Fonte: Le Monde Diplomatique
LA CRISI DEL LIBERISMO CHE RAFFORZA I LIBERISTI
Dire una cosa ed il suo contrario, beneficiando del proprio statuto di oracoli, è il privilegio dei «mercati». Il fatto che denuncino allo stesso tempo il tracollo dell’economia greca, strangolata dall’austerità, e la disinvoltura italiana sui conti pubblici, che ne rallenta l’attuazione, rappresenta un corto circuito rivelatore. Davvero non riusciamo a immaginare un’altra «regola aurea», che non comporti questo «sonno della ragione»?
di LAURENT CORDONNIER*
Supponiamo che nel presente «salvare» la Grecia rappresenti proprio la priorità. Se si segue il corso d’idee che sembra dominante, ciò significherebbe impedire qualunque default di pagamento da parte dello stato ellenico, e mantenere il paese nella zona euro. Non soltanto perché sarebbe catastrofico per i greci fallire uno di questi obiettivi, ma anche perché le conseguenze sarebbero devastanti per tutto il resto dell’Europa. In questo senso, salvare la Grecia sarebbe bene per i greci e per gli europei nel loro insieme. Ammettiamolo per un istante, e poniamoci la seguente domanda: a quali condizioni sarebbe possibile tutto ciò? Per porre meglio la questione, supponiamo che Atene riesca nei prossimi tre o quattro anni a ristabilire le sue finanze pubbliche, in modo tale che il debito non superi l’equivalente del 200% del Prodotto interno lordo (Pil). Non sarebbe un miglioramento: esso sfiora attualmente il 160% e il deficit di bilancio registrato per il periodo gennaio-agosto 2011 è di 18 miliardi di euro (ovvero 9 punti di Pil). Lungi dall’essere riassorbito, esso dunque è in aumento, in gran parte a causa della sbalorditiva austerità imposta alla popolazione che ha aggravato ulteriormente la recessione; mentre l’attività economica arretrerà del 5% nel 2011. Lo storno del 21% sull’ammontare dei crediti, accettato «benevolmente sotto vincolo» dalle banche europee, in virtù dell’accordo del 21 luglio, potrebbe tuttavia contribuire a rendere plausibile la soglia del 200%. La questione è quindi quella di sapere chi potrebbe sostenere a lungo termine un tale debito, in modo che le condizioni finanziarie non strangolino completamente la società greca (per non parlare di restituirle la sua gioia di vivere…). La prima parte della risposta è che, in assenza di misure vincolanti, solo la mano pubblica – e a livello europeo – avrà ancora la volontà di detenere questo debito. Come dichiara con molta semplicità un’agenzia finanziaria, «non pensiamo che gli investitori tornino ad acquistare (1)». Non soltanto qualunque aumento del debito greco potrà essere finanziato esclusivamente da creditori pubblici, ma via via che i titoli in stock dovranno essere rinnovati, il settore privato userà ogni cortesia per lasciare che a servirsi per primi siano il Fondo europeo di stabilità finanziaria (Fesf) e il Fondo monetario internazionale (Fmi). Nel frattempo, le banche e le altre istituzioni finanziarie troveranno sufficientemente comodo che la Banca centrale europea (Bce), contro tutte le sue prevenzioni dottrinarie, riscatti parte del debito sovrano, per accelerare l’alleggerimento dei loro fardelli. Nell’arco di qualche anno, il debito greco sarà dunque interamente detenuto dal settore pubblico. Resta da sapere quale sarà il tasso di interesse «accettabile» per la Grecia, così come per qualunque altra società. A meno di non voler provocare una rivoluzione popolare, la presa del potere da parte di una dittatura sanguinaria o la sparizione della civiltà greca, si potrebbe affermare che una nazione sviluppata non riuscirebbe a sopportare a lungo un prelievo annuo superiore al 6% della ricchezza nazionale che produce – il che equivarrebbe già, per Atene, alla metà delle remunerazioni della funzione pubblica (2). A titolo di paragone, l’attuale carico annuale del debito dello stato francese rappresenta circa il 2,3% del Pil. Ammettendo quindi una stabilizzazione del debito pubblico greco al 200% del Pil nazionale, sarebbe necessario limitare al 3% il tasso di interesse reale sul debito nazionale per restare al di sotto di questo