di Claudio Grassi Editoriale del n. 15 della rivista “su la testa”.
Dall’inizio dei bombardamenti sulla Libia oramai si contano le settimane, non più i giorni. Tra poco, senza accorgercene, conteremo i mesi e, come abbiamo fatto già troppe volte in questi anni (dalla Jugoslavia all’Afghanistan all’Iraq), ci troveremo a discutere della guerra come di una dimensione ordinaria, di un dato acquisito, di una condizione di normalità che convive con le nostre vite quotidiane. Esattamente l’opposto di ciò che ci spingeva a fare Vittorio Arrigoni, un compagno che non solo lottava strenuamente per la pace, fino ad avere sacrificato per questo la sua stessa vita, ma che pensava che lottare per la pace e lottare per la verità fossero le due facce della stessa medaglia. La guerra rappresenta infatti in sé la rottura drammatica e traumatica della ragione e della civiltà e dovrebbe per questo sempre produrre la rivolta e la mobilitazione costante delle nostre coscienze. Dovrebbe quantomeno indurci a riflettere, a capire perché oggi la guerra alla Libia e quali sono le vere motivazioni nascoste dalla propaganda. Scopriremmo che la Libia fa gola alle grandi potenze del mondo non solo perché è collocata al centro di un’area geografica decisiva, il Mediterraneo, ma anche perché detiene enormi riserve di gas e petrolio più vicine e quindi più facilmente trasportabili in Europa. Riserve determinanti anche per gli Usa, per i quali si prevede che entro il 2015 il 25% delle importazioni di petrolio provenga da fonti africane (e la Libia, lo sappiamo è il maggiore produttore di petrolio in Africa). Scopriremmo cioè che le ragioni reali che hanno spinto le potenze occidentali alla guerra sono economiche e strategiche e hanno molto a che fare con l’intenzione di mettere le mani su quel rubinetto energetico da cui dipende in gran parte l’Europa e la stessa Cina (la cui incursione commerciale in Africa in atto da tempo va fermata con ogni mezzo) e di ridisegnare gli equilibri di un’area in cui la presa della potenza nordamericana si è radicalmente indebolita negli ultimi anni. Scopriremmo, infine, che per meglio salvaguardare questi interessi Gheddafi non è più un interlocutore affidabile. Quel Gheddafi con cui si sono stipulati negli ultimi anni accordi di spartizione del bottino ma che da un paio d’anni minacciava di razionalizzare le attività petrolifere straniere. Si pensi al nostro Paese e al vergognoso accordo che dal 2008 ha consentito di creare in Libia veri e propri campi di concentramento per bloccare i migranti e di costituire in terra libica una zona franca per le imprese italiane. Ma il clima è cambiato, le grandi potenze ordinano (con l’avallo illegittimo delle Nazioni Unite) e l’Italia, come sempre, obbedisce, mostrando di credere alle menzogne della propaganda di guerra (dalle fosse comuni ai bombardamenti del regime sui civili al genocidio), tese a creare nell’opinione pubblica un consenso verso un’operazione che con sconfinata ipocrisia si è ancora una volta voluta definire umanitaria. E quindi il nostro Paese va alla guerra mostrandosi preoccupato soltanto per l’afflusso inevitabile dei migranti sulle nostre coste. Da qui lo spettacolo indecente dei ministri leghisti che con la bava alla bocca chiedono espulsioni, rimpatri immediati e forzati, ordine, disciplina e sicurezza, senza alcuna umanità e al di fuori di qualsiasi logica giuridica che imporrebbe al contrario di assegnare a questi disperati lo status di rifugiati politici. D’altra parte la cultura politica del governo è questa: lo avevamo già visto molte altre volte nel recente passato, a partire dai pacchetti sicurezza e dalla legislazione anti-rom degli anni scorsi. Una cultura fatta di ignoranza, intolleranza, razzismo e xenofobia e che anche sul terreno economico e sociale non si è discostata dalle drammatiche previsioni che tutti noi avevamo formulato. Ma oltre e ciò non possiamo non registrare l’inadeguatezza dell’opposizione parlamentare che, addirittura, non sapendo che cosa proporre in alternativa alle politiche del governo