di Sandro Chignola in Il Manifesto. Fonte: sinistrainrete
L’angolo d’attacco potrebbe essere vario. Governi le cui politiche, per quanto evidentemente neocoloniali o segregazioniste, vengono certificati come democratici solo in base alle procedure elettorali che li hanno nominati (e poco importa, perciò, che sradichino ulivi, impediscano l’accesso all’acqua, confinino popolazioni); politici che alle stesse procedure si riferiscono per rinvenirvi quel sacré du peuple che li autorizza a fare quello che vogliono in spregio alla costituzione, quando non, più semplicenente, alla pura evidenza della loro inettitudine; alleanze che, recitando il mantra dell’esportazione, o della difesa, della democrazia, fanno rombare i motori dei caccia, accendono i puntatori laser e sganciano bombe. E tuttavia: piazze arabe che straboccano di passione, processi di soggettivazione che rovesciano equilibri secolari, mobilitazioni «indignate» che cingono d’assedio fortini della rappresentanza e trincee del ceto politico, cittadini che si attivano contro la desertificazione e il saccheggio del territorio, per i beni comuni, in difesa di un’idea di partecipazione che tendenzialmente rifiuta il monopolio statuale sulla formazione della volontà generale.
In un caso come nell’altro, il riferimento va alla parola «democrazia», di volta in volta evocata come forma di governo, ideologia, procedura, ma anche come rivendicazione, apertura, eccedenza, pratica costituente diretta. Se ne potrebbe dedurre – e talvolta indulgo a farlo – che quella parola tenda ad essere concettualmente evanescente, un puro riferimento retorico, un significante vuoto pronto ad essere occupato da materialissimi processi di potere o da altrettanto concreti processi di soggettivazione.
Democrazia come «orizzonte assiologico» dell’Occidente: da un lato, leva per la legittimazione di una sorta di superiorità morale, cuore del sistema di valori attraverso il quale si riproduce l’identità del processo politico, istanza di mobilitazione permanentemente a disposizione per rilanciare oltre gli equilibri provvisoriamente raggiunti le dinamiche di inclusione (e di esclusione) che lo segnano; dall’altro, risorsa ambigua, concetto usurato, nobile, ma vetusto, mantello gettato sulle contraddizioni e sulla crescita delle disuguaglianze, sulla cruda violenza degli scontri geopolitici di potere, sulle strettoie e le opacità che inquinano i flussi informativi e comunicativi che dovrebbero, invece, stare alla sua base.
Assumere questa posizione, però, non aiuterebbe a capire i processi che segnano la storia degli ultimi decenni, né, io credo, ciò potrebbe darci indicazioni rispetto a come posizionarci al loro interno. «Democrazia» è un concetto politico la cui storia – meglio: la cui genealogia – deve essere ancora sondata in tutte le sue articolazioni e vagliata in rapporto a quanto nella contemporaneità tende a porne in crisi gli esiti (l’incrocio con la vischiosità degli interessi, la trasformazione dei partiti in macchine oligarchiche di organizzazione e gestione del consenso e del potere, l’inceppo dei meccanisi di partecipazione, la forbice che si spalanca sempre di più tra libertà ed uguaglianza, ad esempio): i saggi che compogono il volume curato da Carlo Altini (Democrazia. Storia e teoria di un’esperienza filosofica e politica, Il Mulino, Bologna 2011), ci aiutano indubbiamente a fare il punto su questo.