prelievo del 6% del Pil. Insomma, se gli stati europei riuscissero a prendere a prestito sui mercati al 3% (o meno) in termini reali, riuscirebbero a finanziare il debito greco senza che ciò costi loro un soldo. A metà settembre, il Fesf è giunto ad ammassare 5 miliardi di euro (in dieci anni) per finanziare il piano di aiuto al Portogallo ad un tasso nominale del 2,75%. Considerando che il tasso di inflazione previsto dai finanziatori ruota intorno al 2%, ciò comporta in definitiva un tasso di interesse reale dello 0,75%. Sarebbe quindi possibile finanziare durevolmente e per intero il debito greco a condizioni inferiori rispetto alla soglia di asfissia enunciata precedentemente. Questo scenario emergenziale esigerebbe tuttavia altri tre presupposti: che tale piano sia concepito con questo obiettivo esplicito, che i dirigenti europei riescano ad accordarsi su di esso, e che il Fesf sia dotato di una capacità di prestito superiore agli attuali 440 miliardi di euro. È ciò che ha compreso e spiegato ai dirigenti europei al momento del summit di Breslavia (Polonia) Timothy Geithner, ministro delle finanze statunitense. Non per affetto verso il Vecchio continente, ma sicuramente per amore delle banche, Geithner non concepisce di lasciarle ancora alla mercé di un default di pagamento da parte della Grecia. Con 440 miliardi di euro, il Fesf dispone a malapena di quanto è necessario per riscattare il debito di quel paese. Tuttavia bisogna ancora finanziare il piano del Portogallo e quello dell’Irlanda, e tenere una riserva per dimostrare di avere eventualmente anche di che alleggerire l’Italia e la Spagna (soltanto alleggerire…). Allora, a quanto dovrebbe ammontare l’importo dell’intervento del Fesf? Mille miliardi di euro sarebbe una cifra ragionevole. Ciò che è ragionevole potrebbe tuttavia produrre i suoi effetti solo se posto in essere in tempi… ragionevoli, con una pianificazione… ragionata, e la convinzione di agire con una determinazione… ragionata! Ogni nuova «avanzata a ritroso» da parte dei dirigenti europei, anche se effettuata nella direzione giusta, apparirà al contrario come una conversione inconsulta di fronte al precipitare di avvenimenti incontrollabili. Allora, il peggio diventerà certezza. Il peggio è già arrivato La sfiducia dei mercati si amplificherà. Una volta che la Bce avrà cessato il suo piano di riacquisto, i tassi d’interesse ricominceranno ad alzarsi sul debito italiano e su quello spagnolo. Sarà sufficiente allora un fischio dalle tribune perché tutti si convincano del fallo sul campo di gioco (un declassamento a raffica del rating sui debiti sovrani da parte delle agenzie di rating) e perché la predizione che alimenta se stessa si rimetta in movimento. I paesi colpiti non potrebbero più permettersi di rinnovare i titoli del loro debito giunti a scadenza, essendo costretti come sarebbero a chiedere prestiti a tassi ormai esorbitanti. Alla fine, il loro debito diventerebbe insostenibile, non in ragione del suo ammontare, ma a causa dell’impennata dei tassi di interesse. Ricordiamo infatti che un debito sul quale il tasso di interesse fosse nullo non costerebbe nulla! È dunque il suo aumento che rende il debito insostenibile (nel senso che il carico del pagamento degli interessi grava in egual misura sul bilancio statale). Ciò rafforza i creditori nell’opinione che il debito è divenuto insostenibile, conducendoli in cambio a formulare un premio al rischio più alto da richiedere allo stato che lo concede … il che spinge verso l’alto i tassi di interesse, rendendo sempre più plausibile il rischio di un loro futuro default. In questa atmosfera di panico, un Fesf che non fosse stato dotato di risorse sufficienti non permetterebbe la concessione di prestiti sui mercati alle condizioni vantaggiose che si presentano oggi. I rincari sul costo dei prestiti avrebbero delle ripercussioni sull’insieme dei debiti sovrani della zona euro, poiché il peso delle garanzie che gravano su questi prestiti aumenterebbe per i paesi che non farebbero ancora parte del gruppo degli stati soccorsi, come la Germania, i Paesi bassi e