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L’Agenda Monti rilancia l’idea di salari flessibili, legati alla produttività o alla redditività delle imprese. Non è questa la strada giusta per la contrattazione sindacale e per far ripartire la produttività
L’Agenda Monti (www.agenda-monti.it), “Cambiare l’Italia, Riformare l’Europa. Una agenda per un impegno comune”, si propone come un Primo contributo ad una riflessione aperta, così esplicitamente dichiara il titolo. Cogliamo l’occasione per ritornare sul tema del salario flessibile in chiave di politica economica, anche perché proprio nel documento si fa riferimento all’Accordo sulla Produttività firmato dalle parti sociali il 21 novembre 2012. Due sono i passi in cui nel documento ci si occupa del tema.
Il primo nella sezione dedicata a Rivitalizzare la vocazione industriale dell’Italia, ove si afferma:
“Serve infine lavorare sulla produttività totale dei fattori e sul costo del lavoro per diminuire quel divario con gli altri Paesi europei che crea uno squilibrio di competitività. Bisogna quindi continuare sulla strada del decentramento della contrattazione salariale lungo il solco dell’accordo tra le parti sociali dell’ottobre scorso”.
Il secondo nella sezione La riforma delle pensioni e del mercato del lavoro, ove si afferma:
“La modernizzazione del mercato del lavoro italiano richiederà inoltre di intervenire per: [...]
– spostare verso i luoghi di lavoro il baricentro della contrattazione collettiva, favorendo il collegamento di una parte maggiore delle retribuzioni alla produttività o alla redditività delle aziende attraverso forme di defiscalizzazione, come avvenuto nell’accordo firmato dalle parti sociali nell’ottobre scorso”.
Questi due passi sono importanti perché hanno una valenza generale sia in termini di obiettivi che di strumenti. La produttività è necessaria per gli obiettivi di crescita e di recupero di competitività nei confronti di altri Paesi europei, ed è anche un obiettivo a cui le retribuzioni devono essere collegate nelle imprese private e nel settore pubblico in un quadro di decentramento della contrattazione salariale. La visione che emerge nell’Agenda Monti è secondo noi solo in parte condivisibile, per quello che si afferma e per ciò che non si afferma. Ci soffermiamo qui in modo sintetico su tre aspetti: il ruolo della contrattazione e che tipo; lo strumento della fiscalizzazione; la concezione di salario variabile (per chi fosse interessato alle argomentazioni, rimandiamo alla versione completa di questo lavoro, disponibile nel pdf qui sotto).
Due pilastri e un metodo
Premettiamo che il decentramento contrattuale non deve essere assolutamente demonizzato, tutt’altro. E’ sempre stato il livello negoziale nell’ambito del quale sono migliorate le condizioni di lavoro dei lavoratori ed anche le condizioni di produttività e competitività dell’impresa. Ciò è storicamente avvenuto in varie fasi dello sviluppo economico italiano ed ha trovato spesso un equilibrio con modalità centralizzate. (…) Ed anche quando gli obiettivi erano quelli macroeconomici, i due pilastri, decentramento e centralizzazione, sono stati utilizzati congiuntamente in modo complementare. (…) Anche oggi vi è un obiettivo macroeconomico da raggiungere, che è quello di riprendere un sentiero di crescita della produttività e di recupero di competitività dell’apparato industriale nazionale. Tale obiettivo non può che reggersi su due pilastri, il contratto nazionale e il contratto decentrato. E il metodo è quello della concertazione.
È significativo che ciò che viene dichiarato nell’Agenda sia il ruolo della contrattazione decentrata, sul salario, mentre la funzione della contrattazione nazionale sia intesa in modo implicito, non essendo neppure richiamata, come un livello di cui ridurre necessariamente la portata. Al contempo il metodo stesso della concertazione non è indicato come metodo di lavoro, essendo stato sostituito nella pratica del Governo Monti da quello della informazione e a volte della consultazione, come in effetti è avvenuto nel caso della riforma del sistema pensionistico ed in quella del mercato del lavoro, con esiti non particolarmente brillanti ricordiamo. (…).
