Lunedì 23 aprile si è svolta a Roma 3 la presentazione dei volumi di Bellofiore e Giacché sulla crisi, Radio radicale l'ha registrata, qui c'è la mia relazione con alcuni postscriptum
Mi occupo solo di uno dei due libri di Bellofiore, La crisi globale, l’altro è più teorico. Devo avanzare una critica di fondo a Bellofiore: l’eccesso di distinguo dalle altrui posizioni attraverso sottigliezze che lasciano il lettore smarrito circa l’argomentazione di fondo [molti l’han notato anche nell’esposizione al dibattito; un esempio è quando Riccardo ha disquisito circa la data di inizio della crisi … il 2008 non gli andava bene, le cause sono anteriori, ma questo è ovvio e non aggiunge molto. Il lettore potrà farsi una propria opinione attraverso la registrazione di Radio Radicale, che ringraziamo]. Tutto questo con amicizia, ma anche con franchezza.
Parto dalle conclusioni. I due volumi convergono nell’idea che una rottura/fuoriuscita dall’UME è improponibile, tanto sarebbero importanti le conseguenze. Non è di questa opinione Paul Krugman:
“What is the alternative? Well, in the 1930s — an era that modern Europe is starting to replicate in ever more faithful detail — the essential condition for recovery was exit from the gold standard. The equivalent move now would be exit from the euro, and restoration of national currencies. You may say that this is inconceivable, and it would indeed be a hugely disruptive event both economically and politically. But continuing on the present course, imposing ever-harsher austerity on countries that are already suffering Depression-era unemployment, is what’s truly inconceivable.”
Comunque, conclude Giacché, se continua così sarà l’Euro a rompersi. L’impegno dei paesi emergenti a sostenere l’intervento del FMI a sostegno dei paesi europei in difficoltà sembra però indicare che ci saranno degli sforzi ad impedirlo. Una lunga pena ci attende, più probabilmente. Ma può darsi che il redde rationem arrivi, ma siamo nel regno delle illazioni.
Mi sembra che anche sul terreno delle diagnosi i due libri non si discostino. Ambedue mettono alla base della crisi americana l’esplosione del debito privato le cui cause fanno risalire alla mutata distribuzione del reddito a sfavore del ceto medio dai tempi di Reagan. Bellofiore mette anche in luce come la memoria storica dell’elevata disoccupazione abbia indebolito la capacità di reazione dei lavoratori americani anche in anni in cui ci si è riavvicinati alla piena occupazione (ma su questo avrà anche inciso la diminuzione dell’occupazione nelle grandi imprese manifatturiere trasferitisi nei paesi emergenti e l’immigrazione). Bellofiore sembra però volere distinguersi:
“Il sottoconsumo è la causa ultima delle crisi, ma non ne spiega nessuna …La vera questione al fondo di questa crisi è che è crollato il consumo ‘autonomo’ a debito del keynesismo privatizzato [OK]. Futile separare cause finanziarie e cause reali della crisi, o prendersela con le disuguaglianze. [e poi, di seguito, si parla d’altro] La crisi è globale: non è possibile, dunque, uscirne con la domanda estera”(p.50). [La lettura mi lasciò confuso. L’intervento dell’autore al dibattito mi ha chiarito che egli ritiene che non tanto la crescente ineguaglianza nella distribuzione del reddito abbia causato la crisi quanto il crollo dei consumi autonomi, quelli finanziati dal credito; questi non possono essere sostituiti dalle esportazioni, data la crisi generale, non rimane che la spesa pubblica. Tutto bene, tranne che da ultimo la necessità di basarsi sulle componenti autonome della domanda (come i consumi finanziati dal credito al consumo o le esportazioni) deriva proprio dalla carenza di domanda dovuto alla ineguale distribuzione del reddito che rimane la contraddizione fondamentale del capitalismo. La mia impressione è che a forza di cercare dei distinguo ci si smarrisca].
