di Riccardo Orioles - Fonte: 'U CUNTU
Il politico e il ragazzo rumeno.
Uno vende i voti. L'altro piglia le luparateDa Barcellona Pozzo di Gotto - ridente cittadina tirrenica, ad alto tasso mafioso - sono giunti alle cronache due nomi.
Uno, a modo suo famosissimo, è Domenico Scilipoti, l'ultimo Giuda di quel povero cristo di Di Pietro e anche, indirettamente, di noi tutti.
Pagine e pagine ha avuto, dai giornalisti di palazzo: ha esternato in tv le sue ragioni, ostentando disprezzo per quei trenta denari.L'altro nome è quello di un ragazzo rumeno di vent'anni, tale Petre Ciurar.
Stava in una baracca lungo la ferrovia, con la moglie e un bambino di nove mesi, una di quelle baracche che periodicamente i barcellonesi più attenti alla politica nazionale vanno a incendiare con la benzina.Stavolta niente fiaccole, ma colpi di pistola e lupara: Petre è morto così (era in Italia da un mese: che “sgarro” aveva potuto commettere nel frattempo?), la donna è rimasta lievemente ferita e il piccolo, chissà come, del tutto illeso.
I carabinieri indagano, non escludono mafia, ma più che altro pensano a un atto di “semplice” razzismo.
La notizia è stata data dal corrispondente del giornale locale - non l'ha ripresa nessuno -, il giorno dopo è arrivata la notiziola (più breve) dell'autopsia, e poi non se n'è parlato più.
Tutto questo è successo più o meno negli stessi giorni, e forse a pochi chilometri di distanza, in cui il buon Scilipoti faceva alta politica col governo.
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Ecco, di questo parliamo quando parliamo di questi giorni.
Puoi morire così, a luparate e in silenzio, come un sindacalista anni Cinquanta, se sei un rumeno. Certo, c'è stata violenza quel giorno a Roma.
Vetrine rotte, sassi gettati e altri atti sciocchi. Ma molta di più ce n'è stata, in quei giorni, a Barcellona. Quella contro Ciurar, sottouomo rumeno, senza diritti.
E quella contro di me, cittadino italiano, con diritti, la cui volontà elettorale è stata venduta e comprata da Scilipoti e Berlusconi.
Di questo stiamo parlando quando parliamo di cosa fare.
La violenza è pesante, la violenza dilaga, non son tempi normali. Chi ammazzeranno, il prossimo? Sarà un altro zingaro, o un negro?
Che cosa mi ruberanno, la prossima volta? Già comprano e vendono i voti, già non mi fanno votare.Io i sassi miei a suo tempo li ho gettati (ma ero in compagnia ottima: Peppino Impastato, Rostagno) e ho le idee chiarissime su quando servire possono e quando sono solo uno sfogo. Adesso, con tutto il rispetto, non servivano.
Non credo che ci vogliano gran prediche, neanche fatte da me che pure sono fra i più credibili perché non ho una lira in tasca.
Credo che dobbiamo invece ragionare seriamente su come si sta in piazza nel 2010 - in questa che, per noi bianchi, non è una società repressiva ma una società dell'imbroglio - non per “moderarsi”, per fare i bravi ragazzi, ma proprio per fare danno, per togliere consenso e forza al Berlusconi di adesso e ai berluschini che seguiranno subito dopo.
Hutter, sul blog del Fatto, ha detto delle cose serie. Serie perché dette da Hutter, che non è un fighetto da dibattito ma uno che, ai tempi suoi e miei, ha affrontato i poliziotti cileni di Pinochet.
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Partiamo da un dato semplice: il governo è illegale.
Perché? Perché compra i voti in parlamento. Non è una battaglia politica, quella di questi giorni – e già sarebbe nobilissima, coi ragazzini in piazza a difendere il maestro Manzi, il mio professore di greco, le tabelline insegnate al popolo, l'aritmetica e la grammatica, la Scuola.