Non si può non riconoscere che i molti contributi che compongono il libro condividono un aspetto: e cioè la consapevolezza delle problematicità e delle contraddizioni che afferiscono nell’impiego contemporaneo del termine. Di nuovo: da un lato, assunto come vettore fondamentale del progresso (la democrazia come ciò che può e che deve essere «esportato», secondo la formula più radicale; serie di «ondate» – l’espressione è di Samuel Huntington – che avrebbero dovuto riallineare l’esperienza politica globale dopo il crollo del muro di Berlino; punto di arresto della storia e delle sue polarizzazioni nel presente poststorico che la sovrappone al mercato), dall’altro, equivoco che permette lo scambio che traduce la libertà in consumo, la partecipazione in spettacolo, la cittadinanza in populismo. È da una sorta di diagnostica sullo stato della democrazia – ma potrebbe forse dirsi sullo stato generale della politica, dato che, all’interno dell’orizzonte assiologico di cui dicevo poco sopra, democrazia e politica tendono in qualche modo a sovrapporsi, nell’ordine del discorso occidentale – che muovono la maggior parte dei testi raccolti nel volume. Una diagnosi che, appunto, tende ad essere piuttosto sconfortante.
Sheldon Wolin, in un libro di un paio di anni fa (Democracy Incorporated. Managed Democracy and the Spectre of Inverted Totalitarianism), ha sostenuto che la democrazia, e non solo negli USA di Obama, che veniva eletto Presidente proprio nello stesso anno, non se la passasse affatto bene nella combinazione di indifferenza popolare, persuasione mediatica, dominio degli interessi delle grandi Corporations e ossessione per la sicurezza, che la segna. Il soprassalto di entusiasmo per Obama non avrebbe in seguito reso meno drastica quella diagnosi. Come per Tocqueville, «classico» al quale del resto Wolin aveva in precedenza dedicato un altro libro (Tocqueville between Two Worlds: The Making of a Political and Theoretical Life), in democrazia si determinerebbe una sorta di inerziale tendenza alla spoliticizzazione tanto più pericolosa, quanto più destinata ad incrociarsi con assetti istituzionali rappresentativi volti a delegare e a centralizzare la decisione politica. Autorizzare qualcuno – per quanto dal basso di un’investitura popolare – ad occuparsi degli affari di tutti significa assegnargli una funzione che Foucault avrebbe definito «pastorale» e trasformare, rispetto ad esso, la cittadinanza in un ruminante gregge di consumatori. Wolin non esita a definire la democrazia matura un «totalitarismo rovesciato»: un sistema che prospera sulla polverizzazione dei legami tra i suoi cittadini, sulla loro insicurezza, sull’investimento che essi fanno sugli apparati dello Stato come risorsa per fruire pacificamente di un isolamento rancoroso e passivo, di una libertà intesa come opzione di consumo, frutto di un infantile investimento sull’autorità in grado di garantirlo.
È dunque sulla parabola che si estende dalle origini della democrazia al suo compimento (o al suo possibile futuro) che si interrogano gli autori raccolti nel libro. Tracciando genealogie concettuali – quando e in che senso si parli di demokratia in antica Grecia, facendo notare come il termine non ricorra in latino, così come non vi sia un corrispondente greco per repraesentatio; annotando i diversi significati assunti dal termine libertà nella storia del pensiero politico e giuridico occidentale; studiando le origini della nozione di democrazia rappresentativa (Canfora, Giorgini, Costa, Urbinati) -; vagliando antinomie e problemi della democrazia e della «società aperta» (Antiseri, Reinhard); evidenziando le aporie del contratto sociale rousseauiano (Karsenti), oppure i problemi della democrazia contemporanea (dall’individualismo passivo ai conflitti di riconoscimento; dalla democrazia delle reti ai rischi del multiculturalismo; dall’antipolitica alla globalizzazione) (Andolfi, Bencivenga, Zanetti, Portinaro, Mény, Petrucciani, Fistetti, Altini, Archibugi, Tagliagambe), i diversi contributi al volume tracciano un percorso ricco (per le diverse impostazioni del problema) e complesso (per le posizioni non sempre filosoficamente conciliabili).
Ciò che ne emerge, volendo definire una sensazione unitaria, è la consapevolezza dei problemi che attraversano l’uso contemporaneo del termine e l’intenzione di rilanciarlo, in funzione progressiva, come insieme di pratiche di partecipazione. E’ tuttavia significativo, a mio avviso, che la pressoché totalità dei saggi assuma lessico e problemi della democrazia facendoli gravitare su di un baricentro mai esplicitamente messo in discussione. Il baricentro di un ordine del discorso implicitamente occidentale, sull’orlo del quale si «chiude» la circonferenza del cerchio magico del riconoscimento.
