di Raul Zibechi . Fonte: carta
Nei più diversi angoli del pianeta la gente comune sta uscendo nelle strade e occupando le piazze. Si incontra con altra gente comune che non conosceva e immediatamente riconosce. Non ha aspettato di essere convocata, è accorsa, spinta dalla necessità di scoprirsi. Non ha calcolato le conseguenze delle sue azioni, ha agito sulla base di ciò che sente, desidera e sogna. Siamo di fronte a delle vere rivoluzioni, a cambiamenti profondi che non lasciano nulla al proprio posto, malgrado los de arriba («quelli di sopra», ndt ) credano che tutto tornerà uguale quando le piazze e le strade avranno recuperato, per un certo tempo, quel silenzio di piombo che chiamano «normalità».
Il miglior modo di spiegare quel che sta succedendo resta, a mio modo di vedere, un memorabile testo di Giovanni Arrighi, Terence Hopkins e Immanuel Wallerstein: «1968: la grande prova», un capitolo del libro Antisystemic mouviment. Quel testo, ispirato dallo sguardo lungo e profondo di Braudel, si apre con un’affermazione insolita: «Ci sono state solo due rivoluzioni mondiali. La prima nel 1848. La seconda nel 1968. Entrambe sono state un fallimento storico. Entrambe hanno trasformato il mondo».
Subito dopo, i tre maestri del sistema-mondo affermano che il fatto che entrambe le rivoluzioni non furono progettate e furono spontanee «nel senso profondo del termine» spiega tanto il loro fallimento quanto la loro capacità di cambiare il mondo. Dicono, inoltre, che il 1848 e il 1968 sono date più importanti del 1789 e del 1917, con riferimento alle rivoluzioni francese e russa. Esse furono appunto superate da quelle del 1848 e del 1968.
Il concetto ereditato e ancora egemonico di rivoluzione deve essere rivisitato, lo è nei fatti. Di fronte a un’idea di rivoluzione centrata esclusivamente nella conquista del potere statale, appare un’altra idea più complessa, e soprattutto più integrale, che non esclude la strategia statale ma la supera e la deborda. In ogni caso, la questione di conquistare il timone dello Stato è un passaggio in un cammino molto più lungo alla ricerca di qualcosa che non può darsi a partire dalle istituzioni statali: creare un mondo nuovo.
Per creare un mondo nuovo, ciò che meno serve è la politica tradizionale, ancorata alla figura della rappresentanza che consiste nel sostituire soggetti collettivi con professionisti dell’amministrazione e dell’inganno. Al contrario, un mondo nuovo e diverso da quello attuale comporta il provare e lo sperimentare relazioni sociali orizzontali in spazi autonomi e autogestiti, spazi sovrani dove nessuno impone e comanda il collettivo.
La frase chiave della citazione precedente è «spontanee nel senso profondo». Come interpretare quella affermazione? Su questo punto bisogna accettare il fatto che non c’è una razionalità, strumentale e centrata sullo Stato, ma che ogni soggetto ha la sua razionalità, e tutti possiamo essere soggetti nel momento in cui diciamo «Basta». Si tratta, allora, di comprendere le razionalità altre, questione che solo si può dare dal di dentro e in movimento, a partire dalla logica intrinseca che rivelano le azioni collettive dei soggetti dell’abajo (del «sotto», ndt). Questo significa che non si tratta di interpretare ma di partecipare.
Al di là delle diverse congiunture in cui sono sorti, i movimenti di Piazza Tahrir al Cairo e della Puerta del Sol a Madrid sono parte di una stessa genealogia, quella del «Que se vayan todos» della rivolta argentina del 2001, della guerra dell’acqua di Cochabamba nel 2000, delle due guerre del gas boliviane del 2003 e del 2005, e della Comune di Oaxaca del 2006, per citare solo i casi delle rivolte urbane. Ciò che hanno in comune quei movimenti sono sostanzialmente due fatti: porre un freno a los de arriba e farlo aprendo spazi di democrazia diretta e partecipazione collettiva senza rappresentanti.
