Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

mercoledì 26 gennaio 2011

PER UNA CRITICA DEL “LIBEROSCAMBISMO” DI SINISTRA.


di Emiliano Brancaccio Fonte: emilianobrancaccio.
La straordinaria prova di resistenza degli operai FIAT va sostenuta con iniziative politiche.
Occorre incunearsi nello scontro interno agli assetti del capitale, tra liberoscambisti e protezionisti. Se non si mette in discussione l’indiscriminata apertura globale dei mercati, se non si pongono argini alle fughe di capitale e alle delocalizzazioni industriali, la “guerra
mondiale tra lavoratori” proseguirà indisturbata e ben difficilmente verranno a crearsi le condizioni per un rilancio del movimento operaio, nazionale e internazionale.
Le straordinarie prove di resistenza operaia in occasione dei referendum di Pomigliano e di Mirafiori hanno determinato una inattesa battuta d’arresto per Marchionne e per coloro i quali stanno scommettendo sulla cancellazione definitiva degli ultimi scampoli di movimento operaio esistenti nel nostro paese. Per il futuro tuttavia non c’è da illudersi.
Nel tempo della crisi e in condizioni di piena apertura dei mercati e di libera circolazione dei capitali, le pressioni sui lavoratori sono destinate ad aumentare. Pensare quindi di respingere gli attacchi prossimi venturi affidandosi ancora una volta al solo coraggio operaio e alle connesse
iniziative sindacali, è del tutto illusorio.
Il punto da comprendere è che più intensamente di altri fattori la globalizzazione dei
mercati sta abbattendo la forza rivendicativa, politica e sindacale, dei lavoratori. Numerosi
studi del Fondo Monetario Internazionale, dell’OCSE, della Commissione Europea, segnalano
da tempo l’esistenza di una correlazione tra l’apertura dei vari paesi ai movimenti
internazionali di capitali, di merci e in parte anche di persone, e il corrispondente declino
degli indici di protezione dei lavoratori, della quota salari sul reddito nazionale e dei livelli di
protezione sociale.
I dati segnalano che la globalizzazione dei mercati indebolisce i lavoratori
in tutte le fasi del ciclo capitalistico, sia nel boom che nella recessione. Tuttavia, quando si
attraversa una crisi, la piena apertura dei mercati può condurre a una vera capitolazione delle
rappresentanze del lavoro e a un conseguente, precipitoso declino delle tutele normative e
sindacali e della quota di prodotto sociale destinato ai lavoratori.
Queste statistiche non fanno che confermare quel che già si evince dalla cronaca
quotidiana. Il caso FIAT è emblematico in tal senso. In tutti questi mesi Marchionne ha
insistito sul fatto che può ottenere a Detroit o in Serbia un valore del prodotto per ora di
lavoro decisamente maggiore rispetto ai più modesti rendimenti degli impianti di Pomigliano
o di Mirafiori (il differenziale, si badi, è reale: esso non dipende dal grado di utilizzo della
capacità ma al contrario lo determina). Per questo motivo egli si è detto pronto a spostare le
unità produttive all’estero a meno che in Italia non si affermi un nuovo modello di relazioni
industriali, fondato sul recesso dai contratti nazionali, sulla eliminazione delle ultime sacche
di resistenza sindacale e sulla conseguente possibilità di imprimere un’accelerazione al
prodotto per unità di lavoro. Naturalmente Marchionne non è il solo ad adottare questa
strategia. La minaccia continua delle delocalizzazioni è un elemento costitutivo dell’attuale
regime di accumulazione del capitale. Essa non a caso scuote le relazioni industriali in
moltissimi paesi. La libertà di spostamento dei capitali oltretutto non agisce solo sui salari
diretti o sulle condizioni di lavoro, ma anche sul welfare. Basti pensare agli effetti
dell’apertura dei mercati sulla concorrenza fiscale tra paesi, e sulla conseguente crisi di
finanziamento dello stato sociale. Questo tipo di concorrenza non viene praticata dai soli
paradisi fiscali. Molti paesi ricchi la sostengono apertamente: per evitare le fughe di capitale
all’estero si elargiscono sussidi alle imprese e sgravi ai possessori di ingenti ricchezze, e si
recupera poi tramite i consueti tagli agli investimenti pubblici e alla spesa sociale.
