si erano poi arenati, sfrangiati e dissolti, non tanto sotto il peso della repressione [che pure in alcuni paesi era stata violenta], quanto per mancanza di punti di applicazione concreti, una volta venute meno le ragioni e le occasioni che li avevano suscitati, come la mobilitazione contro la guerra in Vietnam o la rigidità delle strutture dell’università, delle professioni e, dove ancora prevaleva come modo di produzione, della grande fabbrica fordista.
La «lunga marcia attraverso le istituzioni» propugnata dal leader degli studenti tedeschi Rudi Dutschke non aveva trovato a sua disposizione saperi adeguati a formulare e perseguire strade alternative a quelle di una contestazione ripetitiva, e a lungo andare sterile, degli assetti del potere costituito. Ed è qui che vanno cercate probabilmente anche le radici di un irrigidimento dottrinario di tanta parte del movimento che ha poi generato una proliferazioni di gruppi e sottogruppi in concorrenza tra loro; una «mania» che in molti paesi, tra cui l’Italia, si è poi protratta addirittura fino ai giorni nostri.
D’altronde, se fino ad allora il mondo accademico era stato dotto, ma chiuso di fronte all’evoluzione della società e alle istanze di autonomia delle persone, il ’68 aveva sì spalancato sul mondo reale le finestre delle discipline universitarie, ma senza saperne poi trarre delle indicazioni pratiche in grado di concretizzarsi in nuovi saperi. Così l’accademia era ben presto tornata a chiudersi su se stessa; e da allora non è stata più né aperta né dotta.
Il «pensiero unico» che ha guidato e in cui si è concretizzata la reazione al «grande disordine» di quegli anni aveva dunque potuto inserirsi proprio in quella debolezza dei movimenti del ‘68, affidando il perseguimento di un obiettivo analogo al loro – la realizzazione della propria autonomia individuale – non a un’azione collettiva e consapevole, ma ai meccanismi ciechi e automatici [o presunti tali] del mercato: affermazione e realizzazione personali sarebbero da allora dipesi dal funzionamento selettivo e falsamente «meritocratico» della competizione individuale.
Questo approccio è stato poi gradualmente e quasi inavvertitamente assimilato da tutta la società; soprattutto dopo che l’affievolirsi e il venir meno dell’«onda lunga» dei movimenti; e, in Italia, le conseguenze di un terrorismo, di Stato e dei gruppi armati, che ne aveva deviato la carica innovativa verso vicoli ancora più ciechi e tragici – ne avevano disperso i già fragili presidi culturali.
Oggi la situazione si è in qualche modo invertita rispetto a quegli anni: nei rapporti di forza, il mondo del lavoro ha perso l’autonomia e la forza che aveva conquistato in anni di lotte e di antagonismo nei confronti dei poteri forti del capitale, dei governi e delle grandi corporation. Queste ultime sono ormai organismi in larga parte sovranazionali, in grado sia di ricattare i governi nazionali che di assoldarne il personale [la corruzione è infatti diventata un elemento costitutivo dei «meccanismi di mercato» o, se vogliamo, del «modo di produzione»; e non solo in Italia]. Oggi esse appaiono – e sono – più forti che mai, nonostante la crisi; anzi, anche grazie alla crisi, che accresce la loro capacità di ricattare e sfruttare una massa sterminata di lavoratori, dipendenti e autonomi, manuali o intellettuali [il cosiddetto «cognitariato»], del nord e del sud del mondo, ma sempre più precari, dispersi su tutto il pianeta dai processi di delocalizzazione e sempre più esposti al ricatto che questi processi consentono di esercitare.
Ma dal punto di vista dei saperi, il grande capitale e gli establishment politici degli Stati – sia di maggioranza che di opposizione – e persino il mondo accademico più direttamente interconnesso con essi sono ormai imprigionati dentro la gabbia sempre più stretta del «pensiero unico»: cioè della loro ignoranza. Ne sono prigionieri perché per loro, allo stato di cose esistente «non c’è alternativa»: Tina.
In Italia questa perdita di conoscenze – e di capacità di conoscere – ci viene ribadita quasi ogni giorno dai rappresentanti dell’opposizione: «Non abbiamo saputo riconoscere e interpretare l’evoluzione della società» è ormai diventato un ritornello. Ma forse che i rappresentanti della maggioranza lo hanno saputo fare? Certo sono «al passo» con molte delle sue trasformazioni: anzi, a volte le anticipano e nel caso di quelle peggiori, come la rinata virulenza del razzismo, la competizione senza freni, il disprezzo per la conoscenza, l’ipocrisia e la truffa, le solleticano e le moltiplicano. Hanno «fiuto» si dice. Ma il fiuto è una facoltà che ti tiene legato a terra, impedisce di sollevare lo sguardo verso l’orizzonte, costringe a seguire tracce di itinerari già percorsi.
Ma di quali strumenti dispongono mai i membri dell’establishment di tutti i paesi del mondo, e del nostro in particolare, per fare fronte alla crisi ambientale, alla globalizzazione dell’economia, alla sua finanziarizzazione, alla dissoluzione dei legami sociali? Sia loro che l’opposizione non possono fare altro che rincorrere questi processi e cercare di adeguarvisi; perché «non c’è alternativa» [Tina]. Giocano con i numeri – e con il fuoco; e con la guerra; e con i disastri economici, e con la crisi ambientale – come stregoni: dividendosi i compiti. Alcuni sono addetti a esorcizzare i disastri: va tutto bene; altri a prospettare giorno per giorno soluzioni fasulle, il cui unico risvolto è il business ad esse connesso; altri, infine, a dare la caccia – una caccia spesso brutale – a qualche capro espiatorio: gli immigrati, la concorrenza cinese, il pubblico impiego e persino il ricorrente fantasma del ’68.
