Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 18 giugno 2011

Il brutto ambiente del capitalismo.


Fonte: eddyburg
Autore:
Nell’intervista rilasciata dal banchiere ed economista alla giornalista del manifesto (e opinionista di eddyburg) due posizioni diverse sun una questione nodale (16 giugno 2011), con postilla
«Questa macchina diabolica, come diceva Marx, purché faccia soldi produce qualunque cosa. Si può farla produrre in modo meno inquinante»

La missione impossibile di cancellare le tre "I" del modo di produzione: instabilità, iniquità, inquinamento Crescita. Fino a quando? Questo interrogativo è l'oggetto della nostra intervista. Chiediamo all'economista Pierluigi Ciocca, prendendo spunto dal suo ultimo saggio («L'economia di mercato capitalistica: "un modo di produzione" da salvare»), perché nessuno di coloro che "contano" sembra porselo?

Le rispondo: fino a quando vivremo in quella che io chiamo «un'economia di mercato capitalistica». Perché questo modo di produzione è nato per crescere. L'idea di poterne arrestare la crescita, o addirittura di piegarlo a una decrescita, è un nonsenso. La sua dinamica è volta all'espansione. Rimane il fatto che si tratta di scegliere tra la fine del capitale e la fine del mondo. Affrontando la cosa a questo modo, non se ne viene fuori. Tentare di arrestarlo è contro la natura del capitale. Il difetto principale di questo sistema è che a differenza - forse - del modo di produzione precedente, non ha un meccanismo interno che lo dissuada dall'inquinare, non ha servofreni, non ha correttivi interni.

Questo concetto l'analisi economica lo riconduce alla categoria delle esternalità negative: io sono una fabbrica, inquino il fiume, e questo - a costo di far morire di cancro le persone - non lo scrivo nel mio conto "profitto e perdite".

Quindi, ai fini del problema che lei pone, la domanda diventa: possiamo moderare questa crescita?

Sì, forse sì, moderarla si può, negarla no: sempre crescita deve essere. Supponiamo, per assurdo, che si realizzasse una decrescita: sarebbe meglio o peggio? Innanzitutto consideriamo che questo capitalismo non crea solo un problema ambientale, ma ne crea almeno altri due: un problema di instabilità (parliamo delle crisi) e un problema di sperequata distribuzione del reddito (parliamo di ricchi e poveri nel mondo). Quindi lui, il capitalismo, pone tre problemi inestricabilmente connessi, che io chiamo "le tre I": instabilità, iniquità, inquinamento. Questi tre mali vanno considerati congiuntamente e nei limiti del possibile leniti, non dico curati. Se il capitalismo non crescesse l'instabilità si accentuerebbe e non vi sarebbero margini per correggere l'iniquità distributiva.

Perché, oggi l'iniquità distributiva viene corretta adeguatamente, secondo lei?

No, non viene corretta affatto. Oggi ci sarebbero i margini per correggerla, ma non viene corretta. Ma se si smettesse di crescere, non si correggerebbe più nulla. Oggi non si può correggere perché la gran parte della sperequazione distributiva non è più fra cittadini dei medesimi paesi, ma è fra cittadini dei paesi più diversi. Ad esempio il paese più ricco, oggi la Norvegia, ha un reddito pari a 70 volte il reddito del Nepal. Duecento anni fa questo rapporto - sperequato anche allora - era da tre a uno, oggi è da 70 a 1. Quindi, come pensare a un Robin Hood che prenda risorse dalla Norvegia, dagli Stati uniti, dall'Italia, e le trasferisca in Nepal? L'unica via d'uscita è che il Nepal cresca, in termini di reddito pro-capite, più rapidamente di quanto non crescono ormai Norvegia e Stati uniti. Perché se lei va in Norvegia e dice «Per perequare il vostro reddito pro-capite io decido di farvi decrescere ai livelli del Nepal», i Norvegesi non sono contenti. Il problema distributivo implica crescita. E la speranza da questo punto di vista, è la Cina e anche l'India.

Ma il capitalismo è un fenomeno storico ... O no?

Sì, è un fenomeno storico. E in quanto tale si dovrebbe anche poterlo «emendare»...

Certo, diventerebbe un'altra cosa, ma forse senza le catastrofi che si moltiplicano e che ormai vengono date come inevitabili. O comunque con qualche catastrofe in meno...

Ma lo stiamo già emendando. Perché stiamo facendo crescere il Nepal del 5 per cento l'anno, mentre la Norvegia cresce dell'1 per cento.

