di Alberto Burgio (Il Fatto quotidiano del 25/01/2011)
Sul referendum di Marchionne si possono dire molte cose. Il diktat del Lingotto è anticostituzionale perché conculca il diritto (individuale e indisponibile) di sciopero, il diritto a una retribuzione equa e sufficiente, quello al riposo settimanale (se vuole, la Fiat può obbligare gli operai a lavorare per quattro mesi senza un giorno di sosta) nonché il diritto delle lavoratrici a tempi di lavoro compatibili con le esigenze della famiglia. Si scrive la parola fine alla contrattazione e al sindacato autonomo dall’impresa.
Quanto a democrazia, è stato un bel giochetto chiamare impiegati e capi (che il cosiddetto accordo di Mirafiori non penalizza) a decidere per gli operai. È davvero sorprendente che Michele Ainis (sul Sole-24 Ore di martedì) metta il referendum imposto dalla Fiat nello stesso mazzo di quelli sull’acqua pubblica e contro il nucleare e il legittimo impedimento per leggervi una «domanda di democrazia». In realtà si è trattato di un ricatto.
Dissentire implicava il rischio di perdere tutto, dalla rappresentanza ai diritti conquistati nella condizione di lavoro. Si capisce che Marchionne racconti che i sì hanno prevalso perché «il progetto della Fiat ha convinto», ma la sua è una battuta di spirito. Qui però interessa un’altra questione: che cosa può avere indotto il Pd (che dovrebbe cercare il proprio consenso tra chi vive di salario e di stipendio) a sostenere le scelte di Marchionne? Vent’anni fa i gruppi dirigenti post-comunisti abbandonarono l’idea (allora maggioritaria nel movimento operaio) che la società si riproduca in forza del conflitto tra il capitale e il lavoro.
E fecero propria la cultura concertativa, propria della tradizione cattolica. Con ogni probabilità ciò avvenne perché tra il 1989 e il ’91 la lotta della classe operaia parve subire una sconfitta tombale. La rivoluzione neoliberista di Reagan e Thatcher era riuscita a consacrare la tesi secondo cui non c’è niente di più moderno che fare della società un ridotto del mercato.
Ebbe quindi la meglio quell’«ansia di non perdere il treno della Storia» che Hannah Arendt scorge alla base del conformismo e della rinuncia a giudicare criticamente. Ma da allora molta acqua è passata sotto i ponti. Ci si dovrebbe finalmente domandare se le «innovazioni» introdotte (le privatizzazioni, la precarietà del lavoro, la fine dell’intervento pubblico) abbiano prodotto i risultati attesi.
Chiedersi se il lavoro dipendente stia meglio o peggio in termini di retribuzioni, tutele e prospettive di vita. Chiedersi in particolare in che misura i lavoratori italiani si siano giovati della polarizzazione sociale per cui – restando al Lingotto – Marchionne guadagna quanto 450 operai e uno stipendio venti volte superiore a quello dell’ingegner Valletta.
Perché ce lo si deve chiedere? Perché serve a chiarirsi le idee intorno all’altro motivo che può aver spinto i dirigenti del Pd (salvo rarissime eccezioni) tra le braccia dell’a.d. della Fiat. È possibile che abbandonare l’idea e la pratica del conflitto di lavoro sia parso conveniente per conquistare il governo del Paese, un traguardo sempre sfuggito al Pci a dispetto delle sue ragguardevoli dimensioni.
Ma se non da palazzo Chigi, il Pci governava comunque dall’opposizione. Lo Statuto dei lavoratori è un simbolo di questa influenza, riconosciuta anche da chi parla criticamente di «consociativismo». Al contrario, negli ultimi quindici anni il centrosinistra ha guidato il Paese per due legislature su quattro, ma che prezzo ha imposto al Paese la rinuncia alla difesa intransigente del lavoro dipendente?
E che consistenza ha il consenso ottenuto dal Pd e dai partiti che gli hanno dato vita? Ancora nell’87 il Pci valeva da solo il 26,6% dei voti, più di quanto prenderebbe oggi il Pd. Il quale, nato appena tre anni fa dalle ceneri dei due maggiori partiti della Prima repubblica, ha già perso circa un terzo della propria forza elettorale, a vantaggio di una destra sempre più forte e aggressiva. Non è improbabile che questa inarrestabile emorragia di consensi abbia qualcosa a che vedere con l’«equidistanza» dal lavoro e dall’impresa praticata dal gruppo dirigente democratico (oltre che con la comprovata propensione a non disturbare lo specialista in bunga-bunga).
Chi vuole davvero che il Paese cambi rotta dovrebbe meditare sulle due lezioni di Mirafiori. La prima ricorda che le tute blu esistono ancora, con buona pace dei teorici del post-industriale che ci affliggono da trent’anni. La seconda lezione riguarda il valore simbolico delle lotte operaie. Se è vero che in esse risuonano la rabbia e la frustrazione di tutto il mondo del lavoro, non basta deprecare la scelta del Pd di schierarsi dalla parte della Fiat.
Bisogna porvi rimedio, fornendo alle lotte del lavoro il sostegno politico che oggi ancora manca.
I lavoratori di questo Paese devono poter contare su un efficace scudo politico quando i loro diritti e la loro stessa dignità sono sotto attacco.
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