Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 23 aprile 2011

L’Unione Europea neoliberista nella crisi ovvero vent’anni di attentati borghesi alle classi popolari a un tentativo di round finale.



Di Luigi Vinci. Fonte: controlacrisi

a. Neoliberismo e convenienze borghesi in sede di Unione Europea. Monetarismo e spostamento accelerato di reddito dal basso della scala sociale verso l’alto Guardando all’ormai lunga storia dei Trattati fondativi dell’Unione Europea (quello di Maastricht è il primo e il più noto), si vede da subito come essa sia il risultato di decisioni politiche i cui contenuti economici sono stati e continuano a essere intimamente connessi alle convenienze generali delle grandi realtà imprenditoriali capitalistiche (grandi gruppi transnazionali, grande finanza) e, in caso di conflitti interni a queste convenienze, come ciò avvenga attraverso mediazioni che tendono alla reciproca soddisfazione; inoltre si tratta di contenuti orientati alle richieste di crescita di reddito delle aree alte e medio-alte della borghesia (intesa in senso ampio). Ovviamente questo non esclude che altri ordini di convenienze, di varia natura, possano essere considerati o interferire e portare a mediazioni più complesse: l’essenziale è tuttavia dato dalla dominanza stretta delle convenienze borghesi fondamentali. La mediazione all’origine della costruzione europea (essa inizia nel 1957 con il Trattato di Roma) era più ampia: pur nel quadro della tenuta e della ripresa in Europa occidentale del capitalismo essa comprendeva, attraverso una forma di riformismo della quale erano artefici in solido partiti socialdemocratici e democratico-cristiani, anche obiettivi di miglioramento delle condizioni di esistenza delle classi popolari. Si trattava infatti di impedire che le esperienze socialiste incipienti dell’Europa orientale attraessero le maggioranze proletarie dell’Europa occidentale. Il Trattato neoliberista di Maastricht (1992) ha quindi costituito una svolta radicale nel quadro della costruzione europea. Questo Trattato definisce il complesso delle condizioni di realizzazione e poi di esistenza dell’euro e, con ciò, il passaggio alla più strutturata e politica Unione Europea. C’era una difficoltà notevole nell’opinione pubblica tedesca ad accettare la moneta unica, temendo che fosse a rischio di inflazione. Nacquero così i famosi “parametri” di Maastricht, cioè l’obbligo dei bilanci pubblici di rimanere sotto al 3 per cento di deficit e sotto al 60 di debito (di indebitamento accumulato anno dopo anno) rispetto al PIL. Naturalmente, a larghissima maggioranza, ceti politici di governo, mass-media, economisti ecc. si erano già fatti in quattro nel dimostrare la perfetta razionalità tecnico-economica di quella che in realtà era e sempre più mostrerà di essere una schematizzazione dilettantesca e pericolosa. Contemporaneamente il Trattato di Maastricht risentì nei suoi contenuti di fondo del frangente mondiale e cioè dell’offensiva neoliberista scatenata da Stati Uniti e Gran Bretagna e del suo rapido sfondamento egemonico planetario. Inoltre il crollo del sistema dei paesi europei a “socialismo reale”, Unione Sovietica inclusa, portò le borghesie europee a ritenere di potersi riprendere senza rischio di risposte pericolose da parte dei propri proletariati quanto avevano concesso loro nel dopoguerra. I socialdemocratici ci stavano, i comunisti erano in rotta. La sintesi di politiche restrittive di bilancio, neoliberismo dilagante e desideri borghesi di rivincita sarà quindi l’adesione del Trattato di Maastricht alla variante non solo più ferocemente antisociale del neoliberismo ma più insensata economicamente: quella “monetarista” di Milton Friedman (ovvero della Scuola di Chicago). Di conseguenza l’Unione Europea, e segnatamente la sua parte occidentale, è proceduta economicamente al rallentatore in questi due decenni, non solo rispetto ai grandi sistemi della periferia capitalistica ma anche rispetto agli Stati Uniti: cioè con ritmi e volumi inferiori di investimento rispetto al resto del mondo, ritmi bassi di crescita, fasi di crescita brevi, frequenti e prolungate