di Karlo Raveli. Fonte: sinistrainrete
La ricetta liberista di precarizzazione massiccia e crescente, per di più nella logica dell'economia transnazionale della conoscenza, è lo sbocco politico principale della classe oligarchica per rompere tutte le possibili egemonie, passate e future, di settori lavoratori più stabili della classe.
Dal lavoratore professionale – egemone da Marx a Luxemburg – al lavoratore-massa fordista, e passando poi per l'impiegato toyotista, il liberismo ha registrato molto bene questa necessità di scomposizione permanente della classe antagonista per sviluppare il suo dominio.
Ma non la pseudo-classe lavoratrice, bensì La classe: operaia.
La primitiva lettura marxista del lavoratore professionale (accompagnato dalla comparse di un esercito 'industriale' di riserva) come equivalente determinante della classe – da cui sorge la confusione o sinonimicità dei due termini, operaio e lavoratore, è la peggior zavorra ideologica che trasciniamo da ben oltre un secolo. Accettabile o comprensibile solo ai tempi di Marx e Lenin.
La precarietà ripropone invece al completo la figura operaia, con tutte le sue manifestazioni, forme ed espressioni. Vale a dire: se la classe operaia è l'antagonista assoluto del capitale, non lo è prima di tutto perché è sfruttata (lo sfruttamento classico concerne coloro che lavorano, non i disoccupati, ecc.), BENSÌ perché è alienata dai mezzi di produzione, da tutti i beni comuni essenziali per lavorare e produrre, e deve QUINDI sottomettersi a ogni tipo di sfruttamento fisico, culturale, intermittente o peggio ancora schiavistico (salariato) del suo lavoro, per sopravvivere.
Questa è la classe operaia. Mentre i lavoratori non formano la classe, ma unicamente ne sono il settore più impiegato dal capitale produttivo, sfruttato direttamente nella produzione con più continuità, e quindi maggiormente alienato, naturalmente.
Ed ecco che invece la figura del precario si riallaccia materialmente alla condizione operaia di espropriazione radicale, originaria, di base, di partenza, perché si trova in modo permanente di fronte al DOVERE di cercare un impiego, in modo permanente o intermittente, ed è POI subito rigettato dalla condizione di operaio lavoratore alla 'semplice' condizione operaia. Senza lavoro.
Detto questo, si è detto quasi tutto.
Accettato il grave errore ontologico del non riconoscere esattamente, precisamente, qual'è la classe, agganciati e sottomessi dall'esperienza originaria del secolo XIX quando il settore lavoratore pareva prefigurare tutta la classe, visto che è sotto questa figura che assunse allora coscienza per sé e responsabilità politica nella lotta di classe - fino alla rivoluzione di ottobre e poi tentando di prolungare la sua egemonia sulla classe con il comunismo terzinternazionalista – possiamo oggi rimettere ogni figura operaia al suo vero posto:
il disoccupato, con tutta la massa operaia di donne invisibilizzate nella loro realtà di classe, e poi le crescenti masse migranti, sono classe operaia fino in fondo (anche se potremmo continuare a chiamarlo esercito di riserva, ma come parte viva basilare della classe!);
i lavoratori fissi o garantiti, sono (solo) un settore della classe (quando non sono addirittura lavoratori borghesi o di altri ceti sociali). Un settore che inoltre si propone con molte e distinte figure di impiego e lavoro, quasi sempre presenti contemporaneamente nel tessuto produttivo (lavoratore professionale, fordista, toyotista, cooperativo, capitalizzato, ecc);
i precari e tutti i tipi di intermittenti, a volte sono lavoratori (operai lavoratori), ed altre solo operai disoccupati; cioè appunto la massima prefigurazione della realtà operaia;
e pure gli studenti, che dobbiamo riconoscere finalmente come settore operaio: settore in preparazione per lo sfruttamento, sotto formazione borghese per essere assunti e impiegati chi ci riesce; ma sempre classe operaia alienata dai mezzi di produzione, alienata culturalmente, alienata dal sistema autoritario scolastico, familiare, sociale; e più di ogni altro settore soggetta a forme di impiego di massimo sfruttamento e precarietà;
i lavoratori autonomi, a cui il sistema produttivo impone di assumere una propria capitalizzazione autonoma, ma che sono realmente in gran maggioranza di permanente condizione operaia di base, originaria;
e tutte le altre figure che il sistema produttivo e l'economia della conoscenza sta sviluppando per ingabbiare l'operaio e scomporre la classe sotto le sue leggi produttive biopolitiche.