Quindi l’obiettivo della crescita della produttività e del recupero della competitività delle imprese dovrebbe reggersi solo su un pilastro, quello della contrattazione decentrata, ed al contempo deve fare a meno del metodo della concertazione, sostituito da quello della informazione e parziale consultazione. Entrambi gli aspetti ci sembrano quelli che hanno caratterizzato la politica del Governo Monti sul tema del lavoro, ed in ciò vediamo una continuità piuttosto che una discontinuità con il Governo precedente. Non ci sembra un caso che sull’articolo 8 della legge 148 del 2011 (Governo Berlusconi), quello che prevede che i contratti aziendali o territoriali definiti di prossimità, possano derogare con efficacia erga omnes non solo da quanto previsto dai contratti nazionali, ma anche da disposizioni legislative, il Governo Monti non sia mai intervenuto per abrogarlo. (…).
Ci sembra più che lecito dubitare che il conseguimento di un obiettivo così importante per il sistema produttivo italiano possa essere perseguito affidandosi solo a un pilastro, quello della contrattazione decentrata sul salario, quando come è noto questo livello di contrattazione copre una quota piuttosto contenuta delle imprese. (…) In gran parte del tessuto produttivo, il pilastro su cui Monti fa affidamento non esiste. Qui allora dovrebbe operare il contratto nazionale di lavoro che non solo svolge una funzione di garanzia di minimi di trattamento economico e normativo prevedendo tutele e diritti, ma dovrebbe anche farsi carico di trovare strumenti adeguati per perseguire l’obiettivo di crescita della produttività e recupero della competitività. A questo livello, sarebbe più opportuno porsi un obiettivo condiviso di crescita di produttività, di settore, di comparto, di filiera e, fissato questo obiettivo programmato di produttività, utilizzare varie leve, fra cui le decisioni di innovazione organizzativa e tecnologica, gli investimenti in capitale fisico e capitale intangibile, le risorse pubbliche e private in R&S, e per l’innovazione di prodotto e di processo. E quindi collegare a questo obiettivo programmatico di crescita della produttività l’andamento delle retribuzioni, che svolgono così una duplice funzione, da un lato di tipo redistributivo che è essenziale per sostenere la crescita dei salari reali e quindi fonte principale della domanda interna di beni e servizi, dall’altro di stimolo e pressione per il cambiamento tecnologico ed organizzativo delle imprese, così come un grande economista italiano argomentava, Paolo Sylos Labini (1989), richiamando gli insegnamenti degli economisti classici, da Smith, passando per Ricardo, per giungere a Marx. In questo modo si possono recuperare i due pilastri, quello della contrattazione decentrata e della contrattazione centralizzata, naturalmente con un metodo, che non può che essere quello della concertazione e della condivisione di obiettivi concordati e di comportamenti conseguenti e tra loro coerenti.
La strada suggerita nell’Agenda Monti è invece differente e incompleta nel senso indicato sopra. Si propone un legame tra produttività e retribuzioni a livello decentrato che trova ispirazione in quell’Accordo sulla Produttività del Novembre 2012 che viene richiamato come linea guida. Già ci siamo occupati di quell’accordo, evidenziandone i limiti profondi (www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Produttivita-un-accordo-con-nulla-di-buono-15503). Qui intendiamo riprendere alcune delle nostre osservazioni per estenderle all’Agenda Monti. (…)
La defiscalizzazione aiuta la contrattazione decentrata oppure è cosmesi?
Lo strumento principe e unico nell’Agenda per favorire la contrattazione decentrata sul salario è quello della fiscalità, con le misure previste di decontribuzione e detassazione del salario flessibile. (…) Sappiamo che tale strumento non è nuovo, in Italia e neppure all’estero, nell’esperienza anglosassone e in quella francese ad esempio. Nel nostro paese risale al 1997. (…)
Ci dovremmo chiedere se tali interventi dal 1997 in poi hanno esteso la contrattazione decentrata e in particolare quella sul salario variabile. In secondo luogo se a fronte di un’eventuale negoziazione decentrata sul salario variabile si registra una effettiva variabilità del salario tale da innescare circoli virtuosi tra retribuzione e produttività, di cui poi discuteremo nel seguito.