cadute recessive. L’Italia è tra i paesi che hanno pagato di più, ma sono andati più o meno lentamente tutti i paesi dell’Unione, Germania compresa. Inoltre c’è, ad aggravare questo quadro, che l’Unione Europea mentre norma restrittivamente le politiche di bilancio pubblico rifiuta di avere proprie politiche in sede fiscale, industriale, di formazione e ricerca. Tuttavia il Trattato di Maastricht è riuscito a mostrare una sua straordinaria efficacia dal punto di vista delle convenienze di classe della borghesia e in primo luogo dal punto di vista delle sue molteplici forme di profitto, di rendita e di reddito, in Italia come altrove in Europa. La ragione per cui al suo fallimento economico è congiunta una lunga vita e oggi, addirittura, il richiamo ai suoi contenuti più restrittivi e depressivi si è fatto più cogente che mai, è tutta qui. b. Neoliberismo e convenienze borghesi in sede di Unione Europea. Liberoscambismo e crescita di sfruttamento, profitto e rendita In sede di liberoscambismo l’Unione Europea ha semplicemente sopravanzato il resto del mondo (limitandosi a misure protettive di fatto, cioè con pretesti sanitari, delle proprie produzioni agricole). Ciò ha portato allo smantellamento di interi settori industriali fondamentali quali navalmeccanica e siderurgia. Inoltre ciò ha fatto sì che l’imprenditoria dell’Europa occidentale si scatenasse in delocalizzazioni in Europa centro-orientale come nel resto del mondo, cioè ovunque fossero presenti condizioni di vantaggio (salari bassi, assenza o estrema debolezza delle tutele giuridiche e sindacali dei lavoratori, sfruttamento dei minori, assenza o estrema debolezza delle normative ambientali, spesso mercati in rapida espansione). Sono state consentite dalle istituzioni dell’Unione anche chiusure di imprese e delocalizzazioni delle loro produzioni a imprenditori che avevano ricevuto aiuti di stato o aiuti dall’Unione stessa. Si è trattato, essenzialmente, di risposte capitalistiche alla caduta del saggio del profitto, sul periodo lungo e oscillazioni a parte, nella sua parte occidentale. Infatti mentre i paesi europei occidentali subivano deflazione e depressione il grosso della loro imprenditoria industriale ha avuto una crescita non solo del volume dei profitti ma dei suoi saggi, nonostante la crescita della composizione tecnica del capitale e l’aumento, oscillazioni a parte, dei prezzi delle materie prime. Al tempo stesso tutto questo ha prodotto in questi paesi disoccupazione, ha messo i loro lavoratori in diretta concorrenza con i lavoratori dell’Europa centro-orientale e della periferia capitalistica, dunque ha aperto la strada a un attacco che sarà sempre più pesante alle condizioni salariali, giuridiche e in sede di protezioni sociali dei lavoratori. Va in ultimo constatato come a trarre vantaggio dalla deflazione è la potente City londinese. Quella britannica è l’unica economia europea ad avere una composizione contigua a quella statunitense, cioè dove la componente finanziaria è prevalente e pesantemente egemonica rispetto alla politica. Al tempo stesso, ovviamente, il lato produttivo dell’economia britannica sarà estremamente danneggiato dai crack finanziari del 2008 (le sue banche sono intrecciate a quelle statunitensi) e dalla recessione di un settore immobiliare oggetto di grandi investimenti per ragioni speculative. c. Uso neoliberista della crisi e cioè tentativo borghese di un round definitivo contro le classi popolari L’attacco, ormai frontale in tutta l’Unione Europea, simultaneamente contro diritti e condizioni materiali dei lavoratori e welfare ha trovato nella crisi finanziaria, nella successiva recessione e nella tendenza a una lunga depressione il suo alibi. Oggi l’unica differenza di rilievo tra i vari paesi membri sta nel fatto che Germania, Francia, Gran Bretagna e altri minori (lo stesso Portogallo) stanno tagliando la spesa su vasta scala e però non riguardo a scuola, università, ricerca, elementi strategici dello sviluppo mentre alcuni altri, tra i quali l’Italia, tagliano tutto o quasi tutto. Il Trattato di Lisbona (2007) è un supporto ideologico e giuridico decisivo di