E' la disperata difesa del mio Paese, l'Italia, diverso dalla Libia di Gheddafi e dalla Russia di Putin. Per questo, non possiamo commettere errori.
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Fra loro, fra i politici, non è successo niente. “Il governo può continuare”, “ha ragione Marchionne”, “mica vogliamo le elezioni”. Si accorderanno.
Ma noi no, per noi non continua così. Rassegnati, routinati, di nuovo a mordicchiarsi a vicenda: così, per loro politici, è il giorno dopo.
Bersani sotto assedio, i “rottamatori” che rottamano, Veltroni che aleggia e Fini e Montezemolo e Casini: di questo stanno parlando, questo è importante per loro.
Ma per noi no, noi non possiamo affrontare un altr'anno così.
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“O le sassate o Casini”: questo, in estrema sintesi, ciò che ci sbattono in faccia i gattopardi.
Ma noi non vogliamo né sfogarci coi sassi né regalarci a Marchionne sotto le vesti di Fini o Casini. Vogliamo un governo diverso, con una maggioranza reale.
Perché non siamo affatto minoranza, noi, nel paese vero: siamo soltanto divisi. Vogliamo un governo serio, civile, democratico, più forte della Fiat e dei veri padroni.
Non ce lo può dare il centrosinistra, non ne ha la forza da solo. Non ce lo può dare se si allarga a destra – dovrebbe tradirci, prima.
Ce la può fare solo se si allarga sì, ma trasversalmente, saltando sopra gli apparati, unendosi alla società civile.Per questo ci serve una candidatura forte, una candidatura non “politica” ma sociale. Non l'uomo forte”, il salvapopolo (ce n'è già tanti) ma un Pertini.
Non c'è lotta sociale più acuta di quella che conduciamo ogni giorno, noi antimafiosi, contro i poteri mafiosi. Poliziotti e compagni, operai e insegnanti, “moderati” e ribelli, qui e solo qui siamo nello stesso fronte, siamo uniti.Rostagno e Borsellino, La Torre e dalla Chiesa: ma non lo sentite cosa vi dicono, insieme, questi nomi? Perché non partire da qui? Di che avete paura? E' una cosa reale, questa, non n'utopia.
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"Campioni... Campioni del Mondo!"
A Enzo Bearzot
« Palla al centro per Muller. Ferma Scirea. Bergomi. Gentile... evviva! E' finita! Campioni del mondo, Campioni del mondo, Campioni del mondo!!!». Ecco. questa sarebbe la mia Italia, ai tempi di Pertini. «E' finita, è finita... Non c'è niente da fare...».
E questa sarebbe la vostra, ai tempi di Berlusconi. Mi dispiace per voi, sinceramente. Magari non è colpa vostra, ma le cose stanno così, mica Berlusconi me lo sono scelto io.
Noi avevamo Pertini, e voi avete Berlusconi.
Questa è la prima differenza. Noi vincevamo la coppa, e voi perdete col Paraguay. Noi avevamo un'Italia, e voi non ne avete più.
Noi - il giorno dopo la partita - tornavamo in fabbrica a lavorare. Voi se domani volete tornare in fabbrica ve ne dovete andare in Cina, perché oramai le fabbriche le hanno messe lì (al massimo vi fanno fare i cinesi a casa vostra, come a Pomigliano: ma sempre di Cina si tratta).
Noi, dieci minuti dopo la partita, riempivamo di strombazzamenti non solo Milano e Napoli, ma anche Colonia e Zurigo, perché eravamo emigranti e ne eravamo fieri.
Voi, quando vedete un emigrante, vi storcete la faccia e diventate feroci.«Rossi! Scirea! Bergomi! Scirea! Tardelli! Gol! Gol! Tardelli! Raddoppio! Tardelli! Uno splendido gol di Tardelli!