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Nei riguardi della crisi europea, il volume di Bellofiore non sembra dare molta enfasi a quella che sta diventando – anche dietro l’influenza di Martin Wolf, citato invece nel libro di Stefano Fassina – l’interpretazione dominante della crisi europea come, in fondo, l’ennesimo caso del “this time is different” di Reinhart e Rogoff (un libro che ho trovato disordinato analiticamente e nelle ricostruzioni storiche, ma che ha un titolo azzeccato). Giacché dà invece un certo spazio a questa interpretazione (pp. 68-9). Bellofiore (p. 65) parla sì di bolle che scoppiano, ma poi tratta della crisi, in particolare quella italiana, come crisi di liquidità che a causa del panico, diventa crisi di solvibilità. Non vengono citati, mi sembra, problemi di squilibri di partite correnti. [Nel dibattito Riccardo ha citato pag. 22 del suo volume dove tali squilibri sono richiamati (ma non loro cause) così come il nome di Martin Wolf: un po’ poco per un tema così decisivo. E’ sembrato poi argomentare che in una unione monetaria non vi sono problemi di squilibri di partite correnti in quanto il sistema li rifinanzia automaticamente; è chiaro il riferimento a Target 2. Questo è vero, ma in presenza di perduranti rischi di rottura del sistema, in un quadro macroeconomico non volto a raddrizzare gli squilibri di partite correnti e a ridurre drasticamente gli spread sovrani, i tedeschi hanno tutte le ragioni nel ritenere di poter perdere i loro crediti, pur facendo di tutto per ché ciò accada, naturalmente”!]
Come scrivevo in un articolo pubblicato in un quotidiano argentino la scorsa settimana spiegando loro quello che ben conoscono per esperienza: la liberalizzazione finanziaria e la fissazione del tasso di cambio hanno generato enormi flussi finanziari dal "core-Europe” - Germania, Olanda, Austria e Finlandia - alla ‘periferia’, fondamentalmente Spagna, Grecia e Irlanda. I flussi di capitale hanno condotto a un boom nel settore delle costruzioni in Irlanda e Spagna e consentito la prodigalità del governo greco (amico e cliente della Merkel, come De Cecco ci ha insegnato). Ciò ha portato ad una crescita effimera in quei paesi, accompagnata da un'inflazione relativamente elevata e da conseguente perdita di competitività. I conti con l'estero sono diventati negativi e si è accumulata una quantità enorme di debito, in particolare con la Germania. Nulla di nuovo sotto il sole: l’articolo anticipatore sotto questo profilo è di Diaz-Alejandro (1985) ha il titolo eloquente “Good by financial repression; hallo financial crash”, si parla lì della crisi finanziaria cilena di fine anni ’70. La versione europea è stata nello scambio fra “perdita dell’autonomia valutaria e bassi tassi di interesse” di cui Giacché parla (p. 137), l’idea che i debiti esteri –specie se corrispondenti a debiti privati - in una unione monetaria non contassero più (“this time is different”). Per la versione tradizionale della crisi si leggano, per esempio, Frenkel e Rapetti (2009).
Simmetricamente, dalla fine degli anni '90, sotto il governo socialdemocratico del cancelliere Schroeder, la Germania ha adottato una politica mercantilista di moderazione salariale e fiscale insieme alla flessibilità del lavoro. Da un lato comprimeva la domanda interna e l'inflazione e, dall'altro, finanziava la domanda aggregata in periferia. Questo è diventato lo sbocco del modello di crescita tedesco basato sulle esportazioni.
L'unico problema è che la periferia ha accumulato enormi quantità di debito estero senza avere la possibilità, eventualmente, di porre fine allo squilibrio svalutando le monete, come fece l'Argentina nel 2002, o l'Italia nel 1992, dopo gli squilibri creati dal Sistema monetario europeo negli anni '80. Sorprendentemente però, per Bellofiore “La crisi europea non è nata all’interno, né si tratta per l’Italia di una riedizione della crisi del 1992”, affermazioni alquanto sorprendenti.