quest’attacco: affermando il carattere tutto individuale della totalità dei diritti, quindi di quelli stessi sociali e del lavoro, ovvero operando nel senso della distruzione della natura storica di questi ultimi come diritti al tempo stesso individuali, collettivi e universali. Lo stato viene così a essere ridotto a erogatore di servizi assolutamente minimi, cioè di sopravvivenza, per le quote più povere delle popolazioni, a volte neppure a questo, inoltre alla formazione scolastica di capacità solo funzionali alle domande del mercato del lavoro, per le quote delle popolazioni a basso reddito. Giova far presente come ciò stia portando in tutta la parte occidentale dell’Unione Europea alla demolizione di fatto dell’intero sistema di princìpi e di diritti sociali e dei lavoratori stabilito nelle carte costituzionali, in genere progressive (l’Italia, il cui governo di destra sta tentando la modificazione in senso ultraliberista della sua Costituzione, non è che il paese nel quale questa tendenza si è fatta aperta e organica). Tra i temi in discussione nelle istituzioni esecutive dell’Unione Europea riguardo ai quali vengono via via assunte decisioni che vincolano i paesi membri, in modo cogentissimo quelli che hanno adottato l’euro, ci sono da maggio 2010 i contenuti e le forme istituzionali della “convergenza” tra le politiche di bilancio. Gli obiettivi macroeconomici convenuti sono il rientro non solo sotto al 3 per cento del deficit ma sotto al 60 del debito e, all’uopo, una “governance” europea rafforzata, perché riesca a essere davvero in grado di imporre questi obiettivi; l’obiettivo generale dichiarato è la prevenzione di nuove crisi finanziarie, nuovi attacchi speculativi all’euro, fallimenti di stati in condizioni di bilancio altamente precarie. I dati del giugno 2010 indicano che la media dei deficit dei paesi membri era oltre il 7 per cento del PIL dell’intera UE e la media del debito oltre l’80: non è difficile immaginare come gli obiettivi di rientro comportino, direttamente o indirettamente, tagli micidiali alla spesa sociale, deflazione salariale, dunque, checché si dica, forte contenimento delle possibilità di ripresa delle economie (per una parte delle quali, perciò, depressione prolungata, per altre, addirittura recessione prolungata). Anzi, poiché queste situazioni comportano bassi livelli delle entrate fiscali, la futura realtà europea sarà nella sua globalità, con molta probabilità, di una lunghissima depressione (in analogia alla realtà da trent’anni del Giappone e a ciò che accadde all’intero centro capitalistico dopo la crisi del 1929). d. Il recupero del debito pubblico e una svolta semiautoritaria su scala europea come strumenti decisivi dell’attacco alle classi popolari Le linee operative, definite a partire dal giugno 2010 dal Consiglio Europeo, sono le seguenti: realizzazione da parte dei paesi membri di sostanziose “riforme strutturali” della spesa pubblica, cioè la stabilizzazione a livelli più ridotti del complesso della spesa sociale (di quella in pensioni in particolare); realizzazione, soprattutto grazie a queste “riforme”, di rientri in due-tre anni, a partire dal 2015, dei bilanci al di sotto del 3 per cento di deficit e di rientri al di sotto del 60 del debito al ritmo di un ventesimo l’anno della porzione costituita dalla media del suo ammontare negli ultimi tre anni meno il 60 per cento (per quanto riguarda l’Italia si tratterà, grosso modo, essendo adesso il suo debito al 120 per cento del PIL, di rientri nei primi anni, poi a calare, del 3 per cento l’anno del PIL, quindi di circa 50 miliardi di euro l’anno). Ancora, perché tutto questo venga effettivamente praticato (cioè si possano obbligare i governi a praticarlo anche dinanzi a reazioni sindacali, mobilitazioni popolari, prospettive di essere sconfitti alle elezioni), assegnazione alla Commissione Europea del potere di coordinare e anche di determinare le politiche di bilancio, esprimendo direttive sulle misure che andrebbero prese in questa o quella materia ed eventualmente anche operando interventi preventivi o correttivi sulla struttura delle leggi di bilancio portate alla