di Luigino Bruni, docente di economia politica all’università di Milano Bicocca. Fonte: controlacrisi
Quando parliamo di “bene comune”, in economia intendiamo un bene consumato da più persone
contemporaneamente.
A differenza dei beni pubblici, quindi, il bene comune è un bene “rivale”: il consumo degli altri interferisce con il mio consumo, e lo riduce.
I beni pubblici sono infatti quei beni che possono essere goduti da tutti, senza contrasti. Un bene pubblico è la sicurezza, ad esempio.
L’acqua è un bene che sta divenendo sempre più scarso, ovunque nel mondo.
Per questo da bene pubblico puro sta diventando un bene comune (common, in inglese), il cui consumo è “rivale”.
Quando il bene diventa comune, si cade facilmente in quella che viene chiamata in letteratura la “tragedia dei beni comuni”: si parla di “tragedia”, perché tendiamo a distruggere il bene stesso, a consumarne troppo. Andiamo quindi oltre il cosiddetto “ottimo sociale”, quel quantitativo che garantisce a tutti di consumare quel bene, e di preservarlo per il futuro.
Il nostro consumo, l’“ottimo individuale”, è a scapito dell’“ottimo sociale”.
Ora con l’acqua, se la si consuma inseguendo i nostri “obiettivi individuali”, rischiamo sempre di più questa “tragedia”. Di questo occorre tenere conto quando entriamo nel dibattito sulla privatizzazione della gestione dei servizi idrici. Si dice: affidiamo la gestione a un soggetto privato, come nel caso dell’energia o delle autostrade; poi lo Stato regolamenterà il settore.
Io ho dei dubbi perché le imprese private hanno per scopo il profitto. Chi massimizza il profitto non tiene conto dell’ottimo sociale, e difficilmente può essere controllato, nemmeno con un meccanismo di sanzioni.
Per questo io penso che si debba affidare la gestione dei beni comuni a soggetti che
non hanno il fine del profitto.
Può essere il Comune, lo
Stato, o un domani anche soggetti privati, imprese civili: succede già coi consorzi di
cittadini creati in alcuni piccoli centri. Ciò che è importante è il “movente” per il quale si fa impresa.
I soggetti che gestiscono i beni comuni non possono fare i profitti, che per
definizione sono privati.
Vale per l’acqua e vale per ogni bene comune.
Se il naturale proprietario di un bene è un gruppo di persone, dal punto di vista
etico ed economico non è ragionevole utilizzare questo bene affinché pochi soggetti (magari nemmeno residenti, come nel caso delle multinazionali straniere) ne facciano profitto. Inoltre, il profitto guarda al breve periodo, non al lungo o al lunghissimo periodo, come invece si dovrebbe fare specie nel caso dell’acqua: l’unità di misura temporale delle multinazionali è il trimestre.
Il referendum sarà un punto di partenza. Il tema dell’acqua appassiona le persone, ma ci vorrebbe più dibattito pubblico. Dopo la vittoria dei sì, che ci auguriamo, dovremo infatti chiederci che cosa fare, come trovare nuove vie di efficienza.
Quando parliamo di “bene comune”, in economia intendiamo un bene consumato da più persone
contemporaneamente.
A differenza dei beni pubblici, quindi, il bene comune è un bene “rivale”: il consumo degli altri interferisce con il mio consumo, e lo riduce.
I beni pubblici sono infatti quei beni che possono essere goduti da tutti, senza contrasti. Un bene pubblico è la sicurezza, ad esempio.
L’acqua è un bene che sta divenendo sempre più scarso, ovunque nel mondo.
Per questo da bene pubblico puro sta diventando un bene comune (common, in inglese), il cui consumo è “rivale”.
Quando il bene diventa comune, si cade facilmente in quella che viene chiamata in letteratura la “tragedia dei beni comuni”: si parla di “tragedia”, perché tendiamo a distruggere il bene stesso, a consumarne troppo. Andiamo quindi oltre il cosiddetto “ottimo sociale”, quel quantitativo che garantisce a tutti di consumare quel bene, e di preservarlo per il futuro.
Il nostro consumo, l’“ottimo individuale”, è a scapito dell’“ottimo sociale”.
Ora con l’acqua, se la si consuma inseguendo i nostri “obiettivi individuali”, rischiamo sempre di più questa “tragedia”. Di questo occorre tenere conto quando entriamo nel dibattito sulla privatizzazione della gestione dei servizi idrici. Si dice: affidiamo la gestione a un soggetto privato, come nel caso dell’energia o delle autostrade; poi lo Stato regolamenterà il settore.
Io ho dei dubbi perché le imprese private hanno per scopo il profitto. Chi massimizza il profitto non tiene conto dell’ottimo sociale, e difficilmente può essere controllato, nemmeno con un meccanismo di sanzioni.
Per questo io penso che si debba affidare la gestione dei beni comuni a soggetti che
non hanno il fine del profitto.
Può essere il Comune, lo
Stato, o un domani anche soggetti privati, imprese civili: succede già coi consorzi di
cittadini creati in alcuni piccoli centri. Ciò che è importante è il “movente” per il quale si fa impresa.
I soggetti che gestiscono i beni comuni non possono fare i profitti, che per
definizione sono privati.
Vale per l’acqua e vale per ogni bene comune.
Se il naturale proprietario di un bene è un gruppo di persone, dal punto di vista
etico ed economico non è ragionevole utilizzare questo bene affinché pochi soggetti (magari nemmeno residenti, come nel caso delle multinazionali straniere) ne facciano profitto. Inoltre, il profitto guarda al breve periodo, non al lungo o al lunghissimo periodo, come invece si dovrebbe fare specie nel caso dell’acqua: l’unità di misura temporale delle multinazionali è il trimestre.
Il referendum sarà un punto di partenza. Il tema dell’acqua appassiona le persone, ma ci vorrebbe più dibattito pubblico. Dopo la vittoria dei sì, che ci auguriamo, dovremo infatti chiederci che cosa fare, come trovare nuove vie di efficienza.
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