L’Europa difficile
Nel nostro forum «Un’altra strada per l’Europa» del 28 giugno a Bruxelles, la prima sessione ha avanzato delle proposte in larga parte convergenti sui limiti da porre al dominio della finanza e alle banche, e sugli interventi d’emergenza per i paesi colpiti dalla speculazione. Come è noto, il Consiglio europeo, che si svolgeva in contemporanea, ne recepiva una parte minima. È altrettanto noto che la stampa ha inneggiato a questo minimo – azione «antispread» e unione bancaria – con toni trionfalistici, attribuendolo al passaggio della presidenza della repubblica francese del liberista Sarkozy al socialista (se non keynesiano) Hollande, e al salto del liberista Monti da alleato con la Germania ad alleato con la Francia, la Spagna e l’Italia. Vittoria dei paesi del sud, hanno strillato, tale e quale come all’Euro 2012 del football. La signora Merkel ha incassato e ha fatto incassare anche al Bundestag il modesto passetto indietro…
Tutto questo è avvenuto nella sede della Ue ma fuori da ogni procedura comunitaria, perché non è scritto da nessuna parte che le decisioni continentali si debbano al cambiare di orientamento dei governi di un paio di nazioni. Qualche giorno prima un documento di Van Rompuy e Barroso faceva capire che la Commissione sentiva arrivare le proteste e cercava di farvi fronte con il minimo di concessioni, anzi con un elevarsi del prezzo da pagare da ciascun paese in cambio di un aiuto.
Al nostro forum, Susan George ne rivelava il meccanismo e nella seduta dedicata a «Una Europa democratica» ci mettevamo reciprocamente in guardia dalle ambiguità della domanda di «più Europa»: in bocca alla Germania e alle nazioni del nord significa più intrusione della Troika nel comportamento nazionale dei più deboli quando chiedono aiuto (si pensi al fatale Memorandum imposto alla Grecia) mentre per noi significa più partecipazione delle nazioni alle decisioni comunitarie, aiuti compresi.
Ma su questo tema neanche il nostro forum ha fatto consistenti passi avanti. Il nostro richiamo a «più democrazia» si trova di fronte a due spinte opposte. La prima, esplicita, è quella del gruppo Spinelli, che da anni ripropone la sua linea per un’Europa federale e sovranazionale, una strada giusta ma declinata più sul fronte tecnocratico che su quello della partecipazione. La seconda è la spinta populista che si mostra in quasi tutte le elezioni nazionali, verso un furioso distacco dalla Ue e la ripresa da parte di ogni paese della sua libertà d’azione, a ricominciare dalla propria moneta. Non per caso si dice «crisi dell’Europa» e «crisi dell’euro» come se fossero la stessa cosa.
A torto? Non del tutto a torto. Essi rivelano il carattere un po’ mostruoso della comunità europea attuale, assai più simile alla «Europa delle patrie» cara a de Gaulle che a una comunità effettiva di stati, decisi a mettere in comune i loro fondamentali indirizzi; oggi la Ue governa con alcune sue leggi fortemente costrittive – nate con il Trattato di Maastricht e imposte con i vari «Patti» su stabilità, crescita e politica fiscale – su paesi di tutt’altra forza, dimensioni, composizione sociale, situazione fiscale e diritti contrattuali. I trattati infatti, loquaci in tema di diritti umani e politici, sono singolarmente muti o vaghi quando si tratta di diritti sociali, – vulgo, quando si tratta di concordare il portafoglio.