discussione dei parlamenti; assegnazione inoltre ai vari governi del potere di sorveglianza rispetto alle politiche di bilancio degli altri governi. Infine sono previste sanzioni, assai pesanti, ai paesi “indisciplinati”. Questi orientamenti significano dunque l’estinzione mascherata della democrazia parlamentare quantomeno nei diciassette paesi dell’Unione Europea che hanno adottato l’euro. Sono orientamenti infatti che espropriano questi paesi del potere di definizione della più importante legge di ogni stato: appunto quella di bilancio. Da parte dei governi tedeschi e francesi è in corso inoltre il tentativo di un loro direttorio di fatto sull’Unione: ciò che porterebbe a un’ulteriore lesione delle condizioni di democrazia. La discussione sull’entità annua del rientro del debito pubblico non è tuttavia conclusa in seno al Consiglio Europeo. Da parte italiana si è chiesto di riferirne gli obiettivi non solo alla dimensione pubblica del debito ma alla sua totalità, ovvero di ridurre le quantità annue di questo rientro tenendo in qualche modo conto di come ci siano paesi, tra i quali l’Italia, caratterizzati anche da un elevato risparmio privato (benché in forte calo, perché tantissime famiglie vi attingono allo scopo di mantenere un buon tenore di vita. In vent’anni il loro risparmio è calato del 60 per cento; inoltre la quota di reddito risparmiata è passata dal 23 per cento a meno del 10). Le decisioni arriveranno prossimamente. Verrà raggiunto un compromesso. Ma per quanto esso possa ridurre i 50 miliardi iniziali di rientro ecc. tutto il resto (macelleria antisociale, deflazione, depressione, svolta semiautoritaria) rimane. d. Solo la mobilitazione popolare può rovesciare la situazione. Tra le sue condizioni obbligate una superiore capacità soggettiva di analisi del contesto e una superiore concretezza operativa della sinistra politica anticapitalistica Probabilmente un primo dato fondamentale da inquadrare, funzionale a una migliore definizione di obiettivi e forme dell’iniziativa politica della sinistra politica anticapitalistica, è, ricorrendo a una categoria gramsciana, il passaggio in corso nell’Unione Europea, a opera delle sue istituzioni esecutive, dei governi dei paesi membri e dei suoi capitalismi (molto netto in alcuni paesi tra i quali l’Italia), da una situazione di “guerra di posizione” contro lavoratori di oggi e di domani e welfare (“guerra” qui significa lotta di classe sia sul piano sociale che su quello politico e “ideologico”) a una situazione di “guerra di movimento” tendente a travolgere la maggioranza della società, colpendo inoltre con particolare durezza operai, immigrati, giovani, donne, anziani. In altre parole, il passaggio in corso è da una situazione (quella dei vent’anni trascorsi) in cui l’attacco avveniva dandosi via via bersagli specifici ed era preparato con grande cura e prendendo tutto il tempo necessario, a una situazione in cui l’attacco è globale e tenta un rapido sfondamento di ogni linea di difesa. Una tale situazione inoltre si caratterizza per avere cambiamenti interni rapidi, brusche precipitazioni di conflitti acuti e momenti di crisi non solo sul terreno della politica ma su quello degli orientamenti e dei comportamenti di massa. Essa di conseguenza è aperta a una pluralità di prospettive. Il rischio antidemocratico che si è aperto in Europa è tra gli effetti di questo passaggio di situazione, così come le insorgenze giovanili rivendicanti una prospettiva di lavoro decente. Una destabilizzazione ampia di situazioni europee sino a ieri solide e ossificate non è in questo momento a portata di mano: tuttavia potrebbe configurarla un’ondata di scioperi generali su scala europea a cui si coordinasse un’ondata di mobilitazioni giovanili. Si tratterebbe, portando a una radicalizzazione popolare verso sinistra, anche di un efficace contrasto all’espansione celere del populismo di estrema destra in corso in quasi tutti i paesi, le cui forze politiche portanti sono sempre più accolte dalle destre conservatrici come partner di governo. Parimenti occorre piena consapevolezza di come il passaggio a una situazione di “guerra di