di Nouriel Roubini. Fonte: controlacrisi
L' approccio confusionario alla crisi dell'eurozona non è riuscito a risolvere i problemi fondamentali sulla divergenza economica e di competitività nell'Unione. Andando avanti così l'euro si muoverà attraverso disordinati tentaivi di soluzione, e alla fine arriverà a una spaccatura dell'unione monetaria stessa, con alcuni dei membri più deboli buttati fuori. L'Unione Economica e Monetaria non ha mai pienamente soddisfatto le condizioni di un'area valutaria ottimale. I suoi dirigenti speravano che la loro mancanza di politica monetaria, fiscale e di di cambio, avrebbe provocato un'accelerazione delle riforme strutturali che, si sperava, avrebbero visto convergere la produttività e i tassi di crescita. La realtà si è rivelata ben diversa. Paradossalmente, l'effetto alone della precoce convergenza dei tassi di interesse ha permesso una maggiore divergenza delle politiche di bilancio. Una spericolata mancanza di disciplina in paesi come la Grecia e il Portogallo è stata solo dalla formazione di bolle speculative in altri, come Spagna e Irlanda. Le riforme strutturali sono state ritardate, mentre la crescita delle retribuzioni divergeva rispetto alla crescita della produttività. Il risultato è stato una perdita di competitività nella periferia. Tutte le unioni monetarie di successo sono state infine associate ad una unione politica e fiscale. Ma in Europea l'avanzamento verso l'unione politica è in stallo, mentre l'unione fiscale richiederebbe notevoli entrate del bilancio federale centrale, e anche l'emissione diffusa di eurobonds - in cui le tasse dei contribuenti tedeschi (e di altri paesi del centro dell'Unione), non finanzierebbero solo il debito del loro paese, ma anche il debito dei membri della periferia. I contribuenti del centro è improbabile che accetteranno questo. La riduzione o "reprofiling" del debito dell'Eurozona contribuirebbe a risolvere il problema del debito eccessivo in alcune economie insolventi. Ma non farà nulla per ripristinare la convergenza economica, che richiede il ripristino della convergenza nella competitività. Senza questo, la periferia semplicemente ristagna. Qui le opzioni sono limitate. L'euro potrebbe ridursi drasticamente di valore verso - dicono - la parità con il dollaro USA, per ripristinare la competitività della periferia; ma un netto calo dell'euro è improbabile data la forza commerciale della Germania e le politiche da falchi della Banca Centrale Europea. Il percorso tedesco - le riforme per aumentare la crescita della produttività e mantenere un tetto sulla crescita dei salari - non funzionerebbe. Nel breve periodo riforme di questo tipo tendono a ridurre la crescita e in Germania c'è voluto più di un decennio per ristabilire la propria competitività, un orizzonte troppo lungo per le economie periferiche che necessitano di crescita al più presto. La deflazione è una terza opzione, ma anche questa è associata a una recessione persistente. L'Argentina ha tentato questa strada, ma dopo tre anni di una recessione sempre più profonda si arrese, e decise il default e l'uscita dall'ancoraggio al dollaro della propria valuta. Anche se si attraversasse la deflazione, l'effetto sul bilancio sarebbe di aumentare il peso reale dei debiti pubblici e privati. Tutti i discorsi da parte della BCE e dell'Unione Europea di una svalutazione interna sono sbagliati, dato che la necessaria austerità fiscale ancora ha - nel breve periodo - un effetto negativo sulla crescita. Quindi, dato che queste tre opzioni sono improbabili, non c'è davvero che un altro modo per ripristinare la competitività e la crescita della periferia: lasciare l'euro, tornare alle monete nazionali e ottenere il massimo deprezzamento nominale e reale. Dopo tutto, in tutte le crisi finanziarie dei mercati emergenti da cui si è usciti tornando alla crescita, un movimento verso tassi di cambio flessibili è stato necessario e inevitabile, prima dell'austerità e delle riforme e, in alcuni casi, della ristrutturazione e riduzione parziale del debito. Naturalmente oggi l'idea di lasciare l'euro viene considerata inconcepibile, anche ad Atene e Lisbona. L'uscita imporrebbe grandi perdite commerciali al resto della zona euro, attraverso importanti deprezzamento reale e perdite di capitale dei creditori, in modo molto simile alla ridenominazione in “pesos” del debito dell'Argentina in dollari, durante la sua ultima crisi. Ma gli scenari che vengono trattati come oggi inconcepibili non saranno poi così campati in aria tra cinque anni, soprattutto se le economie di alcuni dei paesi periferici rimangono in stagnazione. La zona euro è stata tenuta insieme dalla convergenza dei bassi tassi di interesse reali per sostenere la crescita, dalla speranza che le riforme avrebbero potuto aumentare la convergenza, e dalla prospettiva di una eventuale unione fiscale e politica. Ma ora la convergenza è andata, le riforme sono in stallo, mentre l'unione fiscale e politica è un sogno lontano. La ristrutturazione del debito accadrà. La domanda è: quando (prima o poi) e come (ordinata o disordinata). Ma anche la riduzione del debito non sarà sufficiente a ripristinare la competitività e la crescita. E alla fine la possibilità di uscire dall'unione monetaria diventerà dominante: i vantaggi di di stare dentro saranno inferiori ai benefici di uscire, per quanto irregolare o disordinata l'uscita potrebbe finire con l'essere. *Da Financial Times del 13.6.2011. Nouriel Roubini Presidente del Roubini Global Economics, professore di economia presso la Stern School of Business di New York University e co-autore di 'Crisis Economics'.
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