Questa strategia in due fasi, rifiuto e creazione, deborda dalla cultura politica tradizionale ed egemonica nelle sinistre e nel movimento sindacale, le quali contemplano solo parzialmente la prima fase: le manifestazioni autogestite con obiettivi precisi e delimitati. Quella cultura politica ha mostrato i suoi limiti, perfino come rifiuto di ciò che esiste, perché nel momento in cui non deborda dall’alveo istituzionale è incapace di frenare los de arriba e si limita a preparare il terreno per una staffetta tra le squadre di governo senza cambiare politica. Quella cultura politica è stata utile a spodestare le destre ma ha fallito alla prova di cambiare il mondo.
Le rivoluzioni in corso sono estuari dove sboccano e confluiscono fiumi e ruscelli di ribellioni che percorrono lunghi cammini, alcuni dei quali bevono nelle acque del 1968 ma le superano in profondità e densità. Sono ribellioni che vengono da molto lontano, dall’alta montagna, per confluire in modo impercettibile e capillare in altri alvei, a volte minuscoli, per poi mescolare un bel giorno le proprie acque in un torrente dove nessuno si domanda più da dove viene e che colori e segni di identità trascina.
Queste rivoluzioni sono il momento visibile, importante ma non fondante di un lungo cammino sotterraneo. Per questo l’immagine della talpa è tanto adeguata: un bel giorno fa un salto e si mostra, ma prima ha fatto un lungo percorso sotto terra. Senza questo percorso non potrebbe in alcun modo vedere la luce del giorno. Questo lungo andare sono le centinaia di piccole iniziative che sono nate come spazi di resistenza, piccoli laboratori (come quelli della fine degli anni Novanta a Lavapies, Madrid) dove si vive come si vuole vivere e non come loro vorrebbero che vivessimo.
Voglio dire che i grandi fatti sono preceduti e preparati, provati come segnala James Scott, da pratiche collettive che vivono lontane dall’attenzione dei media e dei professionisti della politica. Lì dove i partecipanti si sentono al sicuro e protetti dai propri simili. Ora che quelle migliaia di microesperienze sono confluite in queste mareggiate di vita, è il momento di festeggiare e sorridere, malgrado le inevitabili repressioni. Occorrerà soprattutto non dimenticare, al momento del ritorno degli anni di piombo, che sono quelle laboriose esperienze solitarie, isolate e spesso fallimentari, che pavimentano le giornate luminose. Una dopo l’altra cambiano il mondo.
Nei più diversi angoli del pianeta la gente comune sta uscendo nelle strade e occupando le piazze. Si incontra con altra gente comune che non conosceva e immediatamente riconosce. Non ha aspettato di essere convocata, è accorsa, spinta dalla necessità di scoprirsi. Non ha calcolato le conseguenze delle sue azioni, ha agito sulla base di ciò che sente, desidera e sogna. Siamo di fronte a delle vere rivoluzioni, a cambiamenti profondi che non lasciano nulla al proprio posto, malgrado los de arriba («quelli di sopra», ndt ) credano che tutto tornerà uguale quando le piazze e le strade avranno recuperato, per un certo tempo, quel silenzio di piombo che chiamano «normalità».
Il miglior modo di spiegare quel che sta succedendo resta, a mio modo di vedere, un memorabile testo di Giovanni Arrighi, Terence Hopkins e Immanuel Wallerstein: «1968: la grande prova», un capitolo del libro Antisystemic mouviment. Quel testo, ispirato dallo sguardo lungo e profondo di Braudel, si apre con un’affermazione insolita: «Ci sono state solo due rivoluzioni mondiali. La prima nel 1848. La seconda nel 1968. Entrambe sono state un fallimento storico. Entrambe hanno trasformato il mondo».
Subito dopo, i tre maestri del sistema-mondo affermano che il fatto che entrambe le rivoluzioni non furono progettate e furono spontanee «nel senso profondo del termine» spiega tanto il loro fallimento quanto la loro capacità di cambiare il mondo. Dicono, inoltre, che il 1848 e il 1968 sono date più importanti del 1789 e del 1917, con riferimento alle rivoluzioni francese e russa. Esse furono appunto superate da quelle del 1848 e del 1968.
Il concetto ereditato e ancora egemonico di rivoluzione deve essere rivisitato, lo è nei fatti. Di fronte a un’idea di rivoluzione centrata esclusivamente nella conquista del potere statale, appare un’altra idea più complessa, e soprattutto più integrale, che non esclude la strategia statale ma la supera e la deborda. In ogni caso, la questione di conquistare il timone dello Stato è un passaggio in un cammino molto più lungo alla ricerca di qualcosa che non può darsi a partire dalle istituzioni statali: creare un mondo nuovo.