movimento” rifletta una crisi globale grave dell’Unione Europea e il fatto che questa crisi tende al peggioramento, a farsi organica. Ciò significa, intanto, che l’attacco alle condizioni di esistenza delle maggioranze sociali verrà sempre più radicalizzato, in particolare nei paesi della zona euro, e che però possono crearsi divisioni e conflitti tra i protagonisti politici dell’attacco. Anzi qualcosa a questo riguardo è già in corso: il tentativo franco-tedesco di appropriazione di fatto della conduzione politica dell’Unione Europea incontra resistenze nei governi di più paesi, nella Commissione Europea e nella Presidenza stabile del Consiglio, nel Partito Socialista Europeo, inoltre ne incontrano sempre più le pretese tedesche di imposizione di politiche di bilancio troppo pesantemente deflative, infine da parte dell’Italia e dei paesi i cui bilanci pubblici sono messi peggio. Ciò apre varchi potenziali alla lotta di classe portata dai proletariati e dalle masse giovanili: infatti se le loro mobilitazioni cresceranno e si uniranno potranno beneficiare di queste divisioni del fronte dell’attacco, allargarle, quindi riuscire a fare risultati importanti, addirittura determinare lo scompaginamento del fronte dell’attacco e la sua sconfitta. Al contrario se le mobilitazioni non cresceranno i protagonisti dell’attacco faranno i loro compromessi e si ricomporranno. Tutto questo pone alle sinistre anticapitalistiche europee la necessità sia di uno sguardo molto ampio che della massima duttilità e concretezza non solo sul terreno degli obiettivi ma della tattica politica. Inoltre pone loro in termini di massima urgenza la necessità di un soprassalto di senso della responsabilità nei confronti delle classi popolari, e nei confronti di se stesse. E’ questo un frangente che se non vedrà un posizionamento utile ed efficace di queste sinistre ne segnerà la sostanziale scomparsa. Occorrono più capacità di comprensione pronta di un quadro generale in movimento e, su questa base, una superiore capacità di proposta di obiettivi radicali ampi e al tempo stesso una superiore capacità unitaria mirante alla costruzione di un fronte sociale e democratico allargato. Quasi ovunque è constatabile in Europa una marginalità della sinistra anticapitalistica (le eccezioni si limitano a Germania più Grecia, Irlanda, Portogallo, tre tra i paesi più colpiti dalla crisi). Quasi tutte o forse tutte infatti appaiono in ritardo estremo nella comprensione dei cambiamenti in corso (procedono quasi tutte al piccolo trotto, ponendosi così sistematicamente fuori dai tempi rapidi della realtà sociale e politica), e dunque in ritardo estremo nella riqualificazione di obiettivi, organizzazione, comportamenti, linguaggi, “tattica”. Questa situazione è aggravata da una pessima situazione soggettiva: dall’abitudine a dichiarazioni astrattamente propagandistiche, da una routine organizzativa schematica, autoreferenziale e fossilizzata, da un fazionalismo interno litigioso e paralizzante, da una continuità operativa che è quasi solo nelle sedi istituzionali, da un’iniziativa nella società sporadica e casuale. Con un colpo di reni occorre che gli si sostituiscano una quotidianità e un carattere massiccio dell’intervento presso lavoratori e universo giovanile, contribuendo alla loro organizzazione politica, sindacale e di movimento, sostenendo le loro lotte, portando assiduamente loro richieste e obiettivi nelle sedi istituzionali, proponendogli obiettivi immediati effettivamente conseguibili, chiarendogli la natura politica e sociale delle difficoltà e la fisionomia dei nemici politici e sociali, indicando loro una prospettiva di società. Quella dell’Unione Europea è una macchina antisociale globale molto determinata. Essa è appoggiata dalla totalità delle grandi famiglie politiche europee (le incrinature sono a oggi minime) e determina gran parte degli orientamenti dei paesi membri. La “guerra di movimento” la sa fare, come ha saputo fare la “guerra di posizione”. Occorre che la sinistra anticapitalistica impari alla svelta a fare essa pure “guerra di movimento”. Tra gli effetti del passaggio in Europa a una