Basti ricordare il tema del multiculturalismo – desunto senza eccezioni dal dibattito americano come il problema che disloca in senso orizzontale il problema dei compiti di integrazione della democrazia rispetto alla verticalità del compito redistributivo in funzione di un’implementazione dell’uguaglianza dato ormai per esaurito, anche quando di quel dibattito si critica, e a ragione, la troppo fissista e piena nozione di appartenenza culturale – o il concetto, impiegato da Fistetti, di «Dasein mediale» come trascendentale coattivo dell’individuazione postmoderna.
Ora, se per problematizzare quest’ultimo dato è sufficiente ricordare, con buona pace dei francofortesi, quanto del bisogno di democrazia che ha sollevato le masse dei paesi del Nordafrica e del Medioriente (ma si tratta di un dato d’esperienza che riguarda l’intera organizzazione delle lotte del lavoro cognitivo in Europa e fuori d’Europa: a Londra, in Spagna, in Grecia e in tutti i conflitti sulle controriforme universitarie), segnando quantomeno un’ambivalenza, si sia alimentato di immaginari, simboli e mezzi di comunicazione che appartengono a quelle sfere dell’informazione che altri usa a scopo captativo o di disciplinamento, parlare di multiculturalismo senza mettere radicalmente in discussione il complesso rapporto che la democrazia produce tra riconoscimento ed esclusione, tra circuiti di abilitazione e meccanismi di invisibilizzazione, tra il suo «dentro» e il suo «fuori», mi sembra operazione troppo evidentemente succube alle linee di un dibattito angloamericano registrato secondo il suo Mainstream.
La democrazia è anche un’«esperienza» (per riprendere il titolo del volume) poliziesca potrebbe dirsi riprendendo Rancière e Foucault: il modo nel quale viene amministrata una topologia, un sistema di posizioni all’interno del quale soltanto si produce il lavoro dell’integrazione. Ecco allora le culture, cui vengono indefettibilmente assegnati i soggetti, le identità, le posizioni etiche o di valore, i perni sui quali gira la logica di riconoscimento democratica. E poco importa ciò che non si vede. L’effetto di visibilità e di trasparenza della democrazia è reso possibile proprio da ciò che viene oscurato, nascosto, reso invisibile o rimosso. Non solo in termini effettuali – che so: le donne islamiche irriducibili alla secca alternativa culturale tra fedeltà culturale e un’altrettanto integrale occidentalizzazione che hanno spinto la rivolta delle banlieues di qualche anno fa, inquietanti presenze di molte periferie metropolitane, oppure i milioni di giovani, dall’identità e dai consumi ibridati e meticci, ricacciati ai margini da un processo di socializzazione che letteralmente non sa come classificarli (precar*? student*? NEETs – Not in Education, Employment, or Training?) –, ma anche secondo l’archivio utilizzato per poterne parlare. Come se, cioè, di democrazia si potesse parlare solo a partire da Platone, Aristotele (e le loro riprese novecentesche), da Constant e Montesquieu, da Kant, Hegel e (addirittura) Popper, Hayek e Rawls e nulla, sulla democrazia e il suo gioco di invisibilizzazione, avessero da dire Gandhi e Lenin, Nietzsche e Marx (basti ricordare La questione ebraica), Du Bois e Fanon.
Guardare al modo nel quale vengono progettate le istituzioni e le tecnologie di governo per il mondo globale senza assumerle esclusivamente come sintomo di una crisi della democrazia e tenere in considerazione come il narrative della partecipazione obliteri invece logiche di neutralizzazione e di compatibilizzazione delle istanze democratico-radicali, credo potrebbe aprire percorsi più interessanti. Percorsi, accolgo la sfida di Altini a pensare senza curarsi del politically correct, che ci spingerebbero probabilmente a portare la democrazia oltre i limiti della teoria democratica; a rilanciare la democrazia stessa oltre la democrazia.