Questa è una possibilità... Non sta accadendo realmente, purtroppo, ma potrebbe accadere e sarebbe auspicabile che accadesse, soprattutto per i poveri nepalesi. E anche perché una politica economica acconcia potrebbe favorire, con successo da parte del Nepal, questo inseguimento della mitica Norvegia o dei mitici Stati uniti.

C'è poi il problema della instabilità (la seconda I dopo l'Iniquità). Problema gravissimo, come abbiamo sperimentato per la millesima volta negli ultimi due anni: in Italia il prodotto lordo è caduto del 6,5 per cento con le ripercussioni che sappiamo, e che mi confermano nella mia posizione: un'economia capitalistica stagnante è un'economia più instabile, e meno facilmente governabile dal punto di vista delle sue oscillazioni cicliche.

E veniamo al terzo punto, alla terza I, l'Inquinamento, cioè il problema ambientale. Io penso che oltre a smettere di inquinare bisogna disinquinare; perché noi abbiamo inquinato tremendamente.

Ma per disinquinare occorrono risorse. E smettere di crescere evita probabilmente l'aggiunta di inquinamento, ma non consente di rimuovere i danni ambientali già prodotti. Le pare?

Sì e no. Non disinquinare è certo negativo, e occorre provvedere adeguatamente.

Ma continuare nel frattempo a produrre non importa che cosa purché il Pil aumenti, e quindi fatalmente continuare a inquinare (perché "produrre inquina", come dice anche Stiglitz, che non è un "verde"): le pare la buona soluzione ai fini di combattere la "terza I" ?

Mi sembra l'unica realisticamente possibile. Lei sa molto meglio di me che, nel nostro inseguimento di Pil, oggi non produciamo solo ciò che è, o può essere, utile; ma produciamo enormi quantitativi di cose inutili, quando non decisamente dannose. Merci deliberatamente destinate a durare poco, e ad essere sostituite il più spesso possibile: è un fatto che già negli anni Novanta André Gorz sottolineava, criticando l'iperproduttivismo imperante, che lui riteneva responsabile anche del crescente squilibrio finanziario. Merci durevoli significherebbero un forte risparmio di energia e di altre materie prime, oltre a una notevole riduzione di rifiuti. Lo stesso vale per la smisurata produzione di contenitori di solito destinati a un uso che va dal supermercato alla discarica.

Ma forse lo spreco più dannoso, è l'eccesso di riscaldamento e di refrigerazione degli interni: pensi che risparmio, se d'inverno non si superassero i 20-22 gradi, e d'estate si stesse entro i 27-28°. In tutto il mondo.

Certo, come dico a pag. 39 del mio saggio, sono d'accordo su questo. Il discorso è indubbiamente complesso. Pensi al sistema fiscale, pensi alla composizione della domanda globale. Comunque, se mi domanda se esistono le tecnologie per passare alle produzioni che lei proporrebbe, la risposta è: sì. Non so se si tratti solo di tecnologie... Forse occorrerebbe un diverso modo di utilizzare, addirittura pensare, il progresso scientifico e tecnologico, e quindi la produzione, e lo stesso lavoro. La produzione necessaria oggi potrebbe richiedere solo quantità molto ridotte di lavoro... L'auspicata "liberazione dal lavoro e del lavoro" potrebbe diventare realtà. Ma in ciò secondo me hanno mancato le sinistre che, per paura della disoccupazione tecnologica, hanno di fatto regalato il progresso scientifico e tecnico al capitalismo; il quale ovviamente l'ha usato secondo le proprie logiche...

E ancora oggi le sinistre sono di fatto su posizioni per me difficilmente condivisibili. Ma oggi le sinistre in tre quarti del mondo non ci sono, non esistono più. I movimenti, che sono tanti (lo stesso ambientalismo, eppoi pacifismo, femminismo, difensori dei "beni comuni", antinuclearisti, quanti si battono contro la Tav o il Ponte di Messina, e riempiono le piazze contro ogni attacco alla democrazia, ecc.) non si può dire che non siano "sinistre". Alle quali però le sinistre organizzate (quelle poche che restano) secondo me non dedicano l'attenzione che meriterebbero. Lasciamo stare le sinistre! Torniamo al nostro tema. Io condivido pienamente i suoi argomenti, però il punto è il rapporto con la crescita. Questo sano discorso che lei sta facendo sulle "inutilità", non le conviene analiticamente spingerlo fino al punto da connetterlo con la crescita. Si può avere idealmente una crescita economica senza la quale, a prescindere dalla produzione dell'inutile, questo capitalismo entra in una contraddizione ingovernabile.

