In balia dello spread aggrappiamo i relitti delle nostre economie a un’agonia di vertici che rinviano ad altri summit che a loro volta rimandano a nuovi summit. C’è da chiedersi cosa abbiano ormai più da dirsi i leaders all’ennesimo incontro «risolutivo». Produzione di vertici a mezzo vertici, così si potrebbe parafrasare un famoso titolo dell’economista Piero Sraffa.
I vertici si susseguono come consulti al capezzale del morente: la prognosi è tanto riservata che i sanitari l’ottimismo non l’ostentano neanche più. Ripetono che lotteranno per far sopravvivere la rantolante moneta a ogni costo. Ma i medici mentono spesso, soprattutto se la situazione è disperata. È come quando in un matrimonio il/la partner ti dice che il vostro legame è solidissimo: incroci le dita e aspetti il peggio. E non c’è argomento dell’informazione su cui l’opinione pubblica sia tanto manipolata dai mass-media quanto l’economia, in particolare se è fallimentare: le bancarotte non vanno mai annunciate in anticipo. Il «parco buoi» non deve essere preavvisato. Quanto più i media suonano rassicuranti, tanto più si salvi chi può.
La verità è che i mercati e i governanti europei ci hanno e si sono messi in una situazione di loose-loose: di perdere qualunque cosa facciano. Non possono salvare l’euro, ma non possono neanche disintegrarlo. Non possono salvarlo perché l’emergenza ha tempi brevissimi, settimane se non giorni, mentre tutte le misure necessarie sono di medio, persino di lungo termine: instaurare un’armonia fiscale, unificare le politiche economiche, rendere la Bce una vera banca centrale europea, con il diritto/dovere di comprare il debito del proprio stato, come avviene per la Federal reserve statunitense o l’istituto di emissione nipponico.
Già, ma quale stato c’è dietro la Bce? Uno stato non lo si costruisce dall’oggi all’indomani. O forse sì, ma dopo una guerra, dopo una sconfitta disastrosa. La guerra non l’abbiamo ancora avuta, ma verso la disfatta catastrofica ci avviamo a passo di carica. Il rapporto di ieri della Confindustria dice che l’economia italiana è in caduta libera, mentre per l’associazione dei banchieri spagnoli l’euro è agli sgoccioli.
Ma una disintegrazione dell’euro affosserebbe per sempre l’Unione europea, azzererebbe Schengen e la libera circolazione, ci riporterebbe indietro di 70 anni. Per salvare l’euro bisognerebbe dargli, e subito, una dimensione politica. Ma anche qui siamo in una situazione di double-bind. L’esperienza dell’unione monetaria è così punitiva che l’Europa sembra diventata la terra del «Capitalismo Reale», in cui uscire dal debito è impossibile quanto evadere dalla Cortina di Ferro. Per salvare l’euro ci vorrebbe una volontà politica, ma l’esperienza dell’euro ha minato e reso odiosa qualcunque prospettiva europea.
È stato detto che l’Europa è come la bicicletta, su cui non puoi stare fermo senza cadere: devi andare avanti. Ma ora l’Europa è un velocipede anche in un altro senso, quello per cui: «Hai voluto la bici, ora pedala!».
I vertici si susseguono come consulti al capezzale del morente: la prognosi è tanto riservata che i sanitari l’ottimismo non l’ostentano neanche più. Ripetono che lotteranno per far sopravvivere la rantolante moneta a ogni costo. Ma i medici mentono spesso, soprattutto se la situazione è disperata. È come quando in un matrimonio il/la partner ti dice che il vostro legame è solidissimo: incroci le dita e aspetti il peggio. E non c’è argomento dell’informazione su cui l’opinione pubblica sia tanto manipolata dai mass-media quanto l’economia, in particolare se è fallimentare: le bancarotte non vanno mai annunciate in anticipo. Il «parco buoi» non deve essere preavvisato. Quanto più i media suonano rassicuranti, tanto più si salvi chi può.
La verità è che i mercati e i governanti europei ci hanno e si sono messi in una situazione di loose-loose: di perdere qualunque cosa facciano. Non possono salvare l’euro, ma non possono neanche disintegrarlo. Non possono salvarlo perché l’emergenza ha tempi brevissimi, settimane se non giorni, mentre tutte le misure necessarie sono di medio, persino di lungo termine: instaurare un’armonia fiscale, unificare le politiche economiche, rendere la Bce una vera banca centrale europea, con il diritto/dovere di comprare il debito del proprio stato, come avviene per la Federal reserve statunitense o l’istituto di emissione nipponico.
Già, ma quale stato c’è dietro la Bce? Uno stato non lo si costruisce dall’oggi all’indomani. O forse sì, ma dopo una guerra, dopo una sconfitta disastrosa. La guerra non l’abbiamo ancora avuta, ma verso la disfatta catastrofica ci avviamo a passo di carica. Il rapporto di ieri della Confindustria dice che l’economia italiana è in caduta libera, mentre per l’associazione dei banchieri spagnoli l’euro è agli sgoccioli.
Ma una disintegrazione dell’euro affosserebbe per sempre l’Unione europea, azzererebbe Schengen e la libera circolazione, ci riporterebbe indietro di 70 anni. Per salvare l’euro bisognerebbe dargli, e subito, una dimensione politica. Ma anche qui siamo in una situazione di double-bind. L’esperienza dell’unione monetaria è così punitiva che l’Europa sembra diventata la terra del «Capitalismo Reale», in cui uscire dal debito è impossibile quanto evadere dalla Cortina di Ferro. Per salvare l’euro ci vorrebbe una volontà politica, ma l’esperienza dell’euro ha minato e reso odiosa qualcunque prospettiva europea.
È stato detto che l’Europa è come la bicicletta, su cui non puoi stare fermo senza cadere: devi andare avanti. Ma ora l’Europa è un velocipede anche in un altro senso, quello per cui: «Hai voluto la bici, ora pedala!».
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