di Massimo Florio. Fonte: vecchiatalpa
Ho raccolto in un libro (Privatizzazioni e interesse. Il caso britannico) i risultati della mia analisi critica di quella esperienza. Ho cercato di dimostrare che (a) i cittadini in genere hanno guadagnato poco o nulla dalle privatizzazioni, (b) le fasce di utenti più povere hanno pagato prezzi più alti, (c) i contribuenti ci hanno rimesso perché lo stato ha venduto a prezzi troppo bassi e in vari casi ha perso entrate, (d) la produttività delle imprese non è aumentata significativamente, (e) i maggiori beneficiari sono stati gli azionisti, gli intermediari finanziari, i consulenti (in una parola la City). Mi sono anche occupato di privatizzazioni in Italia, in dieci edizioni del Rapporto sulla Finanza Pubblica e in altri interventi (tra i quali La sinistra e il fascino concreto delle privatizzazioni).
La mia lettura del caso italiano è che le cose qui sono andate anche peggio che in Gran Bretagna. Sia i governi di centro-sinistra che quelli di centro-destra hanno cercato di fare cassa vendendo soprattutto banche, telecomunicazioni, autostrade, aziende del settore dell’energia, anche altro, ma con effetti del tutto irrilevanti o modesti sul piano dell’efficienza e del benessere degli utenti, e invece distribuendo rendite ad ambienti capitalistici più o meno parassitari. Mi sono convinto, soprattutto studiando il caso Telecom Italia (in I ritorni paralleli di Telecom Italia), che la vera origine delle privatizzazioni non sia il liberismo, anche se ovviamente i miti della libera concorrenza hanno avuto un peso nella retorica, ma uno scambio fra rendite politiche e finanziarie.
La tesi che ho sostenuto (in Le privatizzazioni come mito riformista) è che in particolare la sinistra, oltre più ovviamente la destra, abbia cercato di accreditarsi presso i gestori della finanza offrendo loro in pasto delle attività perfette per montarvi operazioni speculative, garantite dalla dinamica nel tempo dei flussi di cassa. Il caso delle autostrade è in questo senso emblematico.
Il rischio imprenditoriale è nullo, la rendita garantita, gli investimenti attuati minimi e neppure rispettati, le tariffe aumentano con e più dell’inflazione, il contribuente continua a farsi carico della spesa per la rete in aree meno ricche e più a rischio (vedi autostrada Salerno-Reggio Calabria e grande viabilità interregionale), mentre un ambiente imprenditoriale come quello dei Benetton e altri sono diventati dei concessionari, con tutto quello che questo implica di rapporti con la politica.
In tutti i settori privatizzati le spese di ricerca e sviluppo sono diminuite, indebolendo il potenziale tecnologico.
Un buon esempio di dove si possa arrivare nello scambio di rendite politiche e finanziarie si ha in Russia, di cui pure mi sono occupato in occasione della crisi finanziaria del 1997 (in Economists, Privatization in Russia, and the Warning of the Washington Consensus). Più recentemente mi sono occupato della dimensione europea delle liberalizzazioni e privatizzazioni (ne L’esperienza delle privatizzazioni), in particolare di elettricità, gas, telefonia, giungendo a queste conclusioni per i quindici stati dell’Unione Europea prima dell’allargamento nel 2004: (a) soprattutto per l’elettricità le privatizzazioni hanno comportato aumenti dei prezzi per i consumatori; (b) la separazione delle reti dalla gestione (vedi Terna, Snam Rete Gas, ecc.) è spesso costosa e senza chiari vantaggi per la concorrenza; (c) l’introduzione della concorrenza peraltro ha mitigato ma non rovesciato in benefici mezzi questi effetti avversi; (d) indagini ufficiali dell’UE, come quelle di Eurobarometro, mostrano che i consumatori si dichiarano più soddisfatti nei paesi che hanno adottato meno le privatizzazioni; (e) dove c’è stata più privatizzazione è aumentato il numero di famiglie in difficoltà nel pagare le bollette.
Verso dove andiamo? Sono convinto, anche osservando l’esperienza degli Stati Uniti, che l’appetito illimitato del capitalismo finanziario, quindi il suo immettere nel gioco sempre nuove scommesse, condurrà alla privatizzazione dello stesso stato sociale, cioè sanità, istruzione, previdenza e persino assistenza; e forse anche di alcune funzioni classiche dello stato come difesa, ordine pubblico e giustizia. In altre parole lo scenario è quello dello “stato minimo”.
Le ragioni di questa tendenza, di nuovo, non hanno molto a che vedere con efficienza e competizione. Non esiste alcuna evidenza empirica che possa sostenere che in generale la gestione privata di ospedali, consultori, asili nido, scuole, università, pensioni, ecc. consenta abbattimenti di costi. Dove li si osserva sono dovuti, in generale, a riduzioni reali di stipendio dei dipendenti o a condizioni di lavoro peggiori, spesso con abbassamento conseguente della qualità delle prestazioni, oppure al ricorso a personale immigrato.
