Fonte. Eddyburg
Tratto dal blog di Laura E. Ruberto
La critica all’attuale sistema economico, basato sulla produzione indefinita di merci sempre più lontane dai bisogni reali e sempre più dissipatrici di risorse finite, si scontra spesso con una reazione: non vorrete mica chiudere le fabbriche e gettare gli operai nell’inferno della disoccupazione?
É una reazione che non nasce solo dal mondo degli apologeti del sistema dato come il migliore possibile, né da quello dei rassegnati all’esistente perché there is no alternatives, ma trova spazio anche tra quanti non sono succubi del sistema capitalistico.
La critica all’attuale sistema economico, basato sulla produzione indefinita di merci sempre più lontane dai bisogni reali e sempre più dissipatrici di risorse finite, si scontra spesso con una reazione: non vorrete mica chiudere le fabbriche e gettare gli operai nell’inferno della disoccupazione?
É una reazione che non nasce solo dal mondo degli apologeti del sistema dato come il migliore possibile, né da quello dei rassegnati all’esistente perché there is no alternatives, ma trova spazio anche tra quanti non sono succubi del sistema capitalistico.
É il caso, ad esempio, della recente critica di Rossana Rossanda a una ragionevole proposta avanzata da Guido Viale alla crisi dell’automobile. Ed è una reazione che è anche un indicatore delle difficoltà che incontra chi ritiene che una risposta adeguata al presente modello di sviluppo potrà aversi unicamente se si costituisce un’alleanza tra i gruppi sociali che sono più direttamente minacciati dalla sua egemonia, Nel Nord del mondo, a cominciare da quelli che soffrono e protestano per le condizioni delle risorse naturali, dei patrimoni culturali, delle conquiste sociali raggiunte negli anni del welfare, e quanti hanno perduto o rischiano di perdere la base stessa della loro esistenza sociale: il lavoro.
Credo che sia necessario affrontare il tema del lavoro in tutta la sua ampiezza, per comprendere non solo le ragioni per cui la difesa del lavoro è essenziale, ma anche quali sono le alternative possibili all’uso che attualmente il sistema economico ne fa.
Per avviare una riflessione su questi temi conviene partire da un’affermazione di Nichi Vendola. Egli ha recentemente ricordato che, se «essere radicali significa andare alla radice delle cose, alla radice di ogni cosa c’è l’essere umano».
Di ogni cosa, anche del lavoro. Ecco allora la domanda: il lavoro è necessario all’uomo solo perché riceve in cambio una retribuzione che gli consente di sopravvivere e vivere, oppure il significato del lavoro, la sua utilità e necessità per l’uomo (e per la società) ha un’altra e più profonda (più radicale) ragione?
Perché se così fosse, se il lavoro ha un significato per l’uomo al di là della sua attuale dimensione economica, allora si dovrebbe dire che il lavoro viene prima dell’economia, ed è l’economia che deve adeguarsi al fatto che il lavoro dell’uomo (di tutti gli uomini) è una realtà indispensabile allo sviluppo della ciiviltà umana: allo “sviluppo” vero, non solo a quello oggi socialmente riconosciuto come necessario al sistema, cioè asservito alla produzione di merci.
Un po’ di teoria...
Il lavoro non è solo il mezzo mediante il quale, in una società complessa, l’uomo ottiene un reddito idoneo a soddisfare la esigenze al livello storicamente dato. Esso è «per sua natura, lo strumento, peculiarmente umano, col quale l’uomo consegue i suoi fini; ed è strumento universale, nel senso che esso è a disposizione dell’uomo per ogni possibile suo fine» (C. Napoleoni 1980, p.4 segg.).
Esso peraltro, per poter essere erogato e socialmente utilizzato, ha bisogno di un riconoscimento di utilità sociale al quale corrisponda l’assegnazione al lavoratore di una quota di reddito commisurata alle sue esigenze. Un mondo nel quale il lavoro venga reso inutile o impossibile è un mondo nel quale la civiltà è destinata a spegnersi.
Eppure, tale è un mondo abbandonato al dominio dell’economia data, cioè ai meccanismi di produzione e consumo propri del capitalismo, ai connessi dispositivi proprietari, giuridici e ideologici. Non posso in questa sede argomentare adeguatamente questa affermazione; provo a farlo appena un po’ più ampiamente nel mio libro Memorie di un urbanista, al quale rinvio (E. Salzano, 2010, p. 26 segg).