Di contro, nel corso di questi stessi anni, e in forma quasi carsica, è andata sviluppandosi, ad opera di una molteplicità di organismi, di movimenti, di studiosi indipendenti, di «imprenditori sociali», spesso collettivi, una serie di saperi autonomi che coprono quasi tutto l’arco dei problemi e dei settori decisivi per affrontare sia la crisi ambientale, tanto a livello globale che locale, sia la crisi occupazionale, la crisi alimentare, quella energetica, quella urbanistica, quella educativa. Si tratta di saperi direttamente legati a una prassi, o a verifiche pratiche dirette o già sperimentate altrove, o messe comunque alla prova in attività di disseminazione mirate e capillari. Per ora coinvolgono solo alcune minoranze più o meno diffuse, ancora insufficientemente collegate tra loro; soprattutto perché quei movimenti sono spesso monotematici e la ricomposizione di iniziative del genere è difficile e complessa.
Quarant’anni fa gli unici ambiti intorno a cui erano andati sviluppandosi saperi e pratiche alternative alle conoscenze egemoni erano la medicina – soprattutto per quanto riguarda le prevenzione sui luoghi di lavoro, anche grazie all’apporto di alcune organizzazioni sindacali – e, in misura più ridotta, e certo con esiti meno sostenibili, l’urbanistica.
Oggi i saperi che i movimenti degli anni più recenti hanno contribuito a costruire, o a consolidare attraverso una pratica diretta, o intorno a cui sono andati sviluppandosi nel corso degli anni, permettendo la formulazione e la condivisione di piattaforme rivendicative o programmatiche sempre più ampie e circostanziate, riguardano una vasta gamma di ambiti: innanzitutto le tecnologie e l’utilizzo delle fonti energetiche rinnovabili come alternativa a un sistema interamente dipendente dai combustibili fossili; l’efficienza energetica; l’edilizia ecocompatibile; l’urbanistica partecipata; l’agricoltura biologica; l’alimentazione e il ciclo agroalimentare nel suo insieme. E poi la gestione dei rifiuti [prevenzione e riciclo] per ridurre il consumo di risorse vergini, ma anche per interconnettere e sviluppare processi industriali su basi locali; la mobilità flessibile; la conservazione della biodiversità; la manutenzione del territorio e del patrimonio edilizio e soprattutto l’informatica open source e la condivisione di contenuti: un processo che nelle sue diverse espressioni coinvolge milioni di soggetti in tutto il mondo e consente circolazione e gestione di informazioni e idee in forme autonome.
In realtà sono tutti i saperi su cui sono cresciuti i nuovi movimenti a unire in forme inscindibili competenze tecniche specialistiche, più o meno largamente diffuse, con competenze gestionali che derivano da una pratica diretta. Ma si parla qui di competenze gestionali che riguardano beni comuni o procedure condivise, apprese ed eventualmente codificate in corso d’opera, nell’ambito di processi partecipativi che prevedono come loro pre-condizione l’impegno al confronto e alla collaborazione tra soggetti diversi, con interessi, valori e condizioni materiali diverse; e anche tra loro conflittuali.
Un «know how» del tutto estraneo alle pratiche e alle competenze della maggioranza delle amministrazioni locali, per non parlare delle società di servizi pubblici locali, pubbliche private o miste, che spesso coltivano il tema della «responsabilità sociale dell’impresa» o pubblicano i loro bilanci sociali in carta patinata solo per imbellettare il loro operato; ma che sono del tutto impreparate a misurarsi con processi collettivi di presa in carico di una gestione condivisa dei beni comuni oggi affidati alle loro amministrazioni. Conoscenze tecniche, conoscenza del territorio e competenze gestionali autonomamente acquisite, cioè capacità di autogoverno, o comunque di partecipazione tesa a accrescere o realizzare un controllo dal basso dei processi economici e delle scelte politiche, sono dunque indissolubilmente legati ai processi di partecipazione.
A differenza di quanto era successo quarant’anni fa, quando i movimenti si erano arenati soprattutto per l’incapacità di confrontarsi con la dimensione pratica dei problemi, oggi la forza dei movimenti risiede in primo luogo nella qualità dei saperi che hanno sviluppato o sulla cui diffusione sono cresciuti. Democrazia e partecipazione sono ormai inscindibili da conoscenza e saperi diffusi.
L’esempio più luminoso di questo accoppiamento ci è forse fornito dal movimento No Tav della Val di Susa: un movimento fondato su una larghissima partecipazione, che ha saputo rinnovarsi e resistere a una serie di attacchi concentrici per anni. E che ha polarizzato gli schieramenti a tal punto da spingere i signori delle tessere e delle leve di governo di Regione, Provincia e comune di Torino a imporre ai loro referenti locali di allearsi con i propri [pretesi] avversari politici, nel vano tentativo di mettere alle corde i protagonisti del movimento. Con l’esito, in termini elettorali, che tutti sappiamo: hanno consegnato alla Lega e a Berlusconi le chiavi della Regione, oggi; e probabilmente quelle della Provincia e della città, domani.