Di qui nasce la difficoltà. La netta distinzione fra economia e politica, rivendicata quando avevamo in Berlusconi l’uomo più ricco e insieme la figura politica più potente d’Italia, non impedisce affatto che la proprietà dei capitali abbia il sopravvento sui principi politici sbandierati dai trattati: oggi lo stesso «diritto politico» ha un significato diverso per un cittadino tedesco e un greco, perché agisce su un europeo sicuro (o quasi) della propria sopravvivenza e su un cittadino europeo che se la vede del tutto regolarmente negata o in pericolo. Mentre infatti di diritti politici sono uguali, almeno in linea di principio, per tutto il continente, i diritti sociali sono diversi, anzi tali sono pretesi dalla libertà di mercato. Non che l’omologazione sarebbe impossibile, ma implicherebbe un controllo del movimento dei capitali e un fermo alla «deregulation» che l’Europa, nel suo delinearsi sotto la bacchetta liberista, ha rifiutato. Lo scandalizzarsi che, in quasi tutti i paesi, si affacci o avanzi l’estrema destra antieuropea è grandemente ipocrita: esso avviene in regioni o zone dove, nel silenzio della commissione e dei trattati, ingenti capitali arrivano, agevolati dallo stato in ingresso, utilizzano una manodopera già in gran parte formata e poi spariscono, andando in cerca di un altra massa lavorativa altrove più a buon prezzo di tre, quattro, sei volte, e lasciando a terra, affidata al soccorso pubblico, la forza di lavoro prima impiegata. E con essa interi borghi o quartieri di grosse città. O regioni… Ieri l’altro l’Unesco ha iscritto nel «Patrimonio dell’umanità» l’intero bacino minerario del Pas de Calais, come i mausolei in pericolo a Timbuctu – succede con le civiltà spente. Ma la gente del Pas de Calais non è spenta, le miniere sono scomparse sotto i piedi, è senza lavoro ed è grazie a Mélenchon se non ha votato maggioritariamente per il Fronte Nazionale che diceva la verità sulle sue condizioni materiali, e agitava una riscossa antieuropeista del tutto improbabile.
È assai duro il conto che l’attuale Unione Europea presenta a coloro che il libero mercato getta fuori dall’ascensore sociale. Sia ad opera dei più potenti e competitivi all’interno del continente (la competitività si fa innovando il prodotto o, quando la proprietà non vuole spendere, cercando di pagare salari sempre più bassi), sia ad opera dei paesi emergenti, dove i salari già bassi sono e i capitali raccolti sul super sfruttamento di una forza di lavoro senza contratti fanno incursione in un Europa apertissima, ne acquistano il know how e ne sfruttano le infrastrutture, salvo poi tornare a casa propria lasciando il deserto nelle regioni che abbandonano e al loro stato di pagare l’assistenza ai disoccupati. Del resto neanche i sindacati europei si danno molto da fare a unificare la loro azione fra un paese e l’altro, neanche contro lo stesso padrone, e neppure per far fronte a una crescente disoccupazione in tutti i paesi – per non parlare delle sinistre politiche, del tutto assenti. Al nostro Forum, dove hanno fatto capolino alcune di esse, di sindacati non se ne sono visti, eccezion fatta per la Fiom di Landini, che ha parlato in nome proprio. E la fantomatica Ces, la Confederazione europea dei sindacati, che esiste da prima della Ue, ma la cui presenza in qualsiasi lotta è del tutto impercettibile.
Di qui la difficoltà di discutere, anche fra chi vorrebbe farlo, di una democrazia reale in Europa. E la sensazione che non si tratta soltanto di lubrificare i meccanismi esistenti. Di più, di qui la percezione paradossale che democrazia politica europea sarebbe più difesa dal passare delle riforme «economiche» contro gli impedimenti posti a un ruolo della Bce nel finanziamento dei debiti degli stati, o all’obbligo delle banche di separare le attività speculative da quelle di deposito, che non dalla ripetuta enunciazione dei trattati, per non parlare della Corte di giustizia; o dal ricorso a questo o quell’altro meccanismo elettivo.
In verità il capitale è già oggi transnazionale (è la sua natura da sempre), mentre il lavoro è stretto nei perimetri nazionali. Il capitale svolazza, entra ed esce dall’Europa, mentre il lavoro ha la mobilita dei corpi, degli affetti, delle famiglie, della casa, del tessuto di relazioni di una vita – non si trasferisce in tempo reale per via informatica. Il termine «diritto di lavorare» invece che «diritto a un lavoro» – cioè a un salario, cioè a vivere – è stato e resta la trappola giuridicista che ha difeso la Ue e i suoi trattati dalla realtà. E che oggi alimenta contro di essa le estreme destre che spuntano da tutte le parti. Sarebbe ora che i costituzionalisti italiani, che si dibattono nella difesa della nostra Costituzione dagli attacchi regolari della proprietà, regolarmente votati da un parlamento per modo di dire, si rendessero conto che siamo legati a filo doppio alla povera democrazia dell’ Europa. E mettessero mano a quella divisione fra economia e politica che i più ritengono assicurata dalle misure individuali contro il «conflitto di interessi», mentre l’«economia» continua a divorarsi le radici della «politica» come un fiume in piena che trapassa invisibilmente tutte le frontiere..