Esultiamo con Pertini! Due a zero, Tardelli ha raddoppiato! »
«Battuti da Nuova Zelanda e Slovacchia... Meglio andare a casa».
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Un'Italia così - come la vostra e quella di Berlusconi - a dire la verità c'era già stata, in Corea due anni prima del sessantotto.
Anche allora, partiti vanagloriosi e pimpanti, fummo sbattuti fuori da una sconosciuta Corea: il giustiziere, quello che ci segnò il gol decisivo, fu un certo Pak Doo It, un odontotecnico che nel tempo libero giocava anche a pallone.
Era tempo di politici ladri e di allenatori cialtroni, di operai senza neanche il diritto di andare a cagare al cesso e di Agnelli che mandava i soldi all'estero.
Ma poi arrivò il sessantotto.
Dieci anni di (quasi) liberi tutti e, fra l'altro, di grandiosa Italia sui campi del pallone. Il diciannove giugno del '70 - nel pieno di una lotta metalmeccanica - arriva Italia-Germania 4 a 3: Facchetti, Riva, Rivera, il Popolo Italiano.
Che altro, dopo Tolstoi e l'Iliade, che altro dopo questo?
Dieci anni di palla lunga e pedalare, di azzurri operai e rocciosi che vincono, che perdono, che non si arrendono mai. L'Italia-Frrancia di Prodi, molti anni dopo, non è che un ritorno tardivo di questo Bildungsroman italiano; non solo nel pallone.
E ora? Ora so' cazzi vostri, amici miei. Hai voluto la non-Italia? Pedala.
La non-Italia sta nel girone del Paraguay, della Nuova Zelanda e compagnia bella. In Nuova Zelanda, però, non succede che la Nuova Zelanda del Nord se la prenda con la Nuova Zelanda del Sud; e non ci sono più cannibali, e non ci sono mai stati mafiosi.
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"Io ho un concetto etico del giornalismo.
Ritengo infatti che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società.
Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza la criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili. pretende il funzionamento dei servizi sociali. tiene continuamente alrerta le forze dell'ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo.
Se un giornale non è capace di questo, si fa carico anche di vite umane. Persone uccise in sparatorie che si sarebbero potute evitare se la pubblica verità avesse ricacciato indietro i criminali: ragazzi stroncati da overdose di droga che non sarebbe mai arrivata nelle loro mani se la pubblica verità avesse denunciato l'infame mercato, ammalati che non sarebbero periti se la pubblica verità avesse reso più tempestivo il loro ricovero.
Un giornalista incapace - per vigliaccheria o calcolo - della verità si porta sulla coscienza tutti i dolori umani che avrebbe potuto evitare, e le sofferenze. le sopraffazioni. le corruzioni, le violenze che non è stato capace di combattere. Il suo stesso fallimento!Ecco lo spirito politico del Giornale del Sud è questo! La verità!
Dove c'è verità, si può realizzare giustizia e difendere la libertà!
Se l'Europa degli anni trenta-quaranta non avesse avuto paura di affrontare Hitler fin dalla prima sfida di violenza, non ci. sarebbe stata la strage della seconda guerra mondiale, decine di milioni di uomini non sarebbero caduti per riconquistare una libertà che altri, prima di loro, avevano ceduto per vigliaccheria.
E' una regola morale che si applica alla vita dei popoli e a quella degli individui.
A coloro che stavano intanati, senza il coraggio d. impedire la sopraffazione e la. violenza, qualcuno disse: "Il giorno in cui toccherà a voi non riuscirete più a fuggire, nè la vostra voce sarà così alta che qualcuno possa venire a salvarvi!".
Giuseppe Fava, Lo spirito di un giornale, 11 ottobre 1981
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"A che serve vivere, se non c'è il coraggio di lottare?" (Giuseppe Fava)
"A che serve vivere, se non c'è il coraggio di lottare?" (Giuseppe Fava)
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