Che cosa dicono quei signori, e i loro corifei, per giustificare un’aberrazione del genere, perpetrata a spese di tutta la popolazione che avrebbero dovuto rappresentare? Dicono «non c’è alternativa» [Tina]. Tav è progresso, è industria, è finanza, è occupazione, è collegamento con l’Europa, è riduzione dell’impatto del trasporto. E si fermano lì. Non un’analisi dei flussi di merci presenti e futuri, che per tutti gli esperti di trasporto non richiedono assolutamente un investimento del genere. Non un’analisi costi benefici [anzi, una sì: dei professori Pennisi e Scandizzo, due luminari del settore, che manipolano dati di cui non espongono né fonti né procedure di elaborazione e ne ignorano altri ben più significativi]. Non la minima attenzione per le condizioni di vita di una popolazione che vorrebbero condannare a vivere dentro un cantiere, per di più altamente nocivo, per i prossimi quindici o vent’anni. E, soprattutto, la favola della riduzione dell’impatto del trasporto merci di una ferrovia pensata per trasportare solo passeggeri a 250 chilometri all’ora, pur essendo chiaro che il passaggio delle merci dal trasporto su gomma a quello su ferro o si fa – gradualmente – in tutto il paese, o non avverrà in nessuna sua tratta. E’ il trionfo dell’ignoranza.
Guardate ora la conoscenza diffusa che larga parte della popolazione della Val di Susa ha sviluppato nei confronti del progetto di Tav Torino-Lione, dei problemi relativi al trasporto e agli impatti ambientali, dei costi e dei benefici e soprattutto degli impatti sociali ad esso connessi. Una conoscenza su cui è stata costruita la forza del movimento. Se ne può ricavare un’idea navigando nei diversi siti web gestiti collettivamente dai comitati che animano il movimento e che sono aperti a una partecipazione corale di tutta la popolazione. Come in molte altre situazioni analoghe, la cosa che impressiona di più è la conoscenza, anche tecnica, dei problemi che essi dimostrano; la ricchezza della documentazione, anche di parte avversa, che espongono; l’onestà intellettuale nella gestione dell’informazione. Tutte risorse oggi del tutto inutilizzate da chi ha le leve del governo a qualsiasi livello. Ma tutte cose che fanno dire che democrazia e conoscenza costituiscono ormai un binomio inscindibile.
Quello che vale per la Val di Susa vale dappertutto. Democrazia e partecipazione vengono costruiti intorno o attraverso saperi che non possono prescindere da una conoscenza specifica del territorio: quella che solo chi ci vive e lavora può possedere. E che è indispensabile per mettere a punto progetti specifici di rientro nei parametri della sostenibilità ambientale, sociale ed economica, che sono necessariamente diversi da un territorio all’altro, come sono diverse le risorse fisiche e umane su cui contare, le opportunità da valorizzare, i problemi specifici da risolvere. Ma che proprio in questa differenziazione locale, all’interno di una visione globale, radicano la pratica di una autentica democrazia partecipata.
Ma perché nel paese che ha avuto il più grande partito comunista e il più forte movimento operaio dell’Occidente, una cultura di sinistra egemone per almeno tre decenni, una delle manifestazioni più radicali e prolungate del «’68» e la maggiore proliferazione dei gruppi della sinistra radicale siamo poi caduti tanto in basso da diventare lo zimbello di tutta l’Europa, sia di destra che di sinistra?
Per alcuni, perché non sono stati elaborati quegli anticorpi che hanno permesso invece ad altri popoli e paesi di non venir travolti – o di venir travolti in misura minore – dall’ondata di demagogia e populismo che ha accompagnato gli sviluppi della globalizzazione nel corso degli ultimi due decenni; e che rischia di avere effetti ancora più deleteri con lo scoppio e il prolungarsi – a tempo indeterminato – della crisi economica. Per altri, perché la maggior parte delle risorse di quelle organizzazioni, o di una parte preponderante di esse, è stata per anni impegnata nel contenere, nel contrastare, nello screditare, assai più che nell’assecondare, le spinte sociali di cui pretendevano la rappresentanza; lasciando così liberi i germi della reazione di sviluppare indisturbati tutte le loro potenzialità; o addirittura alimentandoli.
Forse le due tesi non sono così alternative come la loro contrapposta formulazione potrebbe far credere.
Nelle condizioni materiali che stanno alla base del regime berlusconiano c’è certamente un risvolto specificamente italiano; ma ce ne è anche uno, sicuramente più rilevante, di dimensioni planetarie, o comunque transnazionali. Entrambi sono il portato di una mutazione antropologica con cui occorre fare i conti. Anche se i suoi tratti sono complessi, la cifra di questa mutazione è riconducibile a quella «dittatura dell’ignoranza» che ha dato il titolo a un recente testo di Giancarlo Majorino [Tropea, 2010]. In Italia Silvio Berlusconi non ha «sdoganato» soltanto il fascismo, ancora largamente diffuso tra i ranghi dell’ex Alleanza nazionale, e anche altrove. Questo è stato, almeno in parte, un mero epifenomeno della politica.
Quello che Berlusconi ha veramente sdoganato è l’ignoranza; l’orgoglio di essere ignoranti; il disprezzo, questo sì di stampo fascista, per i saperi, qualsiasi sapere, e per i loro cultori; la pretesa di «fare» e saper fare anche senza conoscere e sapere; la convinzione, latente anche prima di lui nello spirito nazionale ma promossa a piene mani dal sentire di cui è espressione il suo regime, di essere migliori di tutti gli altri: in particolare di arabi, «negri», cinesi, slavi, ebrei, a seconda dei gusti. Oggi è del tutto normale per personaggi come Borghezio, Gentilini o Calderoli sentirsi e presentarsi come esemplari di un mondo e di una razza superiori; e considerare e trattare figure come Mandela, Evo Morales o Gandhi, e soprattutto i popoli che li hanno espressi, come esemplari di un universo subumano.