Ovviamente, nel settore pubblico, ad esempio nelle università, si annidano aree anche ampie di parassitismo sociale: ma sarebbe molto meno costoso, e quindi più produttivo, motivare i dirigenti e sensibilizzare gli utenti dei servizi pubblici, eliminando così questa patologia attraverso un maggiore controllo democratico e un management di qualità. Viceversa, quello che ci attende è una tendenza a creare una “industria” della sanità, dell’educazione, della pensione complementare. Negli USA questi settori sono ben presenti in borsa o in altri circuiti finanziari, spremono alte rendite dagli utenti grazie al fatto che comunque, nonostante le apparenze, operano in mercati non competitivi, e soprattutto costituiscono formidabili lobby in grado di impedire, ad esempio, ad Obama di riformare efficacemente la disastrosa sanità statunitense.
Una volta che si creano gruppi che controllano i flussi di cassa derivanti dal controllo dell’energia, dell’acqua, della sanità, della previdenza, ecc., la stessa democrazia come la abbiamo conosciuta in Europa nella seconda metà del 900 è a rischio. La capacità dei gruppi finanziari che controllano gli ex servizi pubblici di influire sui governi e sulle stesse opposizioni parlamentari diviene così formidabile che, di fatto, diventa impossibile tornare alla gestione pubblica. Semplicemente diventa più facile comprare i governi, i parlamentari, i giornalisti, gli economisti, e il dissenso viene emarginato.
Il vero rischio delle privatizzazioni perciò non è la relativamente piccola perdita di benessere sociale (ma non trascurabile per i gruppi in fondo alla scala sociale), caso per caso, industria per industria, ma il rischio politico-economico per il sistema nel suo insieme. Questo aspetto è stato colto nell'ultimo scritto di Tony Judt, uno storico della New York University, recentemente scomparso. “Come nel diciottesimo secolo”, egli scrive, “così oggi: svuotando lo stato delle sue responsabilità e risorse, ne abbiamo ridimensionato la centralità nella vita pubblica. Ne risultano ‘comunità fortezza’, intese nelle varie accezioni dei termini: settori della società che considerano se stessi fondamentalmente indipendenti dai funzionari pubblici e dal resto della società. Se ci si abitua a trattare unicamente o principalmente con agenzie private, nel tempo la relazione con il settore pubblico perde di cogenza e significato. Non importa che il privato faccia le stesse cose, meglio o peggio, a un costo maggiore o minore. In ogni caso, si finisce per perdere il senso di fedeltà alle istituzioni e di comunanza con gli altri cittadini”.E’ un processo ben descritto da Margaret Thatcher in persona. “La società non esiste affatto”, ella scrive: “esistono solo individui, uomini e donne, e famiglie”. Se non esiste la società, ma solo gli individui e uno stato che agisce da “guardiano notturno” (supervisionando da lontano attività alle quali non prende parte) che cosa ci tiene, e ci terrà, insieme? Abbiamo già accettato la formazione di polizie private, di servizi di posta privati, di agenzie private fornitrici dello stato in tempo di guerra e molto altro ancora. Abbiamo “privatizzato” esattamente quelle responsabilità che lo stato moderno aveva laboriosamente riunito sotto la propria cura nel corso del diciannovesimo e del ventesimo secolo, afferma sempre Judt.La mia lettura di ciò che sta accadendo è quella di un rischio per la coesione sociale e per la qualità della democrazia.
E’ questo l’effetto generale della distruzione del faticoso compromesso raggiunto in Europa dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale fra la tendenza instabile e potenzialmente sempre autodistruttiva del capitalismo e un modo di produzione statale, che, con tutti i suoi limiti, sottrae una parte della società alle febbri speculative. In questo senso, il compromesso “socialdemocratico” europeo, il “modello sociale europeo” e la stessa costruzione dell’UE, nonostante ovviamente non siano un’alternativa al capitalismo, sono l’unica eccezione rimasta in campo al dilagare della finanza globale. Ed è un’eccezione oramai vicina ad essere travolta, anche per la fondamentale incomprensione di buona parte della sinistra europea dei processi in atto (quando non si tratta piuttosto di corruzione più o meno mascherata dei partiti e dei sindacati “riformisti”).Dunque la mia lettura della recente crisi globale (in Antologia della crisi globale) pone la questione della modifica strutturale dei rapporti di forza fra lavoro e capitale al centro della spiegazione di ciò che sta accadendo, e che trova nelle liberalizzazioni e privatizzazioni un elemento costitutivo. Solo una soggettività politica molto determinata potrebbe a questo punto invertire il processo.
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