OPINIONI di Angelo d'Orsi IL TEMPO DELLA POLITICA «AUSTERITARIA»
È nato un neologismo adeguato ai tempi della crisi, i tempi della postdemocrazia, espressione politica del turbocapitalismo (o finanzcapitalismo, o ultracapitalismo, o ipercapitalismo). Un neologismo che coglie in la coincidenza tra la politica di austerità - che significa sacrifici per i ceti medio-bassi - e l'attitudine a risolvere le tensioni sociali che quella politica genera con le maniere forti. Insomma: si tratta della nuova politica austeritaria: autoritarismo per imporre l'austerità. La promuovono e cercano con ogni mezzo di farla applicare governi che sono espressione degli stessi gruppi sociali che sono i primi responsabili della crisi, e che della sua gestione continuano largamente a beneficiare, come dimostrano i dati che testimoniano un allargamento della forbice tra ricchi e poveri, con una sostanziale, progressiva diminuzione (e in prospettiva forse sparizione) delle classi medie.
Dunque, nella politica austeritaria, mentre si riducono gli spazi di democrazia per i cittadini, ai quali si lascia credere di poter contare, con le elezioni, anche quelle referendarie, ma che non hanno alcuna possibilità di incidere sulla vita della collettività: ossia, il ruolo di cittadinanza viene meno, mentre si riaffaccia un rapporto di sudditanza verso il potere, che sia rappresentato da un sindaco, un assessore, un sottosegretario, un ministro, un presidente.
Dunque, nella politica austeritaria, mentre si riducono gli spazi di democrazia per i cittadini, ai quali si lascia credere di poter contare, con le elezioni, anche quelle referendarie, ma che non hanno alcuna possibilità di incidere sulla vita della collettività: ossia, il ruolo di cittadinanza viene meno, mentre si riaffaccia un rapporto di sudditanza verso il potere, che sia rappresentato da un sindaco, un assessore, un sottosegretario, un ministro, un presidente.
Si pensi alla esaltante battaglia condotta e vinta coi referendum di un anno fa. Mentre addirittura un neoministro in carica non evitò di affermare che sul nucleare non era detta l'ultima parola, e che ci si sarebbe potuto e dovuto ripensare, pressoché tutte le amministrazioni locali - in una inquietante identità tra centrosinistra e centrodestra - si sono affrettate a mettere in vendita quote di pubblici servizi, a cominciare dalle aziende erogatrici dell'acqua; si sono precipitate insomma a privatizzare i beni comuni. Non c'è che dire: un bel risultato per la democrazia.
Contemporaneamente, il governo mena fendenti allo Stato sociale, colpisce le garanzie dei lavoratori, li getta alla mercé di un padronato sempre più aggressivo e arrogante. Molte delle azioni governative, a cominciare da quella sull'articolo 18 (ossia per la sua eliminazione, o smantellamento), appaiono ideologiche, prive di qualsiasi effettivo risultato, prevedibilmente, sull'economia del Paese: ma si devono fare, e con l'alibi comunitario («le riforme che chiede l'Europa»), si conduce una guerra totale a fini puramente simbolici: si deve dare l'impressione alla controparte sociale - governo e classi dominanti da questo punto di vista sono tutt'uno - che è sconfitta, che non deve permettersi di rialzare la testa, che deve trangugiare ogni amaro calice che le venga offerto (imposto), e tacere.
Mi riferisco all'Italia, certo; ma la situazione è generale, e dovunque nel capitalismo finanziario dominante, anche se sull'orlo del baratro, si impongono scelte dolorose per i ceti subalterni, e come ci si può riuscire? Non basta più la macchina del consenso; non sono sufficienti gli editoriali dei grandi giornali, cartacei o radiotelevisivi; non è sufficiente una massiccia propaganda, che ci invade e ottenebra le menti; è inevitabile il ricorso alla violenza legittima: la violenza degli apparati di polizia. Da Wall Street al Québec, da Basiano alla Val di Susa, lo Stato mostra il suo volto feroce, con un accanimento che stupisce, ove non lo si connetta alla necessità di imporre i nuovi assetti sociali. Tutti coloro che provano a dire di no, ritenendo ancora di essere cittadini, pur essendo tra i meno garantiti (precari, licenziati,cassintegrati, disoccupati,per non parlar dei migranti, che, si sa, sono non persone), sono trattati come popolazione indigena da parte di truppe coloniali.