la Francia. Il piano di salvataggio europeo somiglierebbe quindi all’appoggio di due sostegni marci che si cerca di tenere insieme grazie al reciproco sforzo (3). Per questa stessa ragione, nemmeno le euro-obbligazioni (o eurobonds) costituirebbero, una soluzione molto migliore. Sulla carta, la formula, che consiste in una mutualizzazione dei debiti sovrani, modulata da un ingegnoso bonus-malus sui tassi di interesse, è elegante e politicamente intelligente (4). Come in una cosmogonia della nascita del federalismo di bilancio, l’Europa economica sorgerebbe dal caos della crisi del debito: il mito è anche commovente, ricchi premi e cotillon! Ma assomiglierà sempre agli stessi sostegni malandati. L’amalgama di tutti i debiti pubblici in un solo titolo emanerà paradossalmente un profumo di vino adulterato, richiamando troppo i crediti subprime, compilati, strutturati e cartolarizzati… un gioco di prestigio finalizzato a mescolare il grano buono con quello cattivo. Non resterà più, allora, e quale unica soluzione nell’emergenza, che costringere le banche europee a detenere l’insieme dei debiti pubblici degli stati europei sotto attacco. E forse in fondo è proprio ciò che cercano di fare i dirigenti europei. Essi, adepti di una sorta di liberismo trotzkista, potrebbero essere arrivati a pensare che, finché la crisi non sia finita, delle soluzioni positive non possano essere sbloccate. E chi potrebbe dare loro torto? Tutte le altre buone soluzioni potrebbero essere prese in considerazione serenamente solo una volta superata l’emergenza. Innanzitutto (finalmente) stabilire una tassa sulle transazioni finanziarie, così come una carbon tax a livello europeo, come proposto oggi dall’economista Michel Aglietta (5). Poi, l’abbandono dell’obiettivo letale dell’inflazione al 2%, per arrivare al 4 o al 5%. La misura più severa consisterebbe tuttavia nel generare l’inflazione. Come nota un altro specialista, Robert Boyer, «la sola speranza in questo quadro sarebbe quella di imbattersi in una penuria di manodopera in Cina, ma anche in conflitti sociali al suo interno che agevolino l’inflazione in quel paese. Ciò indurrebbe un ritorno dell’inflazione, provocata dai salari cinesi, che ridurrebbe nel mondo il peso dei debiti. Sarebbe uno scenario magnifico (6)». Inoltre, per dare una mano, sarebbe necessario forse (contemporaneamente) che il padronato europeo desse una piccola spinta alla contrattazione salariale… Per finire, fare adottare a livello europeo una regola aurea. Ma davvero rigorosa, seria e che comporti dei decreti attuativi! Si potrebbe vietare agli stati di superare il 3% del deficit di bilancio, con un obiettivo relativamente al debito pubblico inferiore al 30% del Pil. In caso di superamento dell’una o dell’altra soglia, si dovrebbe prevedere una disposizione tanto giusta quanto coraggiosa: l’instaurazione di un meccanismo di rialzo automatico dell’aliquota marginale d’imposta sul reddito (al 90% al di sopra dei 35 000 euro netti, per unità di consumo e su base annuale), in modo tale da riportare il deficit nei limiti della regola aurea. Se una socialdemocrazia europea di nuovo affamata di buone idee fissasse un più ragionevole tasso dell’85% nessuno quindi avrebbe da ridire.
note:
* Economista, autore di L’Economie des Toambapiks, Raisons d’agir, Parigi, 2010.
(1) Nomura, citato da Les Echos, Parigi, 13 settembre 2011.
(2) Con un 12 % del suo Pil destinato alla remunerazione degli impieghi pubblici, la Grecia è in linea con la maggior parte dei paesi dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) (10-12%). Cfr. «Tableaux de bord de l’emploi public», Centre d’analyse stratégique, Parigi, dicembre 2010.
(3) Si legga «Il “rigore” di cui abbiamo bisogno», Le Monde diplomatique/il manifesto, settembre 2010.
(4) Cfr. lo studio di Natixis, riportato da Isabelle Couet, «Un Eurobond qui profitera à tous», http://blogs.lesechos.fr, 1° settembre 2011.
(5) Intervista rilasciata a Les Echos, 15 settembre 2011.
(6) «La crise est plus grave que celle de 1929», intervista a Ludovic Lamant, Mediapart, 21 agosto 2011. (Traduzione di Al. Ma.)