L’angolo d’attacco potrebbe essere vario. Governi le cui politiche, per quanto evidentemente neocoloniali o segregazioniste, vengono certificati come democratici solo in base alle procedure elettorali che li hanno nominati (e poco importa, perciò, che sradichino ulivi, impediscano l’accesso all’acqua, confinino popolazioni); politici che alle stesse procedure si riferiscono per rinvenirvi quel sacré du peuple che li autorizza a fare quello che vogliono in spregio alla costituzione, quando non, più semplicenente, alla pura evidenza della loro inettitudine; alleanze che, recitando il mantra dell’esportazione, o della difesa, della democrazia, fanno rombare i motori dei caccia, accendono i puntatori laser e sganciano bombe. E tuttavia: piazze arabe che straboccano di passione, processi di soggettivazione che rovesciano equilibri secolari, mobilitazioni «indignate» che cingono d’assedio fortini della rappresentanza e trincee del ceto politico, cittadini che si attivano contro la desertificazione e il saccheggio del territorio, per i beni comuni, in difesa di un’idea di partecipazione che tendenzialmente rifiuta il monopolio statuale sulla formazione della volontà generale.
In un caso come nell’altro, il riferimento va alla parola «democrazia», di volta in volta evocata come forma di governo, ideologia, procedura, ma anche come rivendicazione, apertura, eccedenza, pratica costituente diretta. Se ne potrebbe dedurre – e talvolta indulgo a farlo – che quella parola tenda ad essere concettualmente evanescente, un puro riferimento retorico, un significante vuoto pronto ad essere occupato da materialissimi processi di potere o da altrettanto concreti processi di soggettivazione.
Democrazia come «orizzonte assiologico» dell’Occidente: da un lato, leva per la legittimazione di una sorta di superiorità morale, cuore del sistema di valori attraverso il quale si riproduce l’identità del processo politico, istanza di mobilitazione permanentemente a disposizione per rilanciare oltre gli equilibri provvisoriamente raggiunti le dinamiche di inclusione (e di esclusione) che lo segnano; dall’altro, risorsa ambigua, concetto usurato, nobile, ma vetusto, mantello gettato sulle contraddizioni e sulla crescita delle disuguaglianze, sulla cruda violenza degli scontri geopolitici di potere, sulle strettoie e le opacità che inquinano i flussi informativi e comunicativi che dovrebbero, invece, stare alla sua base.
Assumere questa posizione, però, non aiuterebbe a capire i processi che segnano la storia degli ultimi decenni, né, io credo, ciò potrebbe darci indicazioni rispetto a come posizionarci al loro interno. «Democrazia» è un concetto politico la cui storia – meglio: la cui genealogia – deve essere ancora sondata in tutte le sue articolazioni e vagliata in rapporto a quanto nella contemporaneità tende a porne in crisi gli esiti (l’incrocio con la vischiosità degli interessi, la trasformazione dei partiti in macchine oligarchiche di organizzazione e gestione del consenso e del potere, l’inceppo dei meccanisi di partecipazione, la forbice che si spalanca sempre di più tra libertà ed uguaglianza, ad esempio): i saggi che compogono il volume curato da Carlo Altini (Democrazia. Storia e teoria di un’esperienza filosofica e politica, Il Mulino, Bologna 2011), ci aiutano indubbiamente a fare il punto su questo.
Non si può non riconoscere che i molti contributi che compongono il libro condividono un aspetto: e cioè la consapevolezza delle problematicità e delle contraddizioni che afferiscono nell’impiego contemporaneo del termine. Di nuovo: da un lato, assunto come vettore fondamentale del progresso (la democrazia come ciò che può e che deve essere «esportato», secondo la formula più radicale; serie di «ondate» – l’espressione è di Samuel Huntington – che avrebbero dovuto riallineare l’esperienza politica globale dopo il crollo del muro di Berlino; punto di arresto della storia e delle sue polarizzazioni nel presente poststorico che la sovrappone al mercato), dall’altro, equivoco che permette lo scambio che traduce la libertà in consumo, la partecipazione in spettacolo, la cittadinanza in populismo. È da una sorta di diagnostica sullo stato della democrazia – ma potrebbe forse dirsi sullo stato generale della politica, dato che, all’interno dell’orizzonte assiologico di cui dicevo poco sopra, democrazia e politica tendono in qualche modo a sovrapporsi, nell’ordine del discorso occidentale – che muovono la maggior parte dei testi raccolti nel volume. Una diagnosi che, appunto, tende ad essere piuttosto sconfortante.