E intanto si incancreniscono le situazioni: i tanti esodati sfuggiti all'improbabile e goffo conteggio della professoressa Fornero, i lavoratori (e i titolari) di piccole imprese che chiudono giorno dopo giorno, e che dalla riforma del mercato del lavoro (una «boiata» secondo il nuovo presidente di Confindustria) certo non possono ricevere ossigeno.
E mentre il governo - questo, come altri nel mondo - che si è congratulato immediatamente per la vittoria della destra in Grecia, continua nelle sue manovre, all'insegna di una dichiarata volontà di ricupero della coesione sociale, le forze dell'ordine spaccano gambe, rompono teste, sbattono in cella di sicurezza i rappresentanti delle nuove (e vecchie) "classi pericolose". Le lacrime e il sangue non sono più una metafora.
Contemporaneamente, il governo mena fendenti allo Stato sociale, colpisce le garanzie dei lavoratori, li getta alla mercé di un padronato sempre più aggressivo e arrogante. Molte delle azioni governative, a cominciare da quella sull'articolo 18 (ossia per la sua eliminazione, o smantellamento), appaiono ideologiche, prive di qualsiasi effettivo risultato, prevedibilmente, sull'economia del Paese: ma si devono fare, e con l'alibi comunitario («le riforme che chiede l'Europa»), si conduce una guerra totale a fini puramente simbolici: si deve dare l'impressione alla controparte sociale - governo e classi dominanti da questo punto di vista sono tutt'uno - che è sconfitta, che non deve permettersi di rialzare la testa, che deve trangugiare ogni amaro calice che le venga offerto (imposto), e tacere.
Mi riferisco all'Italia, certo; ma la situazione è generale, e dovunque nel capitalismo finanziario dominante, anche se sull'orlo del baratro, si impongono scelte dolorose per i ceti subalterni, e come ci si può riuscire? Non basta più la macchina del consenso; non sono sufficienti gli editoriali dei grandi giornali, cartacei o radiotelevisivi; non è sufficiente una massiccia propaganda, che ci invade e ottenebra le menti; è inevitabile il ricorso alla violenza legittima: la violenza degli apparati di polizia. Da Wall Street al Québec, da Basiano alla Val di Susa, lo Stato mostra il suo volto feroce, con un accanimento che stupisce, ove non lo si connetta alla necessità di imporre i nuovi assetti sociali. Tutti coloro che provano a dire di no, ritenendo ancora di essere cittadini, pur essendo tra i meno garantiti (precari, licenziati,cassintegrati, disoccupati,per non parlar dei migranti, che, si sa, sono non persone), sono trattati come popolazione indigena da parte di truppe coloniali.
E intanto si incancreniscono le situazioni: i tanti esodati sfuggiti all'improbabile e goffo conteggio della professoressa Fornero, i lavoratori (e i titolari) di piccole imprese che chiudono giorno dopo giorno, e che dalla riforma del mercato del lavoro (una «boiata» secondo il nuovo presidente di Confindustria) certo non possono ricevere ossigeno.
E mentre il governo - questo, come altri nel mondo - che si è congratulato immediatamente per la vittoria della destra in Grecia, continua nelle sue manovre, all'insegna di una dichiarata volontà di ricupero della coesione sociale, le forze dell'ordine spaccano gambe, rompono teste, sbattono in cella di sicurezza i rappresentanti delle nuove (e vecchie) "classi pericolose". Le lacrime e il sangue non sono più una metafora.
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