LA CRISI DEL LIBERISMO CHE RAFFORZA I LIBERISTI
Dire una cosa ed il suo contrario, beneficiando del proprio statuto di oracoli, è il privilegio dei «mercati». Il fatto che denuncino allo stesso tempo il tracollo dell’economia greca, strangolata dall’austerità, e la disinvoltura italiana sui conti pubblici, che ne rallenta l’attuazione, rappresenta un corto circuito rivelatore. Davvero non riusciamo a immaginare un’altra «regola aurea», che non comporti questo «sonno della ragione»?
di LAURENT CORDONNIER*
Supponiamo che nel presente «salvare» la Grecia rappresenti proprio la priorità. Se si segue il corso d’idee che sembra dominante, ciò significherebbe impedire qualunque default di pagamento da parte dello stato ellenico, e mantenere il paese nella zona euro. Non soltanto perché sarebbe catastrofico per i greci fallire uno di questi obiettivi, ma anche perché le conseguenze sarebbero devastanti per tutto il resto dell’Europa. In questo senso, salvare la Grecia sarebbe bene per i greci e per gli europei nel loro insieme. Ammettiamolo per un istante, e poniamoci la seguente domanda: a quali condizioni sarebbe possibile tutto ciò? Per porre meglio la questione, supponiamo che Atene riesca nei prossimi tre o quattro anni a ristabilire le sue finanze pubbliche, in modo tale che il debito non superi l’equivalente del 200% del Prodotto interno lordo (Pil). Non sarebbe un miglioramento: esso sfiora attualmente il 160% e il deficit di bilancio registrato per il periodo gennaio-agosto 2011 è di 18 miliardi di euro (ovvero 9 punti di Pil). Lungi dall’essere riassorbito, esso dunque è in aumento, in gran parte a causa della sbalorditiva austerità imposta alla popolazione che ha aggravato ulteriormente la recessione; mentre l’attività economica arretrerà del 5% nel 2011. Lo storno del 21% sull’ammontare dei crediti, accettato «benevolmente sotto vincolo» dalle banche europee, in virtù dell’accordo del 21 luglio, potrebbe tuttavia contribuire a rendere plausibile la soglia del 200%. La questione è quindi quella di sapere chi potrebbe sostenere a lungo termine un tale debito, in modo che le condizioni finanziarie non strangolino completamente la società greca (per non parlare di restituirle la sua gioia di vivere…). La prima parte della risposta è che, in assenza di misure vincolanti, solo la mano pubblica – e a livello europeo – avrà ancora la volontà di detenere questo debito. Come dichiara con molta semplicità un’agenzia finanziaria, «non pensiamo che gli investitori tornino ad acquistare (1)». Non soltanto qualunque aumento del debito greco potrà essere finanziato esclusivamente da creditori pubblici, ma via via che i titoli in stock dovranno essere rinnovati, il settore privato userà ogni cortesia per lasciare che a servirsi per primi siano il Fondo europeo di stabilità finanziaria (Fesf) e il Fondo monetario internazionale (Fmi). Nel frattempo, le banche e le altre istituzioni finanziarie troveranno sufficientemente comodo che la Banca centrale europea (Bce), contro tutte le sue prevenzioni dottrinarie, riscatti parte del debito sovrano, per accelerare l’alleggerimento dei loro fardelli. Nell’arco di qualche anno, il debito greco sarà dunque interamente detenuto dal settore pubblico. Resta da sapere quale sarà il tasso di interesse «accettabile» per la Grecia, così come per qualunque altra società. A meno di non voler provocare una rivoluzione popolare, la presa del potere da parte di una dittatura sanguinaria o la sparizione della civiltà greca, si potrebbe affermare che una nazione sviluppata non riuscirebbe a sopportare a lungo un prelievo annuo superiore al 6% della ricchezza nazionale che produce – il che equivarrebbe già, per Atene, alla metà delle remunerazioni della funzione pubblica (2). A titolo di paragone, l’attuale carico annuale del debito dello stato francese rappresenta circa il 2,3% del Pil. Ammettendo quindi una stabilizzazione del debito pubblico greco al 200% del Pil nazionale, sarebbe necessario limitare al 3% il tasso di interesse reale sul debito nazionale per restare al di sotto di questo prelievo del 6% del Pil. Insomma, se