Questo sdoganamento dell’ignoranza, il cui strumento principale è stata in Italia la televisione, privata e di Stato – la peggiore del mondo; e non solo nei notiziari e nelle trasmissioni «politiche», quanto soprattutto nella pappa securitaria [fondata sulla propalazione della paura] e decerebrata rifilata quotidianamente al pubblico culturalmente più indifeso dalle trasmissioni di intrattenimento – si è innestato tuttavia su alcuni processi di fondo che attraversano il panorama mondiale da decenni.
Il primo è il passaggio epocale – uso questo termine abusato a ragion veduta, perché in questo caso lo ritengo appropriato – dalla cultura scritta dei libri, dei giornali e delle riviste alla cultura audiovisiva della televisione e di internet. Solo due o tre altri passaggi hanno avuto sulla storia umana un peso paragonabile: quello tra cultura orale e scrittura, quello dal manoscritto alla stampa e, forse, quello dalla lettura ad alta voce alla lettura mentale. In tutti e tre i casi, le modalità di trasmissione e comunicazione precedenti non sono state eliminate [ancora oggi si imparano a memoria canzoni e persino poesie; qualcuno scrive ancora a mano; molti leggono a voce più o meno sommessa]; ma soverchiate, sicuramente sì.
Se è vero che i «contenuti» veicolati su questi supporti possono essere gli stessi – ma in genere non lo sono – le modalità di trasmissione e di recepimento ne alterano radicalmente la portata. In fin dei conti il medium è il messaggio. Su questo punto non occorre insistere perché è stato ampiamente analizzato: la pagina scritta richiede attenzione, sforzo, riflessione, invita a costruire schemi e griglie per sistemare – e sistematizzare sulla base di un principio di coerenza – quanto appreso. L’audiovisivo è molto più volatile; consente – anche se non necessariamente impone – una ricezione più passiva; non comporta, se non in rari casi, uno sforzo di apprendimento e meno ancora di interpretazione o di «traduzione»; permette di passare da un tema all’altro – o addirittura da un universo all’altro – con la semplice pressione di un tasto; non si deposita, o si deposita solo flebilmente, nel costrutto mentale del recipiente; soprattutto si rinnova ogni giorno, cancellando o relegando nell’oblio quello che era stato detto o comunicato solo ieri.
L’espressione «cultura del palinsesto», che un tempo indicava il faticoso recupero di un supporto organico, raschiando la pelle di una capra per depositarvi sopra un nuovo testo a spese di quello cancellato – che magari era assai più importante e che a volte oggi riusciamo a recuperare con sofisticate tecnologie – ai giorni nostri sta a indicare che le informazioni, come le affermazioni, cambiano ogni giorno; che quello che viene detto o visto oggi può contraddire completamente quanto detto o visto ieri – o anche oggi stesso – senza bisogno di spiegazioni. Quello che si perde, soprattutto, è la tensione alla costruzione di un universo cognitivo coerente e unitario. Come è noto, Berlusconi è stato il più rapido a capire e ad appropriarsi di questo meccanismo.
In un ambiente del genere, l’unico modo per consolidare dei saperi è quello di legarli strettamente a un’attività pratica. Le cascate di parole e di immagini che ci investono attraverso i media audiovisivi difficilmente si depositano, e quando lo fanno si sovrappongono in strati tra loro impermeabili. Ma come la moneta cattiva scaccia quella buona, l’inflazione di informazioni e immagini prodotta dai media restringono progressivamente lo spazio riservato al testo scritto e meditato.
La scuola tradizionale e tutta la formazione scolastica odierna sono state le prime vittime di questo cambio di paradigma. Ancora quasi interamente affidate all’accumulo di parole scritte in quotidiana competizione con la marea di suoni, immagini e parole, gridate, sussurrate o cantate, provocata dai media. Ovvio che a scuola non si impari più nulla o quasi. Nessuno lo sa meglio degli insegnanti, anche quando ne danno la colpa ai ragazzi.
Il secondo processo a cui è riconducibile la dittatura dell’ignoranza è il fondamentalismo, non solo religioso – islamico, cristiano, giudaico o induista: ma sempre vissuto come fattore identitario, con effetti sanguinosi perseguiti in nome del bene contro il male – ma anche «razziale»: trasferendo magari dal piano biologico a quello culturale – in senso «antropologico» – la pretesa superiorità di un’etnia o di una nazione sull’altra. Il fondamentalismo è stato e viene alimentato soprattutto da una reazione identitaria e difensiva nei confronti dei processi di sradicamento, di perdita delle proprie certezze, di aumento dell’insicurezza indotti dalla globalizzazione.
Cresce in tutto il mondo il numero delle persone disposte a sostenere che nella Bibbia, nel Corano, nelle Upanishad o nel Vangelo – spesso senza conoscerne o senza nemmeno saperne leggere il testo – o in loro interpretazioni schematiche, dogmatiche o addirittura false, e comunque sempre autoritarie, è contenuto tutto quello che una persona giusta deve sapere; e pronte a negare qualsiasi evidenza, scientifica e non, che ne contraddica anche solo una singola sentenza.
Anche in questo caso il berlusconismo, questa volta anticipato dalla Lega, disinvoltamente passata dall’adorazione del dio Po, o Eridano, e dai riti celtici all’alleanza con Cristo re, ha saputo e potuto mettere a frutto la sostanza fondamentalmente razzista di questa chiusura culturale. Lo ha fatto con un’alleanza tra trono e altare configurata ad hoc per coprire reciprocamente le rispettive debolezze. Il risultato più feroce e grottesco di questo innesto sono le dissertazioni psudoscientifiche sullo statuto dell’embrione, sulla tempistica dell’estinzione della vita o sull’omosessualità. E lo sarà probabilmente ben presto anche l’imposizione del creazionismo, come già avviene in molte scuole degli Stati Uniti.