Sul Sole-24 Ore di domenica Guido Rossi osservava con ragione che il problema del debito e le mosse del Consiglio, come quelle del 28 e 29 scorsi, non sono «economici» ma «politici». Finché non se ne saranno convinti parlamenti, partiti e cittadini tutti, non avremo un’Europa democratica.
Tutto questo è avvenuto nella sede della Ue ma fuori da ogni procedura comunitaria, perché non è scritto da nessuna parte che le decisioni continentali si debbano al cambiare di orientamento dei governi di un paio di nazioni. Qualche giorno prima un documento di Van Rompuy e Barroso faceva capire che la Commissione sentiva arrivare le proteste e cercava di farvi fronte con il minimo di concessioni, anzi con un elevarsi del prezzo da pagare da ciascun paese in cambio di un aiuto.
Al nostro forum, Susan George ne rivelava il meccanismo e nella seduta dedicata a «Una Europa democratica» ci mettevamo reciprocamente in guardia dalle ambiguità della domanda di «più Europa»: in bocca alla Germania e alle nazioni del nord significa più intrusione della Troika nel comportamento nazionale dei più deboli quando chiedono aiuto (si pensi al fatale Memorandum imposto alla Grecia) mentre per noi significa più partecipazione delle nazioni alle decisioni comunitarie, aiuti compresi.
Ma su questo tema neanche il nostro forum ha fatto consistenti passi avanti. Il nostro richiamo a «più democrazia» si trova di fronte a due spinte opposte. La prima, esplicita, è quella del gruppo Spinelli, che da anni ripropone la sua linea per un’Europa federale e sovranazionale, una strada giusta ma declinata più sul fronte tecnocratico che su quello della partecipazione. La seconda è la spinta populista che si mostra in quasi tutte le elezioni nazionali, verso un furioso distacco dalla Ue e la ripresa da parte di ogni paese della sua libertà d’azione, a ricominciare dalla propria moneta. Non per caso si dice «crisi dell’Europa» e «crisi dell’euro» come se fossero la stessa cosa.
A torto? Non del tutto a torto. Essi rivelano il carattere un po’ mostruoso della comunità europea attuale, assai più simile alla «Europa delle patrie» cara a de Gaulle che a una comunità effettiva di stati, decisi a mettere in comune i loro fondamentali indirizzi; oggi la Ue governa con alcune sue leggi fortemente costrittive – nate con il Trattato di Maastricht e imposte con i vari «Patti» su stabilità, crescita e politica fiscale – su paesi di tutt’altra forza, dimensioni, composizione sociale, situazione fiscale e diritti contrattuali. I trattati infatti, loquaci in tema di diritti umani e politici, sono singolarmente muti o vaghi quando si tratta di diritti sociali, – vulgo, quando si tratta di concordare il portafoglio.
Di qui nasce la difficoltà. La netta distinzione fra economia e politica, rivendicata quando avevamo in Berlusconi l’uomo più ricco e insieme la figura politica più potente d’Italia, non impedisce affatto che la proprietà dei capitali abbia il sopravvento sui principi politici sbandierati dai trattati: oggi lo stesso «diritto politico» ha un significato diverso per un cittadino tedesco e un greco, perché agisce su un europeo sicuro (o quasi) della propria sopravvivenza e su un cittadino europeo che se la vede del tutto regolarmente negata o in pericolo. Mentre infatti di diritti politici sono uguali, almeno in linea di principio, per tutto il continente, i diritti sociali sono diversi, anzi tali sono pretesi dalla libertà di mercato. Non che l’omologazione sarebbe impossibile, ma implicherebbe un controllo del movimento dei capitali e un fermo alla «deregulation» che l’Europa, nel suo delinearsi sotto la bacchetta liberista, ha rifiutato. Lo scandalizzarsi che, in quasi tutti i paesi, si affacci o avanzi l’estrema destra antieuropea è grandemente ipocrita: esso avviene in regioni o zone dove, nel silenzio della commissione e dei trattati, ingenti capitali arrivano, agevolati dallo stato in ingresso, utilizzano una manodopera già in gran parte formata e poi spariscono, andando in cerca di un altra massa lavorativa altrove più a buon prezzo di tre, quattro, sei volte, e lasciando a terra, affidata al soccorso pubblico, la forza di lavoro prima impiegata. E con essa interi borghi o quartieri di grosse città. O regioni… Ieri l’altro l’Unesco ha iscritto nel «Patrimonio dell’umanità» l’intero bacino minerario del Pas de Calais, come i mausolei in pericolo a Timbuctu – succede con le civiltà spente. Ma la gente del Pas de Calais non è spenta, le miniere sono scomparse sotto i piedi, è senza lavoro ed è grazie a Mélenchon se non ha votato maggioritariamente per il Fronte Nazionale che diceva la verità sulle sue condizioni materiali, e agitava una riscossa antieuropeista del tutto improbabile.