Quello che lei sta dicendo attiene alla modalità di composizione della domanda e della produzione, che in astratto non ha molto a che vedere con la questione della crescita. Facciamo l'esempio più banale: supponiamo che si imponga un severissimo divieto all'uso della la plastica nei supermercati: non verrebbe più usata la plastica nei supermercati. Questo non ha nulla a che vedere con la questione della crescita, perché questa macchina diabolica, come diceva Marx, che è il capitalismo produce qualunque cosa. Il diabolico capitalismo è anche un po' stupido, quindi purché faccia soldi produce qualunque cosa. Si può entro certi limiti tentare di non far produrre ciò che soprattutto ferisce l'ambiente, ma perché esso produca in modo diverso, cose meno inquinanti, occorrono risorse.

Mi scusi, professore, ma qui mi riesce difficile seguirla. Certo che vietare la plastica nei supermercati, non risolverebbe, ma se ad esempio il divieto fosse di produzione, prima che di uso, e si riferisse non solo ai contenitori dei supermercati, ma a tutto quanto oggi, nel mondo, è "fatto" di plastica , a qualcosa servirebbe.

Posso limitarmi a citare a mo' d'esempio l'usa-e-getta (piatti, bicchieri, bottiglie, vasetti, ecc.); o anche oggetti destinati a prestazioni più durature (vedi tavoli e sedie di bar, caffè, tavole calde, gelaterie, ecc., anch'essi ormai in tutto il mondo - eccettuati locali superlusso - tutti di plastica). Potrei continuare. Sono problemi reali, ma molto difficili da risolvere. Il tentativo più serio di quantificare le risorse necessarie per risolvere il problema ambiente è il Rapporto firmato nel 2OO6 dal famoso economista inglese Nicholas Stern, secondo cui occorrerebbero due punti di Pil mondiale per quarant'anni. Supponiamo che Stern non sia lontano dal vero. Be', due punti sono molti. E se mancassero, le politiche che noi auspichiamo incontrerebbero serie difficoltà.

Conosco il rapporto Stern. Immagino lei sappia anche che un anno dopo, durante una conferenza svoltasi a Manchester si dichiarò d'accordo con il segretario Onu, Ban Ki Moon, che sosteneva la necessità di tagliare l'1% del Pil globale annuo "per decenni".

Quello che dice lei è dentro le stime di lord Stern. Ovviamente bisognerebbe produrre cose che non inquinino; i beni immateriali, a cominciare dalla cultura, forse sono quelli meno inquinanti.

E se si smettesse di produrre armi, che rappresentano ufficialmente il 3,5 per cento del Pil mondiale (ma tutti sostengono che la produzione reale sia molto più elevata di così) non sarebbe una bella ripulita del mondo?

Dal punto di vista dell'inquinamento non lo so, ma certamente il problema è l'uso delle armi più che la produzione. Lei non crede che oggi sarebbe necessaria una politica mondiale?

Sì. Nel mio saggio, che verrà pubblicato insieme ad altri (uno di Giorgio Lunghini e uno di Ignazio Murro) si affronta la questione che lei adesso solleva, partendo da quella dei fori ambientali internazionali (Coopenhagen, Kyoto ecc.), perché è chiaro che si tratta di un problema da non potersi risolvere in un solo paese. Questi fori prima non c'erano, ora ce ne sono, non producono sempre risultati, però ci sono e la consapevolezza si diffonde. Non si può porsi questi problemi ambientali come se li si ponesse nel feudalesimo o nel modo di produzione schiavistico, o nel modo di produzione asiatico. Sono problemi che definiscono la realtà attuale. O si rovescia questo sistema, oppure si cerca di contenerne le ripercussioni negative: è privo di senso muovere dall'assunto che sia arrestabile la sua dinamica. E' contro la natura del sistema.

Allora? Rassegnarci a che iniquità, instabilità, inquinamento, debbano appartenere al nostro futuro...?

Dopotutto la storia è fatta di cose che prima non c'erano. Nella prospettiva che un economista può configurare, non prevedo mutazioni. Ma tutto è sempre possibile, e il destino è nelle mani degli uomini, come insegna (lo diceva Marc Bloch) «quella scienza dell'eterno cangiamento che è la storia»

Postilla

Il dilemma non è nuovo. Si tratta di comprendere in che direzione lavorare per contribuire all’«eterno cangiamento che è la storia». Se ci si possa ancora illudere di correggere un sistema che si è rivelato sempre più mortifero, oppure se lavorare, con pazienza e intelligenza, per costruirne uno nuovo.

Il dubbio che solleva la conclusione di Ciocca sta in questa domanda: fino a quando è lecito accollare ai deboli (gli esclusi dalle delizie della “crescita” e i posteri) l’incapacità di pensare, e di cominciare a costruire, un nuovo sistema economico?

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