Il vuoto culturale indotto o favorito da questi due processi, cioè la dittatura dell’ignoranza e il fondamentalismo, convive con – o addirittura si qualifica come – una sorta di pragmatismo «di ordinanza», imposto dalla cosiddetta fine delle ideologie: in realtà di una sola ideologia, quella socialista, con la sua appendice comunista; che forse ideologia non era, bensì un insieme di saperi, seppur parziali e di parte, e certo irrigiditi da una codificazione autoritaria, e in questa forma sicuramente inadatti all’interpretazione del mondo attuale; ma la cui cancellazione ha lasciato dietro di sé solo macerie.
Perché le altre cosiddette «ideologie» dei due secoli scorsi non sono certo scomparse. Quella cattolica – la «dottrina sociale della chiesa» nelle varie formulazioni che hanno tenuto uniti molti partiti occidentali per più di un secolo – o genericamente cristiana, lungi dallo scomparire, è possentemente risorta negli ultimi decenni in forme più radicali, brutali e «ideologiche» sotto le vesti, appunto, di integralismo fondamentalista. E quella liberale, trasmutatasi in fondamentalismo liberista, ha ormai occupato tutta la scena planetaria sotto forma di «pensiero unico». Che altro non è che la forma più schematica e idiota di un «mercatismo» da tempo impegnato a identificare tutte le manifestazioni della vita umana, e a volte anche quelle della natura, con una sorta di totalitario «darwinismo sociale»: un meccanismo fondato sulla competizione e la selezione comandato dal gioco di un mercato concorrenziale che non è mai esistito e mai esisterà in quella forma. Se non negli scritti dottrinari di centinaia di migliaia di accademici che hanno fatto da scudo alla prassi dei rispettivi allievi.
I quali, come ha ben illustrato Naomi Klein in «Shock Economy» [Rizzoli, 2007), dalle istituzioni universitarie in cui sono stati allevati hanno finito per occupare tutti i gangli vitali degli organismi che governano i processi della globalizzazione economica: dalla Banca mondiale alla Wto, dal Fmi alla Commissione europea, fino a coinvolgere i vertici di quasi tutti gli Stati sia dell’Occidente che di quelli nati dalla dissoluzione dell’impero sovietico, e persino della Repubblica popolare cinese, che pure si dichiara ancora «comunista».
Proprio perché autentica ideologia, che non ha alcun riscontro non solo nella realtà dei processi economici [i «mercati» reali], ma nemmeno nella prassi di chi la professa solo per farne un paravento delle proprie scelte, il liberismo o «pensiero unico» può essere senz’altro identificato con la forma più dispiegata e diffusa di ignoranza: una forma, cioè, non solo di occultamento della verità, ma di orgoglio nel volerla ignorare. Mentre i suoi proseliti, di destra e di sinistra, o né di destra né di sinistra, non sono che sacerdoti di questa «dittatura dell’ignoranza».
Il riscontro più immediato di questo fenomeno – ma ce ne sono altri mille disponibili, basta osservare un’assemblea di Confindustria – lo troviamo nell’auditel: è il mercato pubblicitario, che riflette puntualmente indici di ascolto ampiamente determinati da chi controlla i media, a indirizzare la programmazione, cioè le «scelte culturali» dei palinsesti: cioè a far precipitare i contenuti delle trasmissioni televisive verso la decerebrazione totale. Il riscontro più massiccio e tangibile dello stesso fenomeno è invece il controllo totale del mercato, cioè della rendita fondiaria e della speculazione edilizia, sulla morfologia delle città e sulle forme dell’espansione urbana: in tutto il mondo. Cioè sulle basi materiali, fisiche, solide, che costituiscono l’infrastruttura della convivenza umana; con il loro portato di idiotismo abitativo, di brutalità sociale, di analfabetismo culturale e di bruttezza.
Per questi motivi il populismo autoritario e personalizzato – di cui Berlusconi è forse l’esponente maggiore nel mondo odierno, e sicuramente quello di maggiore successo, ma non certo l’unico – è la manifestazione più vistosa di una tendenza che si radica in questi due processi in atto, declinandoli in differenti versioni nazionali, regionali, locali, o anche etniche e religiose [anche la chiesa cattolica, da Wojtyla in poi – anzi, soprattutto con Wojtyla – è una tipica manifestazione di questo andazzo: populismo, autoritarismo, fondamentalismo e dittatura dell’ignoranza].
All’interno di questo meccanismo infernale la competizione politica si è ridotta a una corsa al peggio: vince chi riesce a falsare di più la realtà; a degradare di più contenuti e forme della comunicazione; a solleticare maggiormente gli istinti più bassi – e sempre latenti – dell’umanità; a farle rinunciare più tranquillamente alla propria dignità; a promuovere di più il servilismo [l’entourage di Berlusconi ne è sicuramente l’esempio più vistoso del mondo; ma, anche qui, la gerarchia cattolica non gli è da meno]. E’ un processo di cui siamo quotidianamente spettatori; ma spesso anche, volontariamente o no, sia attori che vittime. Il suo fondamento è noto, ed è stato battezzato con un acronimo: Tina [«There is no alternative»: non si può fare diversamente]. E’ la gabbia in cui si sono autoreclusi tutti quelli che accettano di competere nello stesso agone, sulla stessa arena. Ma individuare un’altra arena e promuovere un impegno collettivo in essa è, come ognun sa, tutt’altro che semplice.