situazione di “guerra di movimento” c’è inoltre il passaggio da una situazione di crisi strisciante delle forze politiche prosistemiche di tipo tradizionale (socialdemocrazie e affini, formazioni democristiane, conservatrici e liberali) a una loro situazione di crisi più o meno acuta. Particolarmente grave appare quella di socialdemocrazie (e affini: PD ecc.), in ragione della frattura tra orientamenti neoliberisti largamente prevalenti in gruppi dirigenti e apparati (benché in via di incrinatura) e attese delle basi popolari, in particolare di quelle operaie e giovanili, che vengono evolvendo in richieste politiche più o meno precise di cambiamento di linea verso sinistra e in comportamenti collettivi sempre più emancipati. La situazione di “guerra di movimento” anzi sta già producendo un miglioramento qualitativo di queste richieste e di questi comportamenti, inoltre a livello giovanile emerge una straordinaria capacità di auto-organizzazione e di mobilitazione tramite il ricorso alla “rete” e ai suoi strumenti. Questi fenomeni in ultimo risultano accompagnati a radicalizzazioni pragmatiche più o meno nette delle grandi organizzazioni sindacali, a quella anche politica di loro componenti rilevanti, alla tendenza del complesso di queste forze a surrogare l’assenza di una sinistra politica anticapitalistica di massa. Molte cose dunque significano non solo la necessità astratta ma la possibilità realistica per la sinistra anticapitalistica di crescere in influenza e organizzazione dentro alle masse popolari tradizionalmente legate a socialdemocrazie, PD, ecc. Ciò tuttavia richiede scelte e comportamenti adeguati: e tra essi c’è di dover agire in forma avvolgente e propositiva, non solo propagandisticamente ma rivolgendo proposte concrete alle formazioni socialdemocratiche o affini come tali. Infatti c’è anche questo tra le condizioni di una comunicazione efficace alle masse popolari legate a queste formazioni (altrimenti non ti ascoltano). Queste masse manifestano, in ragione della crisi, del peggioramento delle loro condizioni e della “guerra di movimento” scatenata dalle istituzioni esecutive dell’Unione Europea, dai governi dei paesi membri e dai loro capitalismi, una fortissima richiesta unitaria di ciò che vivono come sinistra politica: ed è una richiesta per nulla velleitaria, poiché senza quest’unità si perde; solamente è espressa in termini ingenui. A essa perciò occorre rispondere positivamente in ogni suo elemento, non solo per essere ascoltati e riconosciuti come interlocutori importanti ma perché è in ogni caso necessario praticarla per respingere gli attacchi del nemico e riuscire a contrattaccare. E se queste masse hanno, come in effetti hanno, illusioni sugli orientamenti dei gruppi dirigenti delle proprie organizzazioni, occorre tuttavia accompagnarle, operando con esse tutti gli obiettivi concreti e tutte le iniziative che esse intendano praticare e nelle forme in cui intendano praticarle: solo operando via via bilanci comuni dei risultati e degli insuccessi comuni sarà infatti loro possibile superare le illusioni, inoltre farlo avanzando nell’orientamento politico anziché regredendo verso il populismo di destra o la propria passivizzazione. Niente è più controproducente delle prese di posizione che, per quanto realistiche all’analisi, suonino aprioristiche e settarie presso queste masse. Niente è più illusorio che chiudersi a predicare da torri d’avorio purissimo in attesa che masse plaudenti riconoscano la bontà delle predicazioni. Il millenarismo vale per le chiese e per le sette, non per i partiti seri. Come scrissero Marx ed Engels nel Manifesto, alla vigilia della rivoluzione europea del 1848, i comunisti non sono un’altra cosa rispetto al movimento reale, il loro compito è solo quello di esporgli il quadro generale di classe nel quale esso si svolge e di proporgli obiettivi che ne tengano conto. Queste sono la propaganda e la tattica dei comunisti: non il ricorso alla frase scarlatta, agli anatemi e allo starsene per proprio conto. Analogamente sul versante dei grandi sindacati a dominante riformista (in Italia la sola CGIL) occorre sviluppare