Si deve però prestare attenzione a una opinione assai diffusa e che Giacché sembra avallare: la politica monetaria della BCE è stata per molti paesi “eccessivamente espansiva” (p.68) e ciò sarebbe all’origine della crisi. Così, dopo aver accusato per anni (sbagliando, sia ben chiaro) la BCE di operare politiche restrittive, ora l’accusiamo del contrario. La questione non è che la BCE sia stata troppo espansiva, ma che le politiche fiscali e distributive nei paesi “core” sono state tali per cui la domanda aggregata è cresciuta assai nella periferia e per nulle nel centro.
Alla fine del 2009, dopo l'esplosione della crisi in America e la scoperta che il governo greco (buon amico di Angela Merkel) aveva mentito sui conti, i mercati finanziari hanno cominciato a dubitare della solvibilità delle economie periferiche. La crisi ha colpito Grecia, Irlanda e Portogallo nel 2010 e, nel 2011, la terza e la quarta economia più grande nell'UEM, Spagna e Italia. La conseguenza di entrate fiscali in calo e dei salvataggi pubblici del settore bancario in paesi come l'Irlanda e la Spagna è stata che i problemi di debito privato sono diventati una questione di debito pubblico. Giacché mette in luce questo, però, a mio avviso, in molte, troppe pagine centrali del suo libro presenta la crescita dei debito pubblici come la vera mina del sistema. Ora che tale crescita rappresenti un segnale di malattie gravi, curate dai ricorrenti salassi delle crisi (come direbbe Marx-Bellofiore) ma ricorrenti, del capitalismo è vero. Però si deve prestare attenzione a non offrire il fianco agli argomenti a favore dell’austerity.
Per ciò che concerne l’Italia, il suo debito pubblico italiano era molto più vecchio e sostenibile, ma per un paese abituato a difendere la competitività della propria industria manifatturiera attraverso la svalutazione della lira, l'UEM è stata un chiaro disastro, sicché i mercati hanno cominciato a dubitare anche della solvibilità italiana. Bello il passo di Baffi che Giacché cita (p.76) a proposito della scarsa avvedutezza nell’aderire alla moneta unica.
La risposta europea è stata caratterizzata storicamente per essere sistematicamente "troppo poco, troppo tardi". I fondi di emergenza europei sono stati concepiti per evitare il default dei governi dei paesi periferici. Tuttavia essi poggiano su una contraddizione: alcune di queste risorse provengono dagli stessi paesi che hanno bisogno del finanziamento, un circolo vizioso. Contro la volontà della Germania, la Banca centrale europea (BCE) ha attuato un cauto intervento di sostegno al debito sovrano periferico, appena sufficiente per evitare il collasso dell'UEM e non per mantenere a livelli sostenibili i tassi di interesse su questi debiti (i due membri tedeschi del comitato esecutivo della BCE si sono dimessi in segno di protesta nel 2011).
I tedeschi sono contrari a che la BCE agisca come prestatore di ultima istanza per i paesi e le banche, ossia la ragione principale per cui le banche centrali sono stati create. L'idea di una banca centrale che coopera democraticamente con la politica fiscale è stata una parte della recente riforma della Banca centrale argentina. Ma i leader tedeschi, il governo democristiano e l'opposizione socialdemocratica, condividono, consciamente o inconsciamente, una diagnosi errata della crisi europea. In nome di un inesistente pericolo di inflazione, rifiutano l'azione della BCE per calmare i mercati, agendo come garante di ultima istanza dei debiti periferici. Inoltre la Germania ha imposto misure di austerità fiscale alla periferia sostenendo che dissipatezza fiscale è responsabile della crisi.