Sheldon Wolin, in un libro di un paio di anni fa (Democracy Incorporated. Managed Democracy and the Spectre of Inverted Totalitarianism), ha sostenuto che la democrazia, e non solo negli USA di Obama, che veniva eletto Presidente proprio nello stesso anno, non se la passasse affatto bene nella combinazione di indifferenza popolare, persuasione mediatica, dominio degli interessi delle grandi Corporations e ossessione per la sicurezza, che la segna. Il soprassalto di entusiasmo per Obama non avrebbe in seguito reso meno drastica quella diagnosi. Come per Tocqueville, «classico» al quale del resto Wolin aveva in precedenza dedicato un altro libro (Tocqueville between Two Worlds: The Making of a Political and Theoretical Life), in democrazia si determinerebbe una sorta di inerziale tendenza alla spoliticizzazione tanto più pericolosa, quanto più destinata ad incrociarsi con assetti istituzionali rappresentativi volti a delegare e a centralizzare la decisione politica. Autorizzare qualcuno – per quanto dal basso di un’investitura popolare – ad occuparsi degli affari di tutti significa assegnargli una funzione che Foucault avrebbe definito «pastorale» e trasformare, rispetto ad esso, la cittadinanza in un ruminante gregge di consumatori. Wolin non esita a definire la democrazia matura un «totalitarismo rovesciato»: un sistema che prospera sulla polverizzazione dei legami tra i suoi cittadini, sulla loro insicurezza, sull’investimento che essi fanno sugli apparati dello Stato come risorsa per fruire pacificamente di un isolamento rancoroso e passivo, di una libertà intesa come opzione di consumo, frutto di un infantile investimento sull’autorità in grado di garantirlo.
È dunque sulla parabola che si estende dalle origini della democrazia al suo compimento (o al suo possibile futuro) che si interrogano gli autori raccolti nel libro. Tracciando genealogie concettuali – quando e in che senso si parli di demokratia in antica Grecia, facendo notare come il termine non ricorra in latino, così come non vi sia un corrispondente greco per repraesentatio; annotando i diversi significati assunti dal termine libertà nella storia del pensiero politico e giuridico occidentale; studiando le origini della nozione di democrazia rappresentativa (Canfora, Giorgini, Costa, Urbinati) -; vagliando antinomie e problemi della democrazia e della «società aperta» (Antiseri, Reinhard); evidenziando le aporie del contratto sociale rousseauiano (Karsenti), oppure i problemi della democrazia contemporanea (dall’individualismo passivo ai conflitti di riconoscimento; dalla democrazia delle reti ai rischi del multiculturalismo; dall’antipolitica alla globalizzazione) (Andolfi, Bencivenga, Zanetti, Portinaro, Mény, Petrucciani, Fistetti, Altini, Archibugi, Tagliagambe), i diversi contributi al volume tracciano un percorso ricco (per le diverse impostazioni del problema) e complesso (per le posizioni non sempre filosoficamente conciliabili).
Ciò che ne emerge, volendo definire una sensazione unitaria, è la consapevolezza dei problemi che attraversano l’uso contemporaneo del termine e l’intenzione di rilanciarlo, in funzione progressiva, come insieme di pratiche di partecipazione. E’ tuttavia significativo, a mio avviso, che la pressoché totalità dei saggi assuma lessico e problemi della democrazia facendoli gravitare su di un baricentro mai esplicitamente messo in discussione. Il baricentro di un ordine del discorso implicitamente occidentale, sull’orlo del quale si «chiude» la circonferenza del cerchio magico del riconoscimento.