I dati ci dicono insomma che siamo al cospetto di un dumping salariale e fiscale senza
limiti, che da tempo alimenta una guerra mondiale tra lavoratori e che ha trovato nella crisi
uno spaventoso fattore di accelerazione. E’ bene chiarire che si tratta di un dumping
trasversale, che mette in competizione gli stessi paesi avanzati tra loro e che non può essere
sintetizzato nella sola corsa al ribasso tra lavoratori dei paesi ricchi e lavoratori dei paesi
poveri. Il caso tedesco è in questo senso emblematico. La minaccia di trasferire interi
spezzoni di produzione all’estero ha contribuito a rendere la Germania un motore del dumping
salariale europeo, con un divario tra produttività del lavoro e retribuzioni tra i più alti del
mondo. Ma anche dagli Stati Uniti emergono oggi chiari segnali di compressione salariale e di
eliminazione delle già risibili tutele del lavoro esistenti. Basti ricordare che i sussidi del
governo federale americano e l’abbattimento del costo del lavoro in Chrysler hanno
fortemente contribuito allo spostamento dell’asse strategico di FIAT verso gli Stati Uniti.
Tutto ciò sta ad indicare che il dumping salariale e fiscale può partire anche dai paesi più
avanzati del mondo.
Di fronte a tali evidenze è curioso che soltanto il movimento di Seattle, pur tra mille
contraddizioni e ingenuità, si sia posto in questi anni il problema di trarre un abbozzo di
critica della globalizzazione. Al contrario tra gli eredi della tradizione del movimento operaio
sembra prevalere da tempo una sorta di liberoscambismo acritico, talvolta addirittura
apologetico. Dopo il crollo dell’URSS questa posizione ha caratterizzato in Europa soprattutto
i socialisti, ma ha pure interessato frange della sinistra alternativa, delle aree di movimento e
degli stessi partiti comunisti (in Italia la svolta liberoscambista avvenne anche prima,
probabilmente in concomitanza con le conclusioni di Napolitano al convegno sul
protezionismo ospitato nel 1976 da Rinascita). Le cause di questa sudditanza verso il dogma
liberista della totale apertura dei mercati sono tante, di ordine sia teorico che pratico: da una
lettura ingenua del Marx del 1848 alla incapacità di sottrarsi a un compromesso sempre più al
ribasso con quel capitalismo finanziario che in questi anni ha più tenacemente sostenuto il
paradigma del libero scambio. Non ho qui lo spazio per approfondire le determinanti di un
simile orientamento. Mi limito a evidenziarne le conseguenze: oggigiorno troviamo esponenti
della sinistra, persino della sinistra cosiddetta “radicale”, che in maniera ormai istintiva, preanalitica,
etichettano il protezionismo e persino il controllo dei movimenti di capitale come
politiche “nazionaliste”, “reazionarie” e “di destra”. Questi “comunisti liberoscambisti”, come
talvolta provocatoriamente li ho definiti, alimentano un equivoco colossale che stiamo
pagando carissimo, poiché esso ci sta impedendo di delineare un autonomo punto di vista del
lavoro nello scontro interno agli assetti del capitale, tra fautori del protezionismo e difensori
del libero scambio. Eppure si tratta di uno scontro che è pienamente in corso e che sta
cambiando i meccanismi dell’accumulazione capitalistica, come dimostrano i numeri: uno
studio della Commissione Europea ha contato ben 332 nuove misure protezionistiche
intraprese negli ultimi due anni un po’ in tutto il mondo tranne che in Europa, guarda caso!
Questo conflitto durerà a lungo ed è destinato a mutare gli assetti della divisione
internazionale del lavoro. Di ciò si sono accorti un po’ tutti: i movimenti neo-nazionalisti, così
come le leghe. Al contrario i socialisti e i comunisti, e più in generale gli eredi delle
tradizionali rappresentanze politiche e sindacali del lavoro, appaiono su questo tema silenti,
estraniati dal dibattito. Basti notare, a questo riguardo, che mentre le destre prosperano da
anni sulla spregiudicata disponibilità ad “arrestare gli immigrati”, mai nessuna voce a sinistra
si è levata per proporre di “arrestare i capitali”, vale a dire per riprendere e aggiornare la
politica di controllo dei movimenti internazionali di capitale largamente praticata nel corso
del Novecento. Ma è forse ancora una volta la vicenda FIAT che appare più sintomatica della
crisi delle sinistre al cospetto della globalizzazione. Alcuni intellettuali e politici hanno
etichettato Marchionne come “cattivo manager”, che investe poco e punta solo ad abbattere il
costo del lavoro. C’è del vero in queste accuse, ma bisogna rendersi conto che esse risultano
del tutto insufficienti e per molti versi superficiali. In un certo senso potremmo considerarle
simmetriche all’affrettato elogio del “capitalista buono” che gli veniva rivolto non moltissimo
tempo fa. La verità è che Marchionne non è né buono né cattivo: egli è solo una equazione, è
una mera funzione del meccanismo di riproduzione del capitale. Finché gli sarà concesso, egli
minaccerà sempre di effettuare investimenti lì dove le opportunità di sfruttamento del lavoro e
i relativi profitti sono maggiori. Anzi, data la storica posizione di debolezza della FIAT nel
risiko in atto da tempo all’interno del settore automobilistico, non c’è da meravigliarsi se la
strategia di Marchionne sia così rozza e si scarichi in modo così brutale sulle condizioni dei
lavoratori.