non raramente vi si adegua e le appoggia, come nel caso dell’Italia dei valori e del Partito Democratico che hanno avallato il federalismo fiscale e la guerra. D’altronde Massimo D’Alema, presidente del Consiglio all’epoca della guerra in Jugoslavia, si è prodigato nei giorni scorsi nello spiegare che la guerra è «giusta e inevitabile» e che il Partito Democratico è nato proprio per dar vita ad una «forza di governo credibile e responsabile», soprattutto nei confronti della Nato. Per fortuna un’altra opposizione nel nostro Paese in questi mesi c’è stata. Si è trattato di una opposizione sociale, popolare, a cui le forze politiche della sinistra hanno cercato di dare il proprio sostegno e il proprio contributo, pur con i limiti strutturali che esse scontano. Un’altra Italia ha fatto sentire la propria voce, riempiendo le piazze e fermando le fabbriche, come in occasione delle mobilitazioni promosse dai metalmeccanici e in particolar modo dalla Fiom-Cgil negli scorsi mesi, da Pomigliano a Mirafiori, alla lotta in tutto il Paese per la difesa del contratto nazionale. Riempiendo le piazze e fermando le scuole e le Università, per reclamare un modello di cultura, di formazione e di conoscenza radicalmente alternativo a quello del ministro Gelmini e ai suoi propositi di aziendalizzazione e privatizzazione del sapere e per esprimere, allo stesso tempo, la critica strutturale di una intera generazione non più disponibile a vivere nella precarietà e nella incertezza. Riempiendo le piazze, ancora, con la rivendicazione straordinaria di dignità delle donne e in particolare di un nuovo movimento femminista che si è animato certamente sulla spinta delle vicende giudiziarie del presidente del Consiglio ma che ha ragioni molto più profonde e che attengono anche in questo caso alla intollerabilità del modello mercificato e sottomesso di donna propagandato dalla cultura (televisiva e clericale) dominante. Un’altra Italia che, nel piccolo, si è mostrata anche a Lampedusa, proprio dove il governo ha messo in scena la propria farsa sulla pelle di centinaia e centinaia di migranti: tantissimi giovani, donne e uomini hanno da subito aiutato, prestato assistenza e messo a disposizione la propria generosità e la propria solidarietà a chi semplicemente ne aveva bisogno. Com’è evidente, però, tutto questo non è sufficiente, perché è urgente ricostruire una connessione stabile tra la società, le forze migliori e i movimenti che rompono l’assordante silenzio della indifferenza quotidiana e della solitudine drammatica dei corpi sociali, e la politica affinché queste stesse forze e queste stesse istanze possano ricongiungersi e organizzarsi dentro un progetto organico di trasformazione della società. Abbiamo davanti a noi molta strada da percorrere e non soltanto perché abbiamo da giocare e vincere partite decisive nell’immediato futuro. Innanzitutto il 6 maggio e cioè lo sciopero generale finalmente convocato dalla Cgil: un appuntamento decisivo perché potrà finalmente mettere a valore in un’unica giornata la forza di tutta l’opposizione sociale e canalizzarla con una piattaforma molto chiara contro le politiche del governo e l’azione di Confindustria. In secondo luogo le elezioni amministrative, dalle quali tutti noi auspichiamo che emerga una inversione di tendenza, sia in un’ottica generale (un consistente arretramento delle destre avrebbe senz’altro contraccolpi sulla tenuta del governo) sia nell’ottica più particolare che riguarda Rifondazione comunista e la Federazione della sinistra. Da questo punto di vista possiamo dire che pur tra tante difficoltà, che non nascondiamo, le alleanze che abbiamo compiuto in larga parte dei Comuni e delle Province interessate al voto sono state dettate da percorsi politici condivisibili e che mettono in evidenza la nostra propensione unitaria, ma anche, quando necessario, la nostra autonomia rispetto alle forze del centro sinistra. Purtroppo siamo rimasti spesso soli in queste scelte perché Sinistra Ecologia Libertà, alla quale abbiamo proposto liste unitarie della sinistra