Precarietà come avanguardia operaia?
In un certo senso sì. Cioè in senso veramente politico, in quanto è la figura operaia più completa, con esperienza lavorativa, di sfruttamento esplicito e duro, ma poi sempre ributtata nella condizione primitiva di operaio senza lavoro e senza mezzi di produzione.
Però non si tratta di cercare il vecchio senso dell'avanguardia come una formazione della classe solidamente espressiva di una egemonia materiale e politica sugli altri settori della classe. Non può esserlo per la semplice ragione della sua intermittenza, del ricatto permanente e superiore dell'incertezza, del legame psicologico alla ricerca dell'impiego, e di indefinitezza o contraddizione vitale dei vantaggi del non-sfruttamento, spesso accompagnato da residui di reddito che permettono di sopravvivere nella condizione operaia di partenza, di base, ma con certi vantaggi corrispondenti al non-lavoro e determinati dalla capacità di risparmio o aggancio familiare, ecc.
Una situazione, attenzione, che assumono molto più facilmente giovani e studenti, meno alienati o condizionati, e più disposti, o ancora aperti, al naturale rifiuto del lavoro salariato capitalista.
Ma proprio per questo, il senso di avanguardia si trova proprio nell'assunzione della coscienza di classe aldilà del lavoro salariato ma conoscendolo nella sua essenza di relazione capitale/classe operaia, e quindi fuori dal laburismo tipico che accompagna molti lavoratori più garantiti, il sindacalismo che lotta per il diritto allo sfruttamento e che coltiva l'orgoglio del lavoro capitalista, e tutte le altre organizzazioni laburiste (socialiste e “comuniste”), ecc che vivacchiano sull'ideologia terzinternazionalista di gloriose falci e martelli più o meno stacanovisti, assurdi, ideologici e sempre laburisti.
Quindi può essere vera e propria avanguardia politica che assume la coscienza di classe per sé nella sua più pura espressione di rifiuto totale dell'alienazione capitalista, della proprietà e appropriazione capitalista e dei meccanismi di produzione e valorizzazione capitalisti. Che assume il suo ruolo come rifiuto della composizione di classe come modo di ricomposizione sociale del capitale.
L'affossamento del capitalismo
Dipende unicamente dall'estensione massiccia e internazionale della lotta di classe operaia nel senso completo, originale e radicale, cioè materialista e dialettico, che viene definito dal concetto di classe marxista: non è un ceto, un insieme, un gruppo, una massa, ma una definizione di confronto politico nel sistema. Non è localizzabile dentro o all'esterno della produzione, ma nel processo sociale in movimento, a partire dalle condizioni che la determinano.
Ecco la negazione della negazione reale, materiale: col superare definitivamente l'appropriazione privata (o statale) dei beni comuni, cominciando da quelli produttivi e del sapere, mentre si rompono naturalmente tutti i meccanismi di comando e sfruttamento del lavoro. E i valori corrispondenti, fino in fondo, ben aldilà di transizioni socialfurbe- o liste che devono salvare capre e cavoli.
La precarietà è per questa ragione il nesso più chiaro e definitivo per recuperare questi livelli di coscienza, quindi di ricomposizione della classe, anche perché la si può vedere “per sé” ormai solo nel piano globale. Il comando di precarizzazione è globale, si svolge a scala globale, e non sono ormai possibili lotte di classe statali o nazionali se non essenzialmente difensive (di determinati posti di lavoro... e sfruttamento) e puramente sindacali ; non hanno più senso senza strategie globali. La precarietà inter-nazionale si manifesta con le società di collocamento transnazionale, con le migrazioni e le delocalizzazioni crescenti, che sono due versi della stessa moneta, e quindi è il nesso d'internazionalizzazione più potente che abbiamo.
Allora il valore di avanguardia non sta nel proprio auto-riconoscimento come settore, ma nella coscienza della necessità della propria dissoluzione come specificità, nell'essenziale della propria condizione: operaia sempre e comunque, con lavoro o senza lavoro. Sempre più intrecciata oltretutto con altri tre settori apparentemente più deboli della classe: i migranti, gli studenti ed il settore operaio femminile, appunto le figure della classe più soggette alla precarizzazione.
Figure che al contrario, una volta assunta questa coscienza di classe, si possono realmente trasformare – proprio per le contraddizioni che incarnano fino in fondo - in leve determinanti della lotta globale di classe. Della lotta della classe operaia mondiale per il superamento di tutte le realtà e valori chiave dell'epoca capitalista.