gli stati europei riuscissero a prendere a prestito sui mercati al 3% (o meno) in termini reali, riuscirebbero a finanziare il debito greco senza che ciò costi loro un soldo. A metà settembre, il Fesf è giunto ad ammassare 5 miliardi di euro (in dieci anni) per finanziare il piano di aiuto al Portogallo ad un tasso nominale del 2,75%. Considerando che il tasso di inflazione previsto dai finanziatori ruota intorno al 2%, ciò comporta in definitiva un tasso di interesse reale dello 0,75%. Sarebbe quindi possibile finanziare durevolmente e per intero il debito greco a condizioni inferiori rispetto alla soglia di asfissia enunciata precedentemente. Questo scenario emergenziale esigerebbe tuttavia altri tre presupposti: che tale piano sia concepito con questo obiettivo esplicito, che i dirigenti europei riescano ad accordarsi su di esso, e che il Fesf sia dotato di una capacità di prestito superiore agli attuali 440 miliardi di euro. È ciò che ha compreso e spiegato ai dirigenti europei al momento del summit di Breslavia (Polonia) Timothy Geithner, ministro delle finanze statunitense. Non per affetto verso il Vecchio continente, ma sicuramente per amore delle banche, Geithner non concepisce di lasciarle ancora alla mercé di un default di pagamento da parte della Grecia. Con 440 miliardi di euro, il Fesf dispone a malapena di quanto è necessario per riscattare il debito di quel paese. Tuttavia bisogna ancora finanziare il piano del Portogallo e quello dell’Irlanda, e tenere una riserva per dimostrare di avere eventualmente anche di che alleggerire l’Italia e la Spagna (soltanto alleggerire…). Allora, a quanto dovrebbe ammontare l’importo dell’intervento del Fesf? Mille miliardi di euro sarebbe una cifra ragionevole. Ciò che è ragionevole potrebbe tuttavia produrre i suoi effetti solo se posto in essere in tempi… ragionevoli, con una pianificazione… ragionata, e la convinzione di agire con una determinazione… ragionata! Ogni nuova «avanzata a ritroso» da parte dei dirigenti europei, anche se effettuata nella direzione giusta, apparirà al contrario come una conversione inconsulta di fronte al precipitare di avvenimenti incontrollabili. Allora, il peggio diventerà certezza. Il peggio è già arrivato La sfiducia dei mercati si amplificherà. Una volta che la Bce avrà cessato il suo piano di riacquisto, i tassi d’interesse ricominceranno ad alzarsi sul debito italiano e su quello spagnolo. Sarà sufficiente allora un fischio dalle tribune perché tutti si convincano del fallo sul campo di gioco (un declassamento a raffica del rating sui debiti sovrani da parte delle agenzie di rating) e perché la predizione che alimenta se stessa si rimetta in movimento. I paesi colpiti non potrebbero più permettersi di rinnovare i titoli del loro debito giunti a scadenza, essendo costretti come sarebbero a chiedere prestiti a tassi ormai esorbitanti. Alla fine, il loro debito diventerebbe insostenibile, non in ragione del suo ammontare, ma a causa dell’impennata dei tassi di interesse. Ricordiamo infatti che un debito sul quale il tasso di interesse fosse nullo non costerebbe nulla! È dunque il suo aumento che rende il debito insostenibile (nel senso che il carico del pagamento degli interessi grava in egual misura sul bilancio statale). Ciò rafforza i creditori nell’opinione che il debito è divenuto insostenibile, conducendoli in cambio a formulare un premio al rischio più alto da richiedere allo stato che lo concede … il che spinge verso l’alto i tassi di interesse, rendendo sempre più plausibile il rischio di un loro futuro default. In questa atmosfera di panico, un Fesf che non fosse stato dotato di risorse sufficienti non permetterebbe la concessione di prestiti sui mercati alle condizioni vantaggiose che si presentano oggi. I rincari sul costo dei prestiti avrebbero delle ripercussioni sull’insieme dei debiti sovrani della zona euro, poiché il peso delle garanzie che gravano su questi prestiti aumenterebbe per i paesi che non farebbero ancora parte del gruppo degli stati soccorsi, come la Germania, i Paesi bassi e la Francia. Il piano di salvataggio europeo