per fare valere di più e più compattamente le ragioni dei lavoratori e delle classi più deboli, non solo lo ha quasi ovunque rifiutato ma si è quasi ovunque collocata organicamente all’interno di coalizioni di centro sinistra. Anche in quelle realtà, grandi e politicamente rilevanti, come Torino e Napoli, nelle quali schierarsi con i candidati moderati del centro sinistra ha significato scegliere ragioni e interessi sociali molto diversi dagli stessi programmi di SEL. Infine, vi è l’appuntamento con i referendum sull’acqua pubblica, sul nucleare e sul legittimo impedimento. Uno snodo centrale per la democrazia nel nostro Paese e un’occasione che dobbiamo in tutti i modi essere in grado di cogliere, provando a non deludere la straordinaria vitalità con cui i comitati promotori (innanzitutto quello sull’acqua pubblica) hanno animato in queste settimane, anche attraverso la grande manifestazione nazionale dello scorso 26 marzo, il dibattito pubblico. Ma questi appuntamenti (sciopero generale, elezioni amministrative, referendum) sono soltanto le scadenze a noi più prossime. Serve una strategia e una linea politica di medio termine che non sia limitata alla pure decisiva azione dei prossimi due mesi. La articolerei su due obiettivi. Il primo è quello di ricostruire in Italia, proprio partendo dalla condivisione delle lotte e dalle ragioni dei movimenti di questi mesi, un campo della sinistra di alternativa credibile e quindi capace di intercettare un consenso elettorale non minoritario. Per fare questo bisogna superare le reciproche ostilità, che tanti danni hanno purtroppo prodotto nel recente passato, e lavorare insieme rispettando le idealità e identità di ciascuno. A partire però da un assunto di fondo: e cioè che lo spazio per la sinistra alternativa è, per definizione, al di fuori del Partito Democratico. Non in contrapposizione al Pd (la contrapposizione è sempre con l’avversario, cioè le destre), ma in autonomia da esso. Penso che i fatti politici dei prossimi mesi potrebbero aiutare in questa direzione, perché le elezioni politiche anticipate e le primarie (su cui SeL ha investito tutto) si allontanano, potenzialmente facilitando una relazione paritetica, se non nelle dimensioni e nei consensi sicuramente negli obiettivi e negli atteggiamenti reciproci. La Federazione della Sinistra è il primo embrione di questa sinistra di alternativa ma non è – com’è evidente – sufficiente e lo è ancora meno quando nasce e si sviluppa senza la necessaria collegialità e senza il necessario coinvolgimento di tutti, a qualunque livello. Per questo motivo dobbiamo continuare a lavorare per rafforzare la Fds, per radicarla nei territori e per correggere i vizi e gli errori che sino a qui sono stati compiuti. Il secondo obiettivo può vivere dentro l’obiettivo strategico della costruzione della sinistra di alternativa: è l’unità, attraverso un percorso unanimente condiviso e concordato, tra Prc e Pdci, e cioè tra due partiti comunisti che già sono incamminati da tempo in un percorso di convergenza all’interno della Federazione della Sinistra. Non l’unità ideologica tra tutti i comunisti e nemmeno l’unità ideologica tra i presunti depositari dell’ortodossia comunista (un’operazione che nascerebbe già morta, priva dello spazio politico necessario e della prospettiva egemonica e di massa indispensabile), ma la riunificazione di due partiti che, operando assieme praticamente su tutto e presentandosi alle elezioni con lo stesso simbolo ormai da due anni, non hanno più motivo di rimanere divisi. Se questi due processi si completassero e definissero, superando le resistenze dal mio punto di vista assolutamente irrazionali che ancora persistono, sono convinto che ad avvantaggiarsene non sarebbe soltanto il nostro consenso elettorale e sociale ma sarebbero soprattutto i lavoratori, gli studenti, le donne, i migranti e tutti coloro che hanno bisogno di un più grande e forte partito comunista e di una sinistra di alternativa che sappia rappresentarli.
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