Per creare un mondo nuovo, ciò che meno serve è la politica tradizionale, ancorata alla figura della rappresentanza che consiste nel sostituire soggetti collettivi con professionisti dell’amministrazione e dell’inganno. Al contrario, un mondo nuovo e diverso da quello attuale comporta il provare e lo sperimentare relazioni sociali orizzontali in spazi autonomi e autogestiti, spazi sovrani dove nessuno impone e comanda il collettivo.
La frase chiave della citazione precedente è «spontanee nel senso profondo». Come interpretare quella affermazione? Su questo punto bisogna accettare il fatto che non c’è una razionalità, strumentale e centrata sullo Stato, ma che ogni soggetto ha la sua razionalità, e tutti possiamo essere soggetti nel momento in cui diciamo «Basta». Si tratta, allora, di comprendere le razionalità altre, questione che solo si può dare dal di dentro e in movimento, a partire dalla logica intrinseca che rivelano le azioni collettive dei soggetti dell’abajo (del «sotto», ndt). Questo significa che non si tratta di interpretare ma di partecipare.
Al di là delle diverse congiunture in cui sono sorti, i movimenti di Piazza Tahrir al Cairo e della Puerta del Sol a Madrid sono parte di una stessa genealogia, quella del «Que se vayan todos» della rivolta argentina del 2001, della guerra dell’acqua di Cochabamba nel 2000, delle due guerre del gas boliviane del 2003 e del 2005, e della Comune di Oaxaca del 2006, per citare solo i casi delle rivolte urbane. Ciò che hanno in comune quei movimenti sono sostanzialmente due fatti: porre un freno a los de arriba e farlo aprendo spazi di democrazia diretta e partecipazione collettiva senza rappresentanti.
Questa strategia in due fasi, rifiuto e creazione, deborda dalla cultura politica tradizionale ed egemonica nelle sinistre e nel movimento sindacale, le quali contemplano solo parzialmente la prima fase: le manifestazioni autogestite con obiettivi precisi e delimitati. Quella cultura politica ha mostrato i suoi limiti, perfino come rifiuto di ciò che esiste, perché nel momento in cui non deborda dall’alveo istituzionale è incapace di frenare los de arriba e si limita a preparare il terreno per una staffetta tra le squadre di governo senza cambiare politica. Quella cultura politica è stata utile a spodestare le destre ma ha fallito alla prova di cambiare il mondo.
Le rivoluzioni in corso sono estuari dove sboccano e confluiscono fiumi e ruscelli di ribellioni che percorrono lunghi cammini, alcuni dei quali bevono nelle acque del 1968 ma le superano in profondità e densità. Sono ribellioni che vengono da molto lontano, dall’alta montagna, per confluire in modo impercettibile e capillare in altri alvei, a volte minuscoli, per poi mescolare un bel giorno le proprie acque in un torrente dove nessuno si domanda più da dove viene e che colori e segni di identità trascina.
Queste rivoluzioni sono il momento visibile, importante ma non fondante di un lungo cammino sotterraneo. Per questo l’immagine della talpa è tanto adeguata: un bel giorno fa un salto e si mostra, ma prima ha fatto un lungo percorso sotto terra. Senza questo percorso non potrebbe in alcun modo vedere la luce del giorno. Questo lungo andare sono le centinaia di piccole iniziative che sono nate come spazi di resistenza, piccoli laboratori (come quelli della fine degli anni Novanta a Lavapies, Madrid) dove si vive come si vuole vivere e non come loro vorrebbero che vivessimo.
Voglio dire che i grandi fatti sono preceduti e preparati, provati come segnala James Scott, da pratiche collettive che vivono lontane dall’attenzione dei media e dei professionisti della politica. Lì dove i partecipanti si sentono al sicuro e protetti dai propri simili. Ora che quelle migliaia di microesperienze sono confluite in queste mareggiate di vita, è il momento di festeggiare e sorridere, malgrado le inevitabili repressioni. Occorrerà soprattutto non dimenticare, al momento del ritorno degli anni di piombo, che sono quelle laboriose esperienze solitarie, isolate e spesso fallimentari, che pavimentano le giornate luminose. Una dopo l’altra cambiano il mondo.
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