Il risultato è una situazione economica e sociale che va peggiorando. La Germania spera di sopravvivere, nonostante il calo dei mercati europei periferici, guardando alle economie emergenti. L'unica azione efficace è stata presa in dicembre dal capo della BCE Mario Draghi, ancora una volta con l'opposizione tedesca, che ha prestato alle banche europee un miliardo di euro per tre anni ad un tasso dell'uno per cento, con l'aspettativa che una parte venisse utilizzata per contenere i debiti sovrani. Questa operazione è servita come sollievo a breve termine, ma ora le banche hanno più titoli di debito pubblico, una situazione che non è rassicurante poiché le cause che hanno generato la crisi sovrana sono ancora presenti.
I paesi europei sono in uno scenario kafkiano: condannati se restano, condannati se se ne vanno. Da un lato, il crollo della zona euro devasterebbe il sistema finanziario globale, dato che molti paesi, compresa l'Italia, andrebbero in default nello stesso momento. Dall'altro lato la Germania si oppone alla soluzione più ragionevole: consentire alla BCE di sostenere titoli di debito europei, stimolare la propria domanda interna, permettendo ai salari tedeschi e alla spesa fiscale di aumentare e implementare un massiccio piano Marshall per la periferia europea emettendo eurobond.
Le promesse del governo Monti sono ben descritte in queste parole (mia traduzione):
“Il governo sostiene che un ulteriore perseguimento della politica fiscale rafforzerà la fiducia, e conseguentemente il premio per il rischio cadrebbe tirando giù i tassi di interesse. Come risultato, la spesa domestica si riprenderebbe spingendo l’economia fuori della recessione. I bassi tassi e la crescita del PIL ristabilirebbero il pareggio di bilancio, così chiudendo un circolo virtuoso”..
Sono prese da un saggio di Frenkel et al (2004) che precisava come questo fosse l’argomento del Presidente argentino de la Rùa ripreso dal famigerato Presidente Carlos Menem, l'uomo del Fondo. Il risultato di tali politiche fu una lunga recessione, la peggiore dal primo conflitto mondiale.
Forse anche da noi quando le cose peggioreranno, anche per i tedeschi, il fallimento delle misure di austerità porterà a soluzioni più progressive.
Intanto cosa la sinistra deve fare e proporre? Intervento BCE, obiettivo stabilizzazione debito pubblico (a cui Bellofiore si dissocia col solito distinguo), rilancio domanda interna e inflazione in Germania (richiesti anche da Blanchard, citato oggi da Eurointelligence). Si possono anche pensare a forme più avanzate di unione europea: è chiaro che una diversa BCE che funga da vera banca sovrana per ciascuno stato membro o per un eventuale debito federale (dunque per forme di Eurobonds che entrambi gli autori auspicano) implica un accentramento fiscale, che deve però essere all’insegna di politiche di piena occupazione, e di cospicui trasferimenti dai paesi più ricchi verso la periferi e una forte regolazione della finanza. Che gli investimenti sostenuti dalla spesa pubblica non debbano essere solo visti come sostegno della domanda, ma anche come salto qualitativo nell’efficienza e nella qualità ambientale dell’offerta come sostenuto da Bellofiore mi trova ovviamente concorde. Così come concordo con Bellofiore (p. 73 e passim) che non si deve scordare che il capitalismo è una forma economica contraddittoria, e che dunque anche un progetto più avanzato, più socialista, vada pensato.
Ho l’impressione che per noi ci sia molto lavoro di ricerca da fare, per capire l’attuale e per disegnare il futuro. Il sostegno che proviene dall’università si affievolisce. Sarebbe importante che il sindacato, la CGIL in primis, si attrezzasse al sostegno della ricerca (seriamente) eterodossa, ma i circuiti sono ben vigilati dai soliti noti (e come s’è visto i partiti di soldi ne hanno e non sanno che farci!).
PS alla fine ho risposto a un quesito sull'MMT (la si può ascoltare nella registrazione). E' un po' come Beppe Grillo: tutto sbagliato ciò che dice? certo no, eppure quel modo di fare ci mette in estremo disagio, c'è qualcosa che non va. Questo è la MMT. Dovremo discuterene con più calma, ma questo richiede studio, precisamente qualcosa che va contro la Grillonomics-MMT.
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