un’interlocuzione concreta e finalizzata al loro rafforzamento e alla loro unità. La larga maggioranza dei loro aderenti è parte di quelle masse legate a formazioni socialdemocratiche, PD, ecc. Pressoché tutti i grandi sindacati stanno tendendo in tutta Europa a smarcarsi da queste formazioni, in ragione del loro neoliberismo e, dove non governano, della loro inerzia. Molte formazioni della sinistra politica anticapitalistica hanno ormai rapporti estremamente rarefatti con il mondo del lavoro e i sindacati. A ragioni eterogenee di lunga lena di questo deficit si è oggi aggiunta l’incomprensione del travaglio delle grandi organizzazioni e di ciò che questo travaglio ha cominciato a produrre sia sul terreno della lotta del mondo del lavoro contro la “guerra di movimento” antisociale e antidemocratica mossa dalle istituzioni esecutive dell’Unione Europea e dai governi dei paesi membri, sia assumendosi compiti e oneri che spetterebbero a una sinistra politica di massa, essendo essa inesistente. Il complesso dei vari cambiamenti di orientamento e di comportamento necessari alla sinistra politica anticapitalistica richiede dunque non semplici riaggiustamenti lessicali ma un globale riallineamento politico-culturale e organizzativo. e. Solo la mobilitazione popolare può rovesciare la situazione. Contrastare in ogni suo elemento l’operazione antisociale e antidemocratica mossa dalle sedi istituzionali dell’Unione Europea Propaganda e obiettivi concreti, in ultimo, debbono anche mirare al contrasto delle operazioni antisociali e antidemocratiche concertate nelle sedi istituzionali dell’Unione Europea. Ciò vale in modo particolarmente rilevante per l’Italia. Unione Europea ed euro sono diventati impopolari in tutta Europa: è dunque possibile trarre risultati parlando chiaro. Si tratta, intanto, di indicare come la deflazione in sede di salari, welfare e altre condizioni di vita popolari non sia un rimedio ma un aggravamento della depressione economica, dunque porti a ulteriore deflazione, parimenti a pesanti rischi di nuovi momenti di crisi; inoltre di indicare i danni del liberoscambismo, cioè di un meccanismo dello scambio internazionale che guarda alle sole convenienze di grande capitale transnazionale e grande finanza anziché delle popolazioni. Si tratta poi di denunciare nelle imprese transnazionali, nelle banche d’affari e nella speculazione finanziaria non solo le responsabilità dello scatenamento della crisi ma anche le protagoniste della stagnazione, della disoccupazione, di nuovi rischi di crisi. Infine si tratta di denunciare le responsabilità fondamentali nella determinazione di questa situazione da parte di Consiglio Europeo, Commissione, governi dei paesi membri. Questi ultimi non sono i passacarte obbligati di decisioni “europee”: sono parte del Consiglio, nominano i membri della Commissione. Sconfiggerli con la mobilitazione e sul piano elettorale concorrerebbe anche a mettere in difficoltà l’operazione antisociale dell’Unione Europea. Si tratta al tempo stesso di proporre politiche di sviluppo creatrici di occupazione e orientate a recuperi ambientali, alla tutela del patrimonio culturale, all’autonomia alimentare e a un cambiamento ragionato del modello energetico. Si tratta anche, di conseguenza, di proporre una politica ragionata non solo di rilancio e crescita ma di rifacimento qualitativo del versante pubblico dell’economia e di consegna a questo versante di ruoli di orientamento generale dello sviluppo. I mezzi finanziari, e anche questo va argomentato, ci sono. Occorre però prelevarli dai patrimoni, immobiliari e finanziari, delle classi ricche, inoltre tassare attività e proventi finanziari, infine riportare il denaro centralizzato dalle banche a svolgere la sua funzione originaria di mezzo di investimento produttivo: ciò che a sua volta richiede il controllo pubblico del sistema bancario. Sono possibili per queste vie recuperi finanziari enormi, tali (in solido, in alcuni paesi, a un largo recupero dell’evasione fiscale) non solo da ridurre gli effetti antisociali e antieconomici delle risposte alla crisi ma da abolirli e da disporre anche di risorse