somiglierebbe quindi all’appoggio di due sostegni marci che si cerca di tenere insieme grazie al reciproco sforzo (3). Per questa stessa ragione, nemmeno le euro-obbligazioni (o eurobonds) costituirebbero, una soluzione molto migliore. Sulla carta, la formula, che consiste in una mutualizzazione dei debiti sovrani, modulata da un ingegnoso bonus-malus sui tassi di interesse, è elegante e politicamente intelligente (4). Come in una cosmogonia della nascita del federalismo di bilancio, l’Europa economica sorgerebbe dal caos della crisi del debito: il mito è anche commovente, ricchi premi e cotillon! Ma assomiglierà sempre agli stessi sostegni malandati. L’amalgama di tutti i debiti pubblici in un solo titolo emanerà paradossalmente un profumo di vino adulterato, richiamando troppo i crediti subprime, compilati, strutturati e cartolarizzati… un gioco di prestigio finalizzato a mescolare il grano buono con quello cattivo. Non resterà più, allora, e quale unica soluzione nell’emergenza, che costringere le banche europee a detenere l’insieme dei debiti pubblici degli stati europei sotto attacco. E forse in fondo è proprio ciò che cercano di fare i dirigenti europei. Essi, adepti di una sorta di liberismo trotzkista, potrebbero essere arrivati a pensare che, finché la crisi non sia finita, delle soluzioni positive non possano essere sbloccate. E chi potrebbe dare loro torto? Tutte le altre buone soluzioni potrebbero essere prese in considerazione serenamente solo una volta superata l’emergenza. Innanzitutto (finalmente) stabilire una tassa sulle transazioni finanziarie, così come una carbon tax a livello europeo, come proposto oggi dall’economista Michel Aglietta (5). Poi, l’abbandono dell’obiettivo letale dell’inflazione al 2%, per arrivare al 4 o al 5%. La misura più severa consisterebbe tuttavia nel generare l’inflazione. Come nota un altro specialista, Robert Boyer, «la sola speranza in questo quadro sarebbe quella di imbattersi in una penuria di manodopera in Cina, ma anche in conflitti sociali al suo interno che agevolino l’inflazione in quel paese. Ciò indurrebbe un ritorno dell’inflazione, provocata dai salari cinesi, che ridurrebbe nel mondo il peso dei debiti. Sarebbe uno scenario magnifico (6)». Inoltre, per dare una mano, sarebbe necessario forse (contemporaneamente) che il padronato europeo desse una piccola spinta alla contrattazione salariale… Per finire, fare adottare a livello europeo una regola aurea. Ma davvero rigorosa, seria e che comporti dei decreti attuativi! Si potrebbe vietare agli stati di superare il 3% del deficit di bilancio, con un obiettivo relativamente al debito pubblico inferiore al 30% del Pil. In caso di superamento dell’una o dell’altra soglia, si dovrebbe prevedere una disposizione tanto giusta quanto coraggiosa: l’instaurazione di un meccanismo di rialzo automatico dell’aliquota marginale d’imposta sul reddito (al 90% al di sopra dei 35 000 euro netti, per unità di consumo e su base annuale), in modo tale da riportare il deficit nei limiti della regola aurea. Se una socialdemocrazia europea di nuovo affamata di buone idee fissasse un più ragionevole tasso dell’85% nessuno quindi avrebbe da ridire.
note:
* Economista, autore di L’Economie des Toambapiks, Raisons d’agir, Parigi, 2010.
(1) Nomura, citato da Les Echos, Parigi, 13 settembre 2011.
(2) Con un 12 % del suo Pil destinato alla remunerazione degli impieghi pubblici, la Grecia è in linea con la maggior parte dei paesi dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) (10-12%). Cfr. «Tableaux de bord de l’emploi public», Centre d’analyse stratégique, Parigi, dicembre 2010.
(3) Si legga «Il “rigore” di cui abbiamo bisogno», Le Monde diplomatique/il manifesto, settembre 2010.
(4) Cfr. lo studio di Natixis, riportato da Isabelle Couet, «Un Eurobond qui profitera à tous», http://blogs.lesechos.fr, 1° settembre 2011.
(5) Intervista rilasciata a Les Echos, 15 settembre 2011.
(6) «La crise est plus grave que celle de 1929», intervista a Ludovic Lamant, Mediapart, 21 agosto 2011. (Traduzione di Al. Ma.)
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