Basti ricordare il tema del multiculturalismo – desunto senza eccezioni dal dibattito americano come il problema che disloca in senso orizzontale il problema dei compiti di integrazione della democrazia rispetto alla verticalità del compito redistributivo in funzione di un’implementazione dell’uguaglianza dato ormai per esaurito, anche quando di quel dibattito si critica, e a ragione, la troppo fissista e piena nozione di appartenenza culturale – o il concetto, impiegato da Fistetti, di «Dasein mediale» come trascendentale coattivo dell’individuazione postmoderna.
Ora, se per problematizzare quest’ultimo dato è sufficiente ricordare, con buona pace dei francofortesi, quanto del bisogno di democrazia che ha sollevato le masse dei paesi del Nordafrica e del Medioriente (ma si tratta di un dato d’esperienza che riguarda l’intera organizzazione delle lotte del lavoro cognitivo in Europa e fuori d’Europa: a Londra, in Spagna, in Grecia e in tutti i conflitti sulle controriforme universitarie), segnando quantomeno un’ambivalenza, si sia alimentato di immaginari, simboli e mezzi di comunicazione che appartengono a quelle sfere dell’informazione che altri usa a scopo captativo o di disciplinamento, parlare di multiculturalismo senza mettere radicalmente in discussione il complesso rapporto che la democrazia produce tra riconoscimento ed esclusione, tra circuiti di abilitazione e meccanismi di invisibilizzazione, tra il suo «dentro» e il suo «fuori», mi sembra operazione troppo evidentemente succube alle linee di un dibattito angloamericano registrato secondo il suo Mainstream.
La democrazia è anche un’«esperienza» (per riprendere il titolo del volume) poliziesca potrebbe dirsi riprendendo Rancière e Foucault: il modo nel quale viene amministrata una topologia, un sistema di posizioni all’interno del quale soltanto si produce il lavoro dell’integrazione. Ecco allora le culture, cui vengono indefettibilmente assegnati i soggetti, le identità, le posizioni etiche o di valore, i perni sui quali gira la logica di riconoscimento democratica. E poco importa ciò che non si vede. L’effetto di visibilità e di trasparenza della democrazia è reso possibile proprio da ciò che viene oscurato, nascosto, reso invisibile o rimosso. Non solo in termini effettuali – che so: le donne islamiche irriducibili alla secca alternativa culturale tra fedeltà culturale e un’altrettanto integrale occidentalizzazione che hanno spinto la rivolta delle banlieues di qualche anno fa, inquietanti presenze di molte periferie metropolitane, oppure i milioni di giovani, dall’identità e dai consumi ibridati e meticci, ricacciati ai margini da un processo di socializzazione che letteralmente non sa come classificarli (precar*? student*? NEETs – Not in Education, Employment, or Training?) –, ma anche secondo l’archivio utilizzato per poterne parlare. Come se, cioè, di democrazia si potesse parlare solo a partire da Platone, Aristotele (e le loro riprese novecentesche), da Constant e Montesquieu, da Kant, Hegel e (addirittura) Popper, Hayek e Rawls e nulla, sulla democrazia e il suo gioco di invisibilizzazione, avessero da dire Gandhi e Lenin, Nietzsche e Marx (basti ricordare La questione ebraica), Du Bois e Fanon.
Guardare al modo nel quale vengono progettate le istituzioni e le tecnologie di governo per il mondo globale senza assumerle esclusivamente come sintomo di una crisi della democrazia e tenere in considerazione come il narrative della partecipazione obliteri invece logiche di neutralizzazione e di compatibilizzazione delle istanze democratico-radicali, credo potrebbe aprire percorsi più interessanti. Percorsi, accolgo la sfida di Altini a pensare senza curarsi del politically correct, che ci spingerebbero probabilmente a portare la democrazia oltre i limiti della teoria democratica; a rilanciare la democrazia stessa oltre la democrazia.
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