ampie per politiche di sviluppo, di creazione di lavoro e di welfare, inoltre da rendere possibili misure di defiscalizzazione del reddito delle classi popolari. E occorre rivendicare una democratizzazione dello scambio internazionale, demercatizzandolo e portandolo a rispondere alle convenienze delle popolazioni e a principi di reciproco aiuto tra i vari paesi. Tra queste convenienze ci sono la fine della delocalizzazione di attività produttive, operate cioè chiudendo stabilimenti o ridimensionandone attività e occupati, la riduzione drastica delle spese militari e la fine delle operazioni di guerra all’estero. Questa riduzione e questa fine sono anche tra le forme di recupero di mezzi finanziari. Ancora, si tratta di farsi parte attiva della discussione, che sarà lunga e troverà l’opposizione crescente di grandi mobilitazioni sociali, sul tema del rientro del debito pubblico, anche con proposte che, oltre a ridurne il più possibile gli effetti antisociali e antieconomici e a difendere la possibilità di politiche ragionate di sviluppo, indichino dove andare a prendere risorse finanziarie per via fiscale. Occorre infine farsi parte attiva della discussione sull’ipotesi della produzione di titoli di credito da parte della Banca Centrale Europea (opportunamente portandone lo Statuto ai contenuti della Fed statunitense, cioè a fare propri obiettivi che non solo guardino alla stabilità dei prezzi ma anche allo sviluppo e all’occupazione), rivendicando la finalizzazione di questa produzione non solo alla tutela dei paesi in maggiori difficoltà finanziarie ma anche a sostegno di politiche di sviluppo e di creazione di lavoro. Infine si tratta di contrastare apertamente il tentativo, in corso, di svuotamento della democrazia parlamentare, contrastando sia l’attribuzione alla Commissione Europea dei pieni poteri nella determinazione delle politiche e delle leggi di bilancio dei paesi membri (in specie di quelli della zona euro) che l’intenzione dei governi di Germania e Francia di costituzione di un proprio direttorio di fatto sull’Unione Europea, di conseguenza sui paesi membri. A questi orientamenti, in ultimo, occorre una “cornice” di riferimento che guardi alle sorti dell’Unione Europea. Essa potrebbe consistere in una sorta di “europeismo nazionale”, cioè in una critica esplicita all’europeismo retorico, passivo e codista della tradizione europeista italiana, oggi proprio della quasi totalità delle forze politiche, e nella proposta di un nuovo europeismo strettamente legato alla tutela degli interessi di tutti i paesi membri, e di quelli meno forti economicamente in specie. Per quanto riguarda i paesi dell’Europa meridionale, si tratta inoltre di combinare il nuovo europeismo con politiche di cooperazione democratica e su base paritaria con i paesi della sponda meridionale del Mediterraneo e quelli del Medio Oriente. Una tale ridefinizione su base nazionale dell’europeismo (che potrebbe anche evolvere in tempi non lunghi nella separazione dall’Unione, in caso di fallimento dei tentativi di batterne gli attuali orientamenti) probabilmente potenzierebbe le capacità di ascolto e di mobilitazione sociale della sinistra politica anticapitalistica e anche offrirle una possibilità nel medio periodo di egemonia rispetto alle classi popolari. In effetti l’indipendenza di questa parte della sinistra dalle convenienze capitalistiche e dalla loro gestione politica, in tutte le sue possibili forme, può permetterle di mettere a fuoco proposte che i vari ceti politici di governo non sono in grado di formulare: appunto la definizione di obiettivi che guardino all’“interesse nazionale” reale dei vari paesi, cioè coincidenti con la soddisfazione dei bisogni basilari della grande maggioranza delle loro società. Ancora, tutto questo contribuisce a sottolineare la necessità e l’urgenza di coordinamenti europei efficienti delle sinistre politiche anticapitalistiche, delle sinistre sindacali, dei movimenti, delle iniziative di lotta.

Nessun commento:

Posta un commento

Blog curato da ...

Blog curato da ...
Mob. 0039 3248181172 - adakilismanis@gmail.com - akilis@otenet.gr
free counters