Se consideriamo fonti sindacali, oppure fonti nazionali istituzionali, non sembra possibile riscontrare una maggiore diffusione della contrattazione decentrata, fatta eccezione per una prima fase successiva all’accordo del 1993. Anzi, lo spazio della contrattazione decentrata sembra essersi ridotto, ed essa ha anche cambiato natura, concentrandosi spesso su istituti di tipo difensivo volti alla tutela del posto di lavoro, a retribuzioni minime in situazioni di crisi aziendale, o alla gestione della mobilità esterna all’impresa.
Inoltre, meccanismi di defiscalizzazione possono indurre comportamenti collusivi tra le parti, ed accrescere la probabilità di tali comportamenti se già presenti. Percentuali significative di contratti cosiddetti “cosmetici”, ovvero contratti che formalmente introducono la flessibilità salariale ma che nella sostanza prevedono che tale flessibilità non sussista in quanto i premi salariali sono pressoché garantiti dal meccanismi adottato, sono risapute nell’esperienza italiana, e tale modalità non è certo scomparsa in presenza di vantaggi fiscali distribuiti senza controllo alcuno. L’introduzione del vantaggio fiscale mai è stata accompagnata da una attività di verifica e di controllo di quanto variabile sia effettivamente il salario che gode di tale vantaggio. (…) Dalle verifiche per via diretta alle raccolte che - in modo non sistematico – fanne le organizzazioni sindacali o datoriali, emerge una diffusione significativa di contratti cosmetici nell’ordine del 10%-20% ed anche maggiore a seconda delle aree geografiche indagate, dei settori produttivi coinvolti, delle dimensioni d’impresa, del tasso di sindacalizzazione di settore e/o d’impresa. Percentuali di questo tipo risultano confermate anche dalle indagini di Banca d’Italia e Istat che hanno individuato una diffusione significativa di premi salariali distribuiti in cifra fissa. Inoltre, nei casi di premi effettivamente variabili, le quote del salario di produttività non superano quasi mai il 10% della retribuzione totale e spesso si aggirano attorno al 5%, una soglia piuttosto contenuta, che non raggiunge il valore di una mensilità, e quasi sempre non ha effetti sul salario differito, quindi non è computata per il trattamento di fine rapporto e neppure per la previdenza obbligatoria, cioè a fini pensionistici. (…).
Per ovviare a questi possibili effetti collaterali della fiscalizzazione l’Agenda Monti non prevede alcunché, ovvero nessun percorso di monitoraggio è contemplato, anche se il problema è ben presente nella letteratura economica e nell’esperienza sindacale. (…) In Italia si intende introdurre comunque in modo diffuso tale pratica senza modalità di monitoraggio, affidando ad essa un obiettivo superiore, ovvero la diffusione della contrattazione decentrata e mediante questa del salario variabile nelle imprese. Il recente accordo di rinnovo del contratto per il settore metalmeccanico, firmato il 5 dicembre 2012, sembra prevedere tale opzione, spostando parte della retribuzione negoziata al livello nazionale sul livello decentrato per trarre vantaggio della minore fiscalità, ed al contempo garantendo gli aumenti retributivi concordati. Come abbiamo osservato (www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Metalmeccanici-un-contratto-sbagliato-15854), questa è la dimostrazione che o si intende (a) realizzare una serie di contratti aziendali cosmetici, oppure si intende (b) modificare la composizione del salario, diminuendone la quota certa a favore di quella incerta, depotenziando grandemente il contratto nazionale con il quale non si garantisce neppure più in questo caso la salvaguardia del potere d’acquisto. Siccome non crediamo che l’obiettivo della Agenda Monti sia il primo, non rimane che ritenere che sia il secondo.
Produttività/redditività o partecipazione?