In altra sede [«Prove di un mondo diverso», NdaPress, 2009] ho proposto una periodizzazione di questo processo per ricollocarlo in un tempo storico: primo passo – ma indispensabile – per prospettarne un possibile superamento: gli oltre sessant’anni che separano la crisi attuale dalla fine della seconda guerra mondiale possono essere divisi in due parti. La prima, i cosiddetti «trenta gloriosi», si sono svolti, bene o male, all’insegna della decolonizzazione; di una pretesa «competizione pacifica» tra Occidente e Comunismo [pur nel quadro della guerra fredda; e certo contrassegnata da orrori come i gulag, le dittature imposte con colpi di stato, i conflitti sanguinosi in Corea, in Vietnam, in Africa, in Medio oriente]; e soprattutto all’insegna dello «sviluppo» economico, della crescita dell’occupazione, dei livelli salariali, del welfare e del consumismo nei paesi «sviluppati»; della loro attesa in quelli via via decolonizzati.
La seconda parte del periodo ha visto l’inversione di tutti questi processi: il fallimento delle promesse della decolonizzazione; la fine dell’equilibrio bipolare e la moltiplicazione delle guerre locali; la contrazione dei redditi del lavoro e l’aumento di quelli del capitale, con il conseguente aumento stellare delle differenze sociali, tanto nel primo quanto nel secondo, nel terzo e nel quarto mondo; il crollo del welfare, l’esplosione del debito delle persone, delle imprese, delle economie, dei governi nazionali e locali, usato soprattutto per procrastinare una resa dei conti; la conseguente «finanziarizzazione» dell’economia mondiale.
Se a mettere in mora gli equilibri – meglio sarebbe dire gli squilibri – instaurati nel corso di questo secondo periodo è stata l’esplosione della crisi finanziaria, e poi economica, e in ultima analisi ambientale, a mettere in mora gli equilibri dei «trenta gloriosi» era sta l’esplosione del ’68: cioè dei movimenti sociali che a partire dalla metà degli anni sessanta, e per tutta la prima metà dei settanta, avevano attraversato quasi tutti i paesi, sia dell’Occidente che del «Terzo mondo» e del mondo comunista, muovendo dalle università per investire in modo più o meno profondo tutto l’assetto sociale.
I tratti costitutivi comuni a tutti quei movimenti, per lo meno nella loro fase iniziale, erano stati uno spirito di rivolta e una temperie antiautoritaria tesi all’affermazione della propria autonomia personale nell’ambito di un processo di crescita collettiva. Temperie e spirito che si erano poi propagati in tutti gli ambiti sociali: dalle fabbriche all’università, dalle scuole alle carceri, dai corpi militari all’amministrazione della giustizia, dai quartieri ai laboratori di ricerca: con il tentativo di disarticolare le linee di comando gerarchico – e non solo quelle del sistema di fabbrica – attraverso la messa in questione del proprio ruolo e dei propri compiti. Ma quei movimenti si erano poi arenati, sfrangiati e dissolti, non tanto sotto il peso della repressione [che pure in alcuni paesi era stata violenta], quanto per mancanza di punti di applicazione concreti, una volta venute meno le ragioni e le occasioni che li avevano suscitati, come la mobilitazione contro la guerra in Vietnam o la rigidità delle strutture dell’università, delle professioni e, dove ancora prevaleva come modo di produzione, della grande fabbrica fordista.
La «lunga marcia attraverso le istituzioni» propugnata dal leader degli studenti tedeschi Rudi Dutschke non aveva trovato a sua disposizione saperi adeguati a formulare e perseguire strade alternative a quelle di una contestazione ripetitiva, e a lungo andare sterile, degli assetti del potere costituito. Ed è qui che vanno cercate probabilmente anche le radici di un irrigidimento dottrinario di tanta parte del movimento che ha poi generato una proliferazioni di gruppi e sottogruppi in concorrenza tra loro; una «mania» che in molti paesi, tra cui l’Italia, si è poi protratta addirittura fino ai giorni nostri.
D’altronde, se fino ad allora il mondo accademico era stato dotto, ma chiuso di fronte all’evoluzione della società e alle istanze di autonomia delle persone, il ’68 aveva sì spalancato sul mondo reale le finestre delle discipline universitarie, ma senza saperne poi trarre delle indicazioni pratiche in grado di concretizzarsi in nuovi saperi. Così l’accademia era ben presto tornata a chiudersi su se stessa; e da allora non è stata più né aperta né dotta.
Il «pensiero unico» che ha guidato e in cui si è concretizzata la reazione al «grande disordine» di quegli anni aveva dunque potuto inserirsi proprio in quella debolezza dei movimenti del ‘68, affidando il perseguimento di un obiettivo analogo al loro – la realizzazione della propria autonomia individuale – non a un’azione collettiva e consapevole, ma ai meccanismi ciechi e automatici [o presunti tali] del mercato: affermazione e realizzazione personali sarebbero da allora dipesi dal funzionamento selettivo e falsamente «meritocratico» della competizione individuale.
Questo approccio è stato poi gradualmente e quasi inavvertitamente assimilato da tutta la società; soprattutto dopo che l’affievolirsi e il venir meno dell’«onda lunga» dei movimenti; e, in Italia, le conseguenze di un terrorismo, di Stato e dei gruppi armati, che ne aveva deviato la carica innovativa verso vicoli ancora più ciechi e tragici – ne avevano disperso i già fragili presidi culturali.