Sono convinto che è a partire da essa che si può dimostrare:
1) che il lavoro è un bene comune indispensabile per il progresso dell’umanità;
2) che occorre fondare un’economia, diversa da quella capitalistica, nella quale ogni tipo di produzione dei valore d’uso abbia un’adeguata remunerazione, e tutte le capacità lavorative siano impiegate con pienezza.
Sono anche convinto che un simile orizzonte non è dietro l’angolo, e che il suo raggiungimento esige l’impiego di tutte le risorse disponibili: da quelle della riflessione e dello studio dell’insieme dei saperi necessari, a quelle sperimentazione delle forme di produzione e consumo che l’umana fantasia può escogitare.
Lasciando aperti problemi di preoccupante spessore vorrei arrivare a sostenere una proposta concreta e positiva che da varie parti è emersa, con particolare evidenza dopo il dibattito suscitato dalla decisione della Fiat di modificare sostanzialmente le condizioni di lavoro a Pomigliano d’Arco, e dalla conseguente resistenza a tali modifiche opposta da una parte consistente del mondo operaio.
…e un po’ di storia
Non è detto che l’economia debba comandare sulla politica. Non è detto che sia l’economia (le sue regole, i suoi decisori, i suoi strumenti) a stabilire per che cosa il lavoro debba essere impiegato. Meno che meno la scelta può essere affidata al “mercato”.
Questo e infatti divenuto uno strumento che solo gli sciocchi o gli imbroglioni possono spacciare come il luogo dove si manifesta la “sovranità del consumatore”; dimenticando che viviamo orma in un mondo in cui le scelte di consumo sono la conseguenza di un possente meccanismo di coartazione fatto di ideologia, di propaganda, di induzione compiuto - con i mezzi più sofisticati - dai padroni e gestori della produzione.
Basta sollevarsi dall’ottica di un Marchionne a quella che dovrebbe essere propria di un uomo pensoso del bene comune (di un “cittadino governante”) per comprendere qual è oggi il lavoro necessario in Italia.
Partiamo da qui per ragionare: non domandiamoci come bisogna fare per consentire alla Fiat di produrre automobili sempre più inutili e dannose, e neppure predichiamo l’inevitabilità che la fabbrica italiana di automobili chiuda.
Domandiamoci invece quale possa essere l’incontro virtuoso tra la capacità produttiva dei lavoratori impiegati nei diversi settori della produzione materiale e immateriale, e la soluzione dei problemi reali (non quelli degli investitori, ma quelli dei cittadini) che si pongono oggi nel nostro paese.
Chi conosce un po’ la nostra storia, o l’ha vissuta, ricorderà un precedente significativo: l’iniziativa di proporre ai partiti e al governo un Piano del lavoro, avanzata nel 1949 dalla Cgil, allora guidata da Giuseppe Di Vittorio.
Era un programma orientato a raggiungere due obiettivi convergenti: da un lato, dare una risposta alla forte offerta di lavoro manifestatasi nell’immediato dopoguerra, per effetto sia degli eventi bellici che dalla profonda miseria presente in molte zone del paese; dall’altro lato, affrontare alcuni problemi allora emergenti con un impiego mirato di tutte le risorse disponibili. Si trattava di tre grandi progetti: «la nazionalizzazione dell’industria elettrica e la costruzione di nuove centrali e bacini idroelettrici […]; l’avvio di un programma di bonifica e irrigazione di vasti terreni;[…] un piano edilizio immediato a carattere nazionale per far fronte alla drammatica carenza di case, scuole e ospedali» (P. Ginsborg 1989, p. 283).
Il finanziamento avrebbe dovuto avvenire «attraverso una tassazione fortemente progressiva, ma Di Vittorio annunciò che anche la classe operaia sarebbe stata pronta a nuovi sacrifici se il piano fosse stato accettato» (ibidem).
Il governo non accettò. Lo sviluppo dell’economia e la ristrutturazione del paese scelsero altre strade: edilizia a go go, autostrade, automobili e altri beni di consumo individuale durevoli, abbandono non governato dell’agricoltura e della cura del territorio.
Si accumularono le cause dei danni e dei disagi dei nostri giorni. E forse è proprio dalla riparazione dei danni provocati dal non aver accettato allora il piano del lavoro della Cgil che si può partire per trovare una sintesi tra la difesa del lavoro e quella degli altri beni comuni.