La ricetta liberista di precarizzazione massiccia e crescente, per di più nella logica dell'economia transnazionale della conoscenza, è lo sbocco politico principale della classe oligarchica per rompere tutte le possibili egemonie, passate e future, di settori lavoratori più stabili della classe.
Dal lavoratore professionale – egemone da Marx a Luxemburg – al lavoratore-massa fordista, e passando poi per l'impiegato toyotista, il liberismo ha registrato molto bene questa necessità di scomposizione permanente della classe antagonista per sviluppare il suo dominio.
Ma non la pseudo-classe lavoratrice, bensì La classe: operaia.
La primitiva lettura marxista del lavoratore professionale (accompagnato dalla comparse di un esercito 'industriale' di riserva) come equivalente determinante della classe – da cui sorge la confusione o sinonimicità dei due termini, operaio e lavoratore, è la peggior zavorra ideologica che trasciniamo da ben oltre un secolo. Accettabile o comprensibile solo ai tempi di Marx e Lenin.
La precarietà ripropone invece al completo la figura operaia, con tutte le sue manifestazioni, forme ed espressioni. Vale a dire: se la classe operaia è l'antagonista assoluto del capitale, non lo è prima di tutto perché è sfruttata (lo sfruttamento classico concerne coloro che lavorano, non i disoccupati, ecc.), BENSÌ perché è alienata dai mezzi di produzione, da tutti i beni comuni essenziali per lavorare e produrre, e deve QUINDI sottomettersi a ogni tipo di sfruttamento fisico, culturale, intermittente o peggio ancora schiavistico (salariato) del suo lavoro, per sopravvivere.
Questa è la classe operaia. Mentre i lavoratori non formano la classe, ma unicamente ne sono il settore più impiegato dal capitale produttivo, sfruttato direttamente nella produzione con più continuità, e quindi maggiormente alienato, naturalmente.
Ed ecco che invece la figura del precario si riallaccia materialmente alla condizione operaia di espropriazione radicale, originaria, di base, di partenza, perché si trova in modo permanente di fronte al DOVERE di cercare un impiego, in modo permanente o intermittente, ed è POI subito rigettato dalla condizione di operaio lavoratore alla 'semplice' condizione operaia. Senza lavoro.
Detto questo, si è detto quasi tutto.
Accettato il grave errore ontologico del non riconoscere esattamente, precisamente, qual'è la classe, agganciati e sottomessi dall'esperienza originaria del secolo XIX quando il settore lavoratore pareva prefigurare tutta la classe, visto che è sotto questa figura che assunse allora coscienza per sé e responsabilità politica nella lotta di classe - fino alla rivoluzione di ottobre e poi tentando di prolungare la sua egemonia sulla classe con il comunismo terzinternazionalista – possiamo oggi rimettere ogni figura operaia al suo vero posto:
il disoccupato, con tutta la massa operaia di donne invisibilizzate nella loro realtà di classe, e poi le crescenti masse migranti, sono classe operaia fino in fondo (anche se potremmo continuare a chiamarlo esercito di riserva, ma come parte viva basilare della classe!);
i lavoratori fissi o garantiti, sono (solo) un settore della classe (quando non sono addirittura lavoratori borghesi o di altri ceti sociali). Un settore che inoltre si propone con molte e distinte figure di impiego e lavoro, quasi sempre presenti contemporaneamente nel tessuto produttivo (lavoratore professionale, fordista, toyotista, cooperativo, capitalizzato, ecc);
i precari e tutti i tipi di intermittenti, a volte sono lavoratori (operai lavoratori), ed altre solo operai disoccupati; cioè appunto la massima prefigurazione della realtà operaia;
e pure gli studenti, che dobbiamo riconoscere finalmente come settore operaio: settore in preparazione per lo sfruttamento, sotto formazione borghese per essere assunti e impiegati chi ci riesce; ma sempre classe operaia alienata dai mezzi di produzione, alienata culturalmente, alienata dal sistema autoritario scolastico, familiare, sociale; e più di ogni altro settore soggetta a forme di impiego di massimo sfruttamento e precarietà;
i lavoratori autonomi, a cui il sistema produttivo impone di assumere una propria capitalizzazione autonoma, ma che sono realmente in gran maggioranza di permanente condizione operaia di base, originaria;
e tutte le altre figure che il sistema produttivo e l'economia della conoscenza sta sviluppando per ingabbiare l'operaio e scomporre la classe sotto le sue leggi produttive biopolitiche.