Oggi la situazione si è in qualche modo invertita rispetto a quegli anni: nei rapporti di forza, il mondo del lavoro ha perso l’autonomia e la forza che aveva conquistato in anni di lotte e di antagonismo nei confronti dei poteri forti del capitale, dei governi e delle grandi corporation. Queste ultime sono ormai organismi in larga parte sovranazionali, in grado sia di ricattare i governi nazionali che di assoldarne il personale [la corruzione è infatti diventata un elemento costitutivo dei «meccanismi di mercato» o, se vogliamo, del «modo di produzione»; e non solo in Italia]. Oggi esse appaiono – e sono – più forti che mai, nonostante la crisi; anzi, anche grazie alla crisi, che accresce la loro capacità di ricattare e sfruttare una massa sterminata di lavoratori, dipendenti e autonomi, manuali o intellettuali [il cosiddetto «cognitariato»], del nord e del sud del mondo, ma sempre più precari, dispersi su tutto il pianeta dai processi di delocalizzazione e sempre più esposti al ricatto che questi processi consentono di esercitare.
Ma dal punto di vista dei saperi, il grande capitale e gli establishment politici degli Stati – sia di maggioranza che di opposizione – e persino il mondo accademico più direttamente interconnesso con essi sono ormai imprigionati dentro la gabbia sempre più stretta del «pensiero unico»: cioè della loro ignoranza. Ne sono prigionieri perché per loro, allo stato di cose esistente «non c’è alternativa»: Tina.
In Italia questa perdita di conoscenze – e di capacità di conoscere – ci viene ribadita quasi ogni giorno dai rappresentanti dell’opposizione: «Non abbiamo saputo riconoscere e interpretare l’evoluzione della società» è ormai diventato un ritornello. Ma forse che i rappresentanti della maggioranza lo hanno saputo fare? Certo sono «al passo» con molte delle sue trasformazioni: anzi, a volte le anticipano e nel caso di quelle peggiori, come la rinata virulenza del razzismo, la competizione senza freni, il disprezzo per la conoscenza, l’ipocrisia e la truffa, le solleticano e le moltiplicano. Hanno «fiuto» si dice. Ma il fiuto è una facoltà che ti tiene legato a terra, impedisce di sollevare lo sguardo verso l’orizzonte, costringe a seguire tracce di itinerari già percorsi.
Ma di quali strumenti dispongono mai i membri dell’establishment di tutti i paesi del mondo, e del nostro in particolare, per fare fronte alla crisi ambientale, alla globalizzazione dell’economia, alla sua finanziarizzazione, alla dissoluzione dei legami sociali? Sia loro che l’opposizione non possono fare altro che rincorrere questi processi e cercare di adeguarvisi; perché «non c’è alternativa» [Tina]. Giocano con i numeri – e con il fuoco; e con la guerra; e con i disastri economici, e con la crisi ambientale – come stregoni: dividendosi i compiti. Alcuni sono addetti a esorcizzare i disastri: va tutto bene; altri a prospettare giorno per giorno soluzioni fasulle, il cui unico risvolto è il business ad esse connesso; altri, infine, a dare la caccia – una caccia spesso brutale – a qualche capro espiatorio: gli immigrati, la concorrenza cinese, il pubblico impiego e persino il ricorrente fantasma del ’68.
Di contro, nel corso di questi stessi anni, e in forma quasi carsica, è andata sviluppandosi, ad opera di una molteplicità di organismi, di movimenti, di studiosi indipendenti, di «imprenditori sociali», spesso collettivi, una serie di saperi autonomi che coprono quasi tutto l’arco dei problemi e dei settori decisivi per affrontare sia la crisi ambientale, tanto a livello globale che locale, sia la crisi occupazionale, la crisi alimentare, quella energetica, quella urbanistica, quella educativa. Si tratta di saperi direttamente legati a una prassi, o a verifiche pratiche dirette o già sperimentate altrove, o messe comunque alla prova in attività di disseminazione mirate e capillari. Per ora coinvolgono solo alcune minoranze più o meno diffuse, ancora insufficientemente collegate tra loro; soprattutto perché quei movimenti sono spesso monotematici e la ricomposizione di iniziative del genere è difficile e complessa.
Quarant’anni fa gli unici ambiti intorno a cui erano andati sviluppandosi saperi e pratiche alternative alle conoscenze egemoni erano la medicina – soprattutto per quanto riguarda le prevenzione sui luoghi di lavoro, anche grazie all’apporto di alcune organizzazioni sindacali – e, in misura più ridotta, e certo con esiti meno sostenibili, l’urbanistica.
Oggi i saperi che i movimenti degli anni più recenti hanno contribuito a costruire, o a consolidare attraverso una pratica diretta, o intorno a cui sono andati sviluppandosi nel corso degli anni, permettendo la formulazione e la condivisione di piattaforme rivendicative o programmatiche sempre più ampie e circostanziate, riguardano una vasta gamma di ambiti: innanzitutto le tecnologie e l’utilizzo delle fonti energetiche rinnovabili come alternativa a un sistema interamente dipendente dai combustibili fossili; l’efficienza energetica; l’edilizia ecocompatibile; l’urbanistica partecipata; l’agricoltura biologica; l’alimentazione e il ciclo agroalimentare nel suo insieme. E poi la gestione dei rifiuti [prevenzione e riciclo] per ridurre il consumo di risorse vergini, ma anche per interconnettere e sviluppare processi industriali su basi locali; la mobilità flessibile; la conservazione della biodiversità; la manutenzione del territorio e del patrimonio edilizio e soprattutto l’informatica open source e la condivisione di contenuti: un processo che nelle sue diverse espressioni coinvolge milioni di soggetti in tutto il mondo e consente circolazione e gestione di informazioni e idee in forme autonome.