È certo notevole e da rimarcare che nell’Agenda Monti la retribuzione flessibile sia associata unicamente al legame con la ”produttività o redditività”. (…) Tuttavia così non è nell’Accordo sulla produttività (…) Rispetto a quel testo si opera una revisione al ribasso della portata dell’istituto, laddove si dichiarava “Per favorire questo processo è necessario, altresì, incrementare e rendere strutturali, certe e facilmente accessibili tutte le misure fiscali e contributive volte ad incentivare la contrattazione di secondo livello che collega parte della retribuzione al raggiungimento di obiettivi di produttività, di qualità, di redditività, di efficacia, di innovazione, di valorizzazione del lavoro, di efficienza organizzativa e altri elementi rilevanti ai fini del miglioramento della competitività del settore produttivo” (Accordo sulla Produttività, 2012, p.4, corsivo nostro).
Così nel testo dell’Agenda Monti, il salario variabile perde quella valenza più ampia che riconduce gli auspicati guadagni di produttività anche a fattori di qualità della produzione e del prodotto ed alla organizzazione e valorizzazione del lavoro, restringendo il campo a mera efficienza del fattore lavoro o alla profittabilità dell’impresa, facendo emergere una concezione aziendalistica davvero arcaica anche rispetto alla letteratura economica business oriented. Non è affatto un caso che mai nell’Agenda il termine “partecipazione” o il più debole “coinvolgimento” siano declinati assieme a quello del salario variabile, come se i due concetti fossero tra loro incompatibili. (…) Più probabilmente, il termine partecipazione o quello molto più debole di coinvolgimento mal si coniuga con la concezione sottintesa d’impresa, e rischia di andare in conflitto con quello della democrazia industriale che i termini partecipazione/coinvolgimento potrebbero richiamare.
Cosi non era per gli estensori del Protocollo del 23 luglio 1993, il famoso accordo che sanciva il doppio livello di contrattazione, quello nazionale e quello decentrato, e prevedeva, tra l’altro, che le “erogazioni del livello di contrattazione aziendale sono strettamente correlate ai risultati conseguiti nella realizzazione di programmi concordati tra le parti, aventi come obiettivo incrementi di produttività, di qualità ed altri elementi di competitività di cui le imprese dispongano, compresi i margini di produttività, che potrà essere impegnata per accordo tra le parti, eccedente quella eventualmente già utilizzata per riconoscere gli aumenti retributivi a livello di Ccnl, nonché ai risultati legati all’andamento economico dell’impresa” (Protocollo 23 luglio 1993, sezione 2, comma 3, corsivo nostro). Si noti come il testo afferma non tanto che le retribuzioni siano collegate agli incrementi di produttività, ecc., ma quanto che queste siano strettamente correlate ai risultati raggiunti con la realizzazione di programmi concordati tra le parti, che hanno questi come obiettivi gli incrementi di produttività, ecc. L’enfasi è posta sul raggiungimento di programmi peraltro concordati tra le parti, e non su meri indicatori di produttività o redditività aziendali, questi ultimi neppure esplicitamente richiamati nel testo che fa riferimento generale all’andamento economico dell’impresa. (…)
Qui ci interessa un richiamo a ciò che un padre della Repubblica Italiana scriveva nel 1949 in relazione alla partecipazione agli utili. Non si tratta di Alcide De Gasperi, così spesso citato da Monti, quanto di Luigi Einaudi, nelle sue Lezioni di politica sociale del 1949. In quest’opera, Einaudi ragionava sulla forma della partecipazione dei lavoratori agli utili dell’impresa e dalle sue argomentazioni possono essere tratte i seguenti cinque principi cardine. (si rinvia al testo completo per le argomentazioni di Einaudi). (…)
1) che la parte variabile della erogazione al lavoratore sia una aggiunta al salario normale da questo percepito, e non sostitutiva di una quota di questo, ovvero non si deve trasformare una quota certa del salario in una quota incerta;
2) che la partecipazione sia agli utili e non alle perdite dell’impresa, che invece rimangono parte del rischio imprenditoriale, per cui la concezione di suddivisione del rischio non è appropriata e non deve applicarsi alla relazione retribuzione variabile e risultati;
3) che la variabilità della quota aggiuntiva deve collegarsi alla organizzazione e struttura dell’impresa, ed in particolare alla loro partecipazione alla organizzazione del lavoro, e non a fattori di rischio imprenditoriale e di mercato che possono risultare anche aleatori;
4) che la partecipazione implica necessariamente che i lavoratori abbiamo voice nelle scelte dell’impresa sui fattori organizzativi che li coinvolgono e che hanno effetti sulla retribuzione variabile, sotto forma di modalità non solo informative, ma anche consultive e negoziali con la direzione dell’impresa;
5) che tutto ciò avvenga in virtù della pre-esistenza di una relazione fiduciaria tra le parti, piuttosto che essere questo lo strumento per costruire tale relazione fiduciaria.