È assai duro il conto che l’attuale Unione Europea presenta a coloro che il libero mercato getta fuori dall’ascensore sociale. Sia ad opera dei più potenti e competitivi all’interno del continente (la competitività si fa innovando il prodotto o, quando la proprietà non vuole spendere, cercando di pagare salari sempre più bassi), sia ad opera dei paesi emergenti, dove i salari già bassi sono e i capitali raccolti sul super sfruttamento di una forza di lavoro senza contratti fanno incursione in un Europa apertissima, ne acquistano il know how e ne sfruttano le infrastrutture, salvo poi tornare a casa propria lasciando il deserto nelle regioni che abbandonano e al loro stato di pagare l’assistenza ai disoccupati. Del resto neanche i sindacati europei si danno molto da fare a unificare la loro azione fra un paese e l’altro, neanche contro lo stesso padrone, e neppure per far fronte a una crescente disoccupazione in tutti i paesi – per non parlare delle sinistre politiche, del tutto assenti. Al nostro Forum, dove hanno fatto capolino alcune di esse, di sindacati non se ne sono visti, eccezion fatta per la Fiom di Landini, che ha parlato in nome proprio. E la fantomatica Ces, la Confederazione europea dei sindacati, che esiste da prima della Ue, ma la cui presenza in qualsiasi lotta è del tutto impercettibile.
Di qui la difficoltà di discutere, anche fra chi vorrebbe farlo, di una democrazia reale in Europa. E la sensazione che non si tratta soltanto di lubrificare i meccanismi esistenti. Di più, di qui la percezione paradossale che democrazia politica europea sarebbe più difesa dal passare delle riforme «economiche» contro gli impedimenti posti a un ruolo della Bce nel finanziamento dei debiti degli stati, o all’obbligo delle banche di separare le attività speculative da quelle di deposito, che non dalla ripetuta enunciazione dei trattati, per non parlare della Corte di giustizia; o dal ricorso a questo o quell’altro meccanismo elettivo.
In verità il capitale è già oggi transnazionale (è la sua natura da sempre), mentre il lavoro è stretto nei perimetri nazionali. Il capitale svolazza, entra ed esce dall’Europa, mentre il lavoro ha la mobilita dei corpi, degli affetti, delle famiglie, della casa, del tessuto di relazioni di una vita – non si trasferisce in tempo reale per via informatica. Il termine «diritto di lavorare» invece che «diritto a un lavoro» – cioè a un salario, cioè a vivere – è stato e resta la trappola giuridicista che ha difeso la Ue e i suoi trattati dalla realtà. E che oggi alimenta contro di essa le estreme destre che spuntano da tutte le parti. Sarebbe ora che i costituzionalisti italiani, che si dibattono nella difesa della nostra Costituzione dagli attacchi regolari della proprietà, regolarmente votati da un parlamento per modo di dire, si rendessero conto che siamo legati a filo doppio alla povera democrazia dell’ Europa. E mettessero mano a quella divisione fra economia e politica che i più ritengono assicurata dalle misure individuali contro il «conflitto di interessi», mentre l’«economia» continua a divorarsi le radici della «politica» come un fiume in piena che trapassa invisibilmente tutte le frontiere..
Sul Sole-24 Ore di domenica Guido Rossi osservava con ragione che il problema del debito e le mosse del Consiglio, come quelle del 28 e 29 scorsi, non sono «economici» ma «politici». Finché non se ne saranno convinti parlamenti, partiti e cittadini tutti, non avremo un’Europa democratica.
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