In realtà sono tutti i saperi su cui sono cresciuti i nuovi movimenti a unire in forme inscindibili competenze tecniche specialistiche, più o meno largamente diffuse, con competenze gestionali che derivano da una pratica diretta. Ma si parla qui di competenze gestionali che riguardano beni comuni o procedure condivise, apprese ed eventualmente codificate in corso d’opera, nell’ambito di processi partecipativi che prevedono come loro pre-condizione l’impegno al confronto e alla collaborazione tra soggetti diversi, con interessi, valori e condizioni materiali diverse; e anche tra loro conflittuali.
Un «know how» del tutto estraneo alle pratiche e alle competenze della maggioranza delle amministrazioni locali, per non parlare delle società di servizi pubblici locali, pubbliche private o miste, che spesso coltivano il tema della «responsabilità sociale dell’impresa» o pubblicano i loro bilanci sociali in carta patinata solo per imbellettare il loro operato; ma che sono del tutto impreparate a misurarsi con processi collettivi di presa in carico di una gestione condivisa dei beni comuni oggi affidati alle loro amministrazioni. Conoscenze tecniche, conoscenza del territorio e competenze gestionali autonomamente acquisite, cioè capacità di autogoverno, o comunque di partecipazione tesa a accrescere o realizzare un controllo dal basso dei processi economici e delle scelte politiche, sono dunque indissolubilmente legati ai processi di partecipazione.
A differenza di quanto era successo quarant’anni fa, quando i movimenti si erano arenati soprattutto per l’incapacità di confrontarsi con la dimensione pratica dei problemi, oggi la forza dei movimenti risiede in primo luogo nella qualità dei saperi che hanno sviluppato o sulla cui diffusione sono cresciuti. Democrazia e partecipazione sono ormai inscindibili da conoscenza e saperi diffusi.
L’esempio più luminoso di questo accoppiamento ci è forse fornito dal movimento No Tav della Val di Susa: un movimento fondato su una larghissima partecipazione, che ha saputo rinnovarsi e resistere a una serie di attacchi concentrici per anni. E che ha polarizzato gli schieramenti a tal punto da spingere i signori delle tessere e delle leve di governo di Regione, Provincia e comune di Torino a imporre ai loro referenti locali di allearsi con i propri [pretesi] avversari politici, nel vano tentativo di mettere alle corde i protagonisti del movimento. Con l’esito, in termini elettorali, che tutti sappiamo: hanno consegnato alla Lega e a Berlusconi le chiavi della Regione, oggi; e probabilmente quelle della Provincia e della città, domani.
Che cosa dicono quei signori, e i loro corifei, per giustificare un’aberrazione del genere, perpetrata a spese di tutta la popolazione che avrebbero dovuto rappresentare? Dicono «non c’è alternativa» [Tina]. Tav è progresso, è industria, è finanza, è occupazione, è collegamento con l’Europa, è riduzione dell’impatto del trasporto. E si fermano lì. Non un’analisi dei flussi di merci presenti e futuri, che per tutti gli esperti di trasporto non richiedono assolutamente un investimento del genere. Non un’analisi costi benefici [anzi, una sì: dei professori Pennisi e Scandizzo, due luminari del settore, che manipolano dati di cui non espongono né fonti né procedure di elaborazione e ne ignorano altri ben più significativi]. Non la minima attenzione per le condizioni di vita di una popolazione che vorrebbero condannare a vivere dentro un cantiere, per di più altamente nocivo, per i prossimi quindici o vent’anni. E, soprattutto, la favola della riduzione dell’impatto del trasporto merci di una ferrovia pensata per trasportare solo passeggeri a 250 chilometri all’ora, pur essendo chiaro che il passaggio delle merci dal trasporto su gomma a quello su ferro o si fa – gradualmente – in tutto il paese, o non avverrà in nessuna sua tratta. E’ il trionfo dell’ignoranza.
Guardate ora la conoscenza diffusa che larga parte della popolazione della Val di Susa ha sviluppato nei confronti del progetto di Tav Torino-Lione, dei problemi relativi al trasporto e agli impatti ambientali, dei costi e dei benefici e soprattutto degli impatti sociali ad esso connessi. Una conoscenza su cui è stata costruita la forza del movimento. Se ne può ricavare un’idea navigando nei diversi siti web gestiti collettivamente dai comitati che animano il movimento e che sono aperti a una partecipazione corale di tutta la popolazione. Come in molte altre situazioni analoghe, la cosa che impressiona di più è la conoscenza, anche tecnica, dei problemi che essi dimostrano; la ricchezza della documentazione, anche di parte avversa, che espongono; l’onestà intellettuale nella gestione dell’informazione. Tutte risorse oggi del tutto inutilizzate da chi ha le leve del governo a qualsiasi livello. Ma tutte cose che fanno dire che democrazia e conoscenza costituiscono ormai un binomio inscindibile.
Quello che vale per la Val di Susa vale dappertutto. Democrazia e partecipazione vengono costruiti intorno o attraverso saperi che non possono prescindere da una conoscenza specifica del territorio: quella che solo chi ci vive e lavora può possedere. E che è indispensabile per mettere a punto progetti specifici di rientro nei parametri della sostenibilità ambientale, sociale ed economica, che sono necessariamente diversi da un territorio all’altro, come sono diverse le risorse fisiche e umane su cui contare, le opportunità da valorizzare, i problemi specifici da risolvere. Ma che proprio in questa differenziazione locale, all’interno di una visione globale, radicano la pratica di una autentica democrazia partecipata.
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