Crediamo che a tali principi cardine possa essere ricondotto quanto previsto dal Protocollo del 1993, mentre è ben più difficile riscontare analoga coerenza nell’Accordo sulla Produttività del novembre 2012 e nell’Agenda Monti del dicembre 2012; entrambi contrastano con tutti e cinque i principi cardine precedenti.
La concezione del legame tra retribuzione e risultati (produttività e/o redditività) che caratterizza sia l’Accordo che l’Agenda implica infatti quanto segue: a) che una quota del salario da certa divenga incerta e transiti dal contratto nazionale di lavoro a quello aziendale/territoriale (contravvenendo al primo principio); b) che il lavoratore suddivida il rischio d’impresa con il datore di lavoro ancorando la sua retribuzione variabile ad eventuali indicatori di redditività aziendale, che possono essere per loro natura influenzati dal mercato e quindi anche aleatori (contravvenendo al secondo e terzo principio); c) che non si prevedano forme per dare sostanza alla partecipazione dei lavoratori alla definizione della organizzazione del lavoro e dell’impresa a cui deve essere collegata la quota aggiuntiva e variabile del salario (contravvenendo al terzo principio); d) che nulla si dica circa le modalità di partecipazione/coinvolgimento dei lavoratori sulle scelte organizzative che li coinvolgono, ed inoltre non si affronti la questione dei diritti di rappresentanza dei soggetti che negoziano accordi di secondo livello, indipendentemente che li sottoscrivano o meno (contravvenendo al quarto principio); e) che tutto ciò si realizzi in un clima che non è certo caratterizzato da relazioni fiduciarie tra le parti, come è attestato anche, ma non solo, da fenomeni quali l’esclusione dal tavolo delle trattative sino ai ricorsi che con crescente frequenza si hanno di fronte ai giudici del lavoro (contravvenendo al quinto principio).
Un’ultima riflessione la dedichiamo alla previsione di efficacia del legame tra retribuzione e risultati aziendali nell’innescare una crescita della produttività, per la quale rimandiamo il lettore interessato al testo pdf completo. (…)
Conclusioni
In conclusione, ciò che emerge dalla Agenda Monti è una concezione di salario flessibile legato alle performance delle imprese estremamente tradizionale, che fonda la sua efficacia su meccanismi di incentivazione dello sforzo lavorativo senza fare i conti con concezioni di impresa più moderne centrate sul modello delle competenze, oppure su meccanismi di suddivisione del rischio senza introdurre alcuna forma di partecipazione nei processi decisionali. Essa appare anche più riduttiva rispetto a quanto declinato nell’Accordo sulla Produttività, che certo non brilla per innovatività, tutt’altro. Questa concezione evidenzia come il fine ultimo della retribuzione flessibile sia la riduzione del costo del lavoro e per questa via la diminuzione del costo del lavoro per unità di prodotto, senza innescare alcun meccanismo virtuoso sul denominatore della frazione, ovvero la produttività. E per fare ciò ci si affida unicamente a misure di defiscalizzazione del salario variabile per i dipendenti. Le esperienze passate, in Italia ed all’estero, mostrano che lo strumento rischia di essere particolarmente inefficace, ed al contempo costoso: può avere un qualche effetto significativo sulla diffusione dei premi variabili, ma contribuisce soprattutto alla diffusione di premi cosmetici negoziati, in assenza di un rigoroso monitoraggio.
Lo strumento delle retribuzioni variabili nell’ambito della contrattazione decentrata potrebbe sortire effetti efficaci sulla dinamica della produttività. A tal fine occorre anzitutto che esso venga portato fuori dal campo delle ideologie e dei luoghi comuni che lo presentano come la panacea al problema del declