di Giuliano Garavini. Fonte: paneacqua
Dibattito Abbiamo davvero da gioire per la concessione di aiuti alle economie europee in difficoltà? L'unica cosa che gli aiuti in realtà indicano è che ci sono ineguaglianze strutturali fra diverse aree del mondo, fra le aree interne ad una nazione o ad una comunità di nazioni come l'Unione europea, problemi che non possono semplicemente essere risolti affidandosi alla mano invisibile e spietata del mercato. Per rispondere a questa domanda occorre dunque fare un passo indietro, al momento in cui l'intera idea degli aiuti alle aree sottosviluppate è stata concepita
C'è uno strano e inconscio fenomeno collettivo per il quale tutti attendiamo con ansia la concessione delle nuove tranches di aiuti a paesi in difficoltà ai margini della zona euro. Abbiamo atteso il generoso intervento della Banca centrale europea e del Fondo monetario internazionale a sostegno dell'Irlanda, poi del Portogallo e della Grecia. La concessione di un'ennesima tranche da 12 miliardi di euro di aiuti alla Grecia è passata nel dramma sociale interno e nel parossismo collettivo e mediatico europeo, con tutte le borse appese ad un filo, con gli europei a pensare se, senza quei 12 miliardi, di Atene, e con essa di tutta l'Unione europea, non sarebbero rimaste che macerie. Ma abbiamo davvero da gioire per la concessione di aiuti alle economie europee in difficoltà?
Per rispondere a questa domanda occorre fare un passo indietro, al momento in cui l'intera idea degli aiuti alle aree sottosviluppate è stata concepita. Gli inizi non sono incoraggianti visto che si collocano in piena epoca coloniale, prevalentemente nel periodo che va dalla fine della prima guerra mondiale agli anni '50, quando alcuni paesi europei si aggrappavano alle colonie con le unghie e con i denti, indirizzandovi massicci trasferimenti finanziari (la Francia intorno al 3 per cento del Pil) per convenienza nonché per motivi di prestigio nazionale. Con la fine del colonialismo, le ex colonie vennero rinominate "paesi in via di sviluppo", verso i quali passò l'idea che bisognasse distribuire aiuti coordinati da parte dei "paesi sviluppati": un'idea che dura fino ad oggi sebbene soggetta ad un numero crescente di critiche non irragionevoli. Quel che interessa qui notare è che gli stessi paesi in via di sviluppo, allora conosciuti come Terzo Mondo, non erano poi così contenti di essere considerati meri percettori di aiuti internazionali, tanto che nel 1964 crearono un'organizzazione per avere voce internazionale (l'Unctad) e, sotto lo slogan trade not aid (commercio e non aiuti), si diedero da fare non senza alcuni successi per modificare il funzionamento strutturale dell'economia internazionale.
Mi pare utile questa prospettiva storica per mettere in discussione l'idea, a prima vista scontata, che gli aiuti siano di per sé cosa benefica. L'unica cosa che gli aiuti in realtà indicano è che ci sono ineguaglianze strutturali fra diverse aree del mondo, fra le aree interne ad una nazione o ad una comunità di nazioni come l'Unione europea, problemi che non possono semplicemente essere risolti affidandosi alla mano invisibile e spietata del mercato. Si ricorre allora agli aiuti che però, tra le possibili cure a squilibri economici e sociali, sono certamente la peggiore perché creano dipendenza politica oltre che economica e perché sono toppe a vestiti sgualciti la cui utilità dipende in ultima analisi dall'utilizzo che se ne fa.
Sappiamo che Irlanda, Portogallo e Grecia sono entrate in una crisi che ne sta facendo vacillare il sistema finanziario e minando seriamente la solidità dell'economia. Ora, per correre in loro soccorso, Fondo monetario internazionale e Unione europea hanno stabilito piani di aiuti da 110 miliardi di euro per la Grecia, 85 per l'Irlanda e 78 per il Portogallo. La caratteristica interessante di tutti questi piani è che una parte importante dei soldi va direttamente alle banche (35 miliardi nel caso irlandese, 10 miliardi nel caso portoghese), mentre l'altra parte va anche quella alle banche, ma solo indirettamente, permettendo a questi paesi di saldare il loro debito internazionale contratto in larga parte con istituzioni private francesi e tedesche. In cambio della salvaguardia dei sistemi bancari, tutti i piani prevedono le stesse identiche ricette lacrime e sangue per i cittadini, corredate da riduzione di stipendi e pensioni, riduzioni del numero impiegati pubblici e massicce privatizzazioni di compagnie aree, banche e servizi di ogni genere, fino a parti stesse del territorio. Un altro edificante particolare del funzionamento dello European Financial Stability Facility (http://www.efsf.europa.eu/attachments/efsf_presentation_en.pdf) è che, mentre si ripagano banche che hanno fatto profitti speculando sul differenziale tra tassi di interessi con i quali loro prendevano soldi a prestito e i tassi su alcuni debiti pubblici, ci guadagnano anche le istituzioni pubbliche che prestano i soldi.
Da questo ragionamento, e per quanto paradossale possa sembrare, io ne derivo che le forze della sinistra politica e sindacale europea non hanno alcun interesse a che questo sistema basato sulle crisi e poi sugli aiuti dell'ultimo momento si perpetui. Il punto è che proprio non si vede in che modo, dopo aver salvato i rispettivi sistemi finanziari, cittadini senza un soldo in tasca e senza un lavoro dovrebbero stare meglio. Le forze politiche e sociali della sinistra europea dovrebbero invece opporsi, prima di tutto nel Parlamento europeo, ad ogni ulteriore erogazioni di aiuti finanziari che non vadano di pari passo a modifiche della strutturali della governance economica dell'Unione europea delle quali ancora non si vede alcuna traccia: armonizzazione della fiscalità, difesa di beni comuni dalla privatizzazione, restrizioni alle banche sugli investimenti finanziari, obblighi per i paesi in surplus commerciale, regole comuni sul lavoro.
Dibattito Abbiamo davvero da gioire per la concessione di aiuti alle economie europee in difficoltà? L'unica cosa che gli aiuti in realtà indicano è che ci sono ineguaglianze strutturali fra diverse aree del mondo, fra le aree interne ad una nazione o ad una comunità di nazioni come l'Unione europea, problemi che non possono semplicemente essere risolti affidandosi alla mano invisibile e spietata del mercato. Per rispondere a questa domanda occorre dunque fare un passo indietro, al momento in cui l'intera idea degli aiuti alle aree sottosviluppate è stata concepita
C'è uno strano e inconscio fenomeno collettivo per il quale tutti attendiamo con ansia la concessione delle nuove tranches di aiuti a paesi in difficoltà ai margini della zona euro. Abbiamo atteso il generoso intervento della Banca centrale europea e del Fondo monetario internazionale a sostegno dell'Irlanda, poi del Portogallo e della Grecia. La concessione di un'ennesima tranche da 12 miliardi di euro di aiuti alla Grecia è passata nel dramma sociale interno e nel parossismo collettivo e mediatico europeo, con tutte le borse appese ad un filo, con gli europei a pensare se, senza quei 12 miliardi, di Atene, e con essa di tutta l'Unione europea, non sarebbero rimaste che macerie. Ma abbiamo davvero da gioire per la concessione di aiuti alle economie europee in difficoltà?
Per rispondere a questa domanda occorre fare un passo indietro, al momento in cui l'intera idea degli aiuti alle aree sottosviluppate è stata concepita. Gli inizi non sono incoraggianti visto che si collocano in piena epoca coloniale, prevalentemente nel periodo che va dalla fine della prima guerra mondiale agli anni '50, quando alcuni paesi europei si aggrappavano alle colonie con le unghie e con i denti, indirizzandovi massicci trasferimenti finanziari (la Francia intorno al 3 per cento del Pil) per convenienza nonché per motivi di prestigio nazionale. Con la fine del colonialismo, le ex colonie vennero rinominate "paesi in via di sviluppo", verso i quali passò l'idea che bisognasse distribuire aiuti coordinati da parte dei "paesi sviluppati": un'idea che dura fino ad oggi sebbene soggetta ad un numero crescente di critiche non irragionevoli. Quel che interessa qui notare è che gli stessi paesi in via di sviluppo, allora conosciuti come Terzo Mondo, non erano poi così contenti di essere considerati meri percettori di aiuti internazionali, tanto che nel 1964 crearono un'organizzazione per avere voce internazionale (l'Unctad) e, sotto lo slogan trade not aid (commercio e non aiuti), si diedero da fare non senza alcuni successi per modificare il funzionamento strutturale dell'economia internazionale.
Mi pare utile questa prospettiva storica per mettere in discussione l'idea, a prima vista scontata, che gli aiuti siano di per sé cosa benefica. L'unica cosa che gli aiuti in realtà indicano è che ci sono ineguaglianze strutturali fra diverse aree del mondo, fra le aree interne ad una nazione o ad una comunità di nazioni come l'Unione europea, problemi che non possono semplicemente essere risolti affidandosi alla mano invisibile e spietata del mercato. Si ricorre allora agli aiuti che però, tra le possibili cure a squilibri economici e sociali, sono certamente la peggiore perché creano dipendenza politica oltre che economica e perché sono toppe a vestiti sgualciti la cui utilità dipende in ultima analisi dall'utilizzo che se ne fa.
Sappiamo che Irlanda, Portogallo e Grecia sono entrate in una crisi che ne sta facendo vacillare il sistema finanziario e minando seriamente la solidità dell'economia. Ora, per correre in loro soccorso, Fondo monetario internazionale e Unione europea hanno stabilito piani di aiuti da 110 miliardi di euro per la Grecia, 85 per l'Irlanda e 78 per il Portogallo. La caratteristica interessante di tutti questi piani è che una parte importante dei soldi va direttamente alle banche (35 miliardi nel caso irlandese, 10 miliardi nel caso portoghese), mentre l'altra parte va anche quella alle banche, ma solo indirettamente, permettendo a questi paesi di saldare il loro debito internazionale contratto in larga parte con istituzioni private francesi e tedesche. In cambio della salvaguardia dei sistemi bancari, tutti i piani prevedono le stesse identiche ricette lacrime e sangue per i cittadini, corredate da riduzione di stipendi e pensioni, riduzioni del numero impiegati pubblici e massicce privatizzazioni di compagnie aree, banche e servizi di ogni genere, fino a parti stesse del territorio. Un altro edificante particolare del funzionamento dello European Financial Stability Facility (http://www.efsf.europa.eu/attachments/efsf_presentation_en.pdf) è che, mentre si ripagano banche che hanno fatto profitti speculando sul differenziale tra tassi di interessi con i quali loro prendevano soldi a prestito e i tassi su alcuni debiti pubblici, ci guadagnano anche le istituzioni pubbliche che prestano i soldi.
Da questo ragionamento, e per quanto paradossale possa sembrare, io ne derivo che le forze della sinistra politica e sindacale europea non hanno alcun interesse a che questo sistema basato sulle crisi e poi sugli aiuti dell'ultimo momento si perpetui. Il punto è che proprio non si vede in che modo, dopo aver salvato i rispettivi sistemi finanziari, cittadini senza un soldo in tasca e senza un lavoro dovrebbero stare meglio. Le forze politiche e sociali della sinistra europea dovrebbero invece opporsi, prima di tutto nel Parlamento europeo, ad ogni ulteriore erogazioni di aiuti finanziari che non vadano di pari passo a modifiche della strutturali della governance economica dell'Unione europea delle quali ancora non si vede alcuna traccia: armonizzazione della fiscalità, difesa di beni comuni dalla privatizzazione, restrizioni alle banche sugli investimenti finanziari, obblighi per i paesi in surplus commerciale, regole comuni sul lavoro.
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