Precarietà come avanguardia operaia?
In un certo senso sì. Cioè in senso veramente politico, in quanto è la figura operaia più completa, con esperienza lavorativa, di sfruttamento esplicito e duro, ma poi sempre ributtata nella condizione primitiva di operaio senza lavoro e senza mezzi di produzione.
Però non si tratta di cercare il vecchio senso dell'avanguardia come una formazione della classe solidamente espressiva di una egemonia materiale e politica sugli altri settori della classe. Non può esserlo per la semplice ragione della sua intermittenza, del ricatto permanente e superiore dell'incertezza, del legame psicologico alla ricerca dell'impiego, e di indefinitezza o contraddizione vitale dei vantaggi del non-sfruttamento, spesso accompagnato da residui di reddito che permettono di sopravvivere nella condizione operaia di partenza, di base, ma con certi vantaggi corrispondenti al non-lavoro e determinati dalla capacità di risparmio o aggancio familiare, ecc.
Una situazione, attenzione, che assumono molto più facilmente giovani e studenti, meno alienati o condizionati, e più disposti, o ancora aperti, al naturale rifiuto del lavoro salariato capitalista.
Ma proprio per questo, il senso di avanguardia si trova proprio nell'assunzione della coscienza di classe aldilà del lavoro salariato ma conoscendolo nella sua essenza di relazione capitale/classe operaia, e quindi fuori dal laburismo tipico che accompagna molti lavoratori più garantiti, il sindacalismo che lotta per il diritto allo sfruttamento e che coltiva l'orgoglio del lavoro capitalista, e tutte le altre organizzazioni laburiste (socialiste e “comuniste”), ecc che vivacchiano sull'ideologia terzinternazionalista di gloriose falci e martelli più o meno stacanovisti, assurdi, ideologici e sempre laburisti.
Quindi può essere vera e propria avanguardia politica che assume la coscienza di classe per sé nella sua più pura espressione di rifiuto totale dell'alienazione capitalista, della proprietà e appropriazione capitalista e dei meccanismi di produzione e valorizzazione capitalisti. Che assume il suo ruolo come rifiuto della composizione di classe come modo di ricomposizione sociale del capitale.
L'affossamento del capitalismo
Dipende unicamente dall'estensione massiccia e internazionale della lotta di classe operaia nel senso completo, originale e radicale, cioè materialista e dialettico, che viene definito dal concetto di classe marxista: non è un ceto, un insieme, un gruppo, una massa, ma una definizione di confronto politico nel sistema. Non è localizzabile dentro o all'esterno della produzione, ma nel processo sociale in movimento, a partire dalle condizioni che la determinano.
Ecco la negazione della negazione reale, materiale: col superare definitivamente l'appropriazione privata (o statale) dei beni comuni, cominciando da quelli produttivi e del sapere, mentre si rompono naturalmente tutti i meccanismi di comando e sfruttamento del lavoro. E i valori corrispondenti, fino in fondo, ben aldilà di transizioni socialfurbe- o liste che devono salvare capre e cavoli.
La precarietà è per questa ragione il nesso più chiaro e definitivo per recuperare questi livelli di coscienza, quindi di ricomposizione della classe, anche perché la si può vedere “per sé” ormai solo nel piano globale. Il comando di precarizzazione è globale, si svolge a scala globale, e non sono ormai possibili lotte di classe statali o nazionali se non essenzialmente difensive (di determinati posti di lavoro... e sfruttamento) e puramente sindacali ; non hanno più senso senza strategie globali. La precarietà inter-nazionale si manifesta con le società di collocamento transnazionale, con le migrazioni e le delocalizzazioni crescenti, che sono due versi della stessa moneta, e quindi è il nesso d'internazionalizzazione più potente che abbiamo.
Allora il valore di avanguardia non sta nel proprio auto-riconoscimento come settore, ma nella coscienza della necessità della propria dissoluzione come specificità, nell'essenziale della propria condizione: operaia sempre e comunque, con lavoro o senza lavoro. Sempre più intrecciata oltretutto con altri tre settori apparentemente più deboli della classe: i migranti, gli studenti ed il settore operaio femminile, appunto le figure della classe più soggette alla precarizzazione.
Figure che al contrario, una volta assunta questa coscienza di classe, si possono realmente trasformare – proprio per le contraddizioni che incarnano fino in fondo - in leve determinanti della lotta globale di classe. Della lotta della classe operaia mondiale per il superamento di tutte le realtà e valori chiave dell'epoca capitalista.
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