Il problema quindi non può risolversi semplicemente giudicando il manager, ma va
posto in termini politici. Nel luglio 2010, quando Marchionne ha fatto della minaccia di
delocalizzazione la sua arma “di ultima istanza” nel confronto che si accingeva ad aprire con
il sindacato, Berlusconi lo ha repentinamente appoggiato sostenendo che «in una libera
economia e in un libero Stato, un gruppo industriale è libero di collocare dove è più
conveniente la propria produzione». E in prossimità del referendum di Mirafiori, Berlusconi
ha aggiunto che se Marchionne non avesse ottenuto dai lavoratori la flessibilità che chiedeva,
la FIAT avrebbe fatto bene a spostarsi in altri paesi. Ebbene, è sintomatico di una profonda
debolezza strategica che in tanti abbiano manifestato indignazione e sconcerto per le parole
del Premier ma nessuna forza politica abbia indicato una chiara alternativa alla sua netta presa
di posizione. Nessuno, per esempio, ha affermato che “un gruppo industriale NON deve più
esser lasciato libero di collocare dove è più conveniente la propria produzione”.
Tra l’altro, la questione dell’apertura dei mercati non attiene solo ai movimenti di
capitale fisico e alla connessa localizzazione degli impianti industriali. Il problema è di ordine
generale, e quindi riguarda tutti i tipi di movimenti di capitale, a partire da quelli finanziari.
Questi, come è noto, hanno prodotto in varie circostanze veri e propri stravolgimenti nei
rapporti di forza interni ai paesi che li subivano. L’Italia, in particolare, è stata più volte
bersaglio delle fughe di capitale e in futuro rischia di esserlo nuovamente. Mi permetto a
questo proposito di rivolgere una sommessa domanda a Bersani, Vendola, Diliberto, Ferrero,
Camusso, Landini, e agli altri leader eredi più o meno diretti della tradizione del movimento
operaio: se nei prossimi mesi dovesse partire un attacco speculativo contro i titoli italiani,
quale sarebbe la proposta politica delle forze di sinistra? Si adeguerebbero alla prassi finora
prevalente in Europa, basata su strette di bilancio, abbattimento ulteriore dei salari e dei diritti
e massicce privatizzazioni in cambio di liquidità a breve? Accetterebbero in altri termini di
subire passivamente gli effetti di una versione ancor più feroce della crisi valutaria del 1992?
O sarebbero piuttosto in grado di evidenziare che l’assetto rigidamente liberoscambista della
Unione monetaria europea è palesemente insostenibile, e che dunque non si può restare al suo
interno senza un profondo mutamento del medesimo? Spero che a questo interrogativo non si
debba mai rispondere. Ma semmai venisse il tempo, sarebbe bene non trovarsi impreparati.
E’ possibile individuare una proposta che consenta di elaborare un autonomo punto di
vista del lavoro nello scontro interno agli assetti del capitale, tra liberoscambisti e
protezionisti? E’ ancora possibile colmare l’enorme ritardo delle sinistre di fronte alla
possibilità di incunearsi nella crisi dei rapporti intercapitalistici globali? La Storia ci insegna
che varie opzioni sono state praticate in passato e possono essere in ogni momento riprese,
aggiornate e sviluppate nella direzione di una esplicita tutela degli interessi del lavoro: si
possono elevare argini contro le fughe speculative di capitale e le delocalizzazioni industriali
e si possono vincolare i movimenti internazionali di capitali e di merci al fatto che i vari paesi
rispettino un comune “standard del lavoro”. Ma prima di approfondire le questioni tecniche
occorre che maturi una consapevolezza politica: se non si sottopone a critica il
“liberoscambismo di sinistra” di questi anni, se non si mette in discussione l’indiscriminata
apertura globale dei mercati, la “guerra mondiale tra lavoratori” proseguirà indisturbata e ben
difficilmente verranno a crearsi le condizioni per un rilancio del movimento operaio,
nazionale e internazionale.

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