Un nuovo “Piano del lavoro” Su quattro grandi progetti sembra necessario oggi investire il massimo possibile di lavoro:
(1) una nuova organizzazione della mobilità che sia sostenibile, efficiente, amichevole, equa e che si ponga l’obiettivo di ridurre la domanda di mobilità mediante una corretta localizzazione delle funzioni sul territorio e la promozione delle “filiere corte”;
(2) nell’ambito di una decisa riduzione degli scarti del consumo e della dipendenza dall’energia, l’utilizzazione delle energie alternative con modalità, tecnologie e localizzazioni non configgenti con la tutela delle risorse e dei patrimoni comuni;
(3) un risarcimento del territorio che lo riscatti dall’attuale degrado delle risorse fisiche e culturali che in esso storia e natura hanno investito, gli restituisca bellezza, sicurezza, fruibilità, elimini i generatori di rischio, di degrado e d’inquinamento, avvii un’opera di manutenzione sistematica e ordinaria;
(4) un programma che si ponga l’obiettivo di garantire una residenza (abitazione più servizi) a tutti gli abitanti a condizioni adeguate alle loro necessità di vita e al loro reddito, mediante il recupero e la rigenerazione sociale del vastissimo stock edilizio accumulato.
Si tratta di progetti strettamente connessi tra loro, che singolarmente riecheggiano i temi del Piano del lavoro di Di Vittorio.
Non a caso i problemi di allora (il lavoro, la casa, il territorio agricolo, l’energia) sono rimasti gli stessi. Oggi sono certamente, modificati nelle loro caratteristiche, ma spesso resi più gravi per le scelte allora compiute: in primo luogo per quella di privilegiare la spontaneità delle azioni, l’individualismo delle soluzioni, il privato tra gli attori.
Non è difficile, per un’equipe di volenterosi cittadini dotati dei saperi necessari, tradurre questi progetti in linee d’azione operative, e su questa base individuare la quantità, la qualificazione e l’attrezzatura tecnica e imprenditoriale necessarie, correlandola alle disponibilità attuali e alla loro riconversione.
E non è neppure difficile individuare quali siano le risorse necessarie e dove sia possibile reperirle. Per quanto riguarda quelle finanziarie c’è molto da tosare nei malfunzionamenti sostanziali del sistema vigente.
Basterebbe partire dalla rinuncia alle Grandi opere inutili o dannose, dall’eliminazione dei fenomeni di spreco intollerabile legati al sistema corrotto degli affidamenti di opere, dalla riduzione delle rendite finanziarie e immobiliari e dalla loro tassazione, fino ad affrontare finalmente quello che si giustificherebbe da solo come una grande obiettivo di civiltà: la rinuncia agli armamenti militari e alle guerre, quali che siano i suoi travestimenti.
É chiaro che in questa prospettiva due altre grandi risorse, oggi lasciate al deperimento, diventerebbero decisive e richiederebbero un consistente rafforzamento: il governo pubblico del territorio, la formazione e la cultura.
Il primo è indispensabile per fornire al nuovo “piano del lavoro” il quadro di partecipazione civile, di programmazione economica, di pianificazione territoriale e urbanistica, di gestione amministrativa, di monitoraggio che sono indispensabili per impiegare in modo efficacemente finalizzato il lavoro e le altre risorse.
La formazione e la cultura sono essenziali perché costituiscono il campo nel quale si costruiscono le basi di ogni futuro che voglia superare il presente aumentando la consapevolezza , consolidando i principi della convivenza, costruendo le condizioni materiali e morali per lo sviluppo della civiltà umana.
Chi può essere il promotore di un simile piano? In una fase della nostra vita nella quale la politica delle decisioni (quella delle istituzione e dei partiti) è scandalosamente assente o distratta da altri interessi, e la politica delle esigenze e delle speranze (quella dei comitati, delle associazioni e degli altri gruppi di cittadini attivi) non riesce a costruire una strategia unitaria all’altezza del sistema, forse è dalla nostra storia che ci viene una risposta possibile: dal sindacato dei lavoratori, oggi guidato da Susanna Camusso, quindi dall’esponente di un genere, quello femminile, che oggi è particolarmente sacrificato su tutti i versanti della crisi – come lo era allora la classe del bracciantato agricolo, espresso da Giuseppe Di Vittorio. Ginsborg, P. (1989), Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica, 1943-1988 Torino, Einaudi.
Napoleoni, C. (1980) Elementi di economia politica, Firenze, La Nuova Italia. Salzano, E. (2010), Memorie di un urbanista.
L’Italia che ho vissuto, Venezia, Corte del fòntego. L'icona è lo stralcio di un'mmagine che illustra la partecipazione delle mondine allo sciopero generale nazionale dei lavoratori agricoli del 1949 37 giorni), da una pubblicazione della CGIL.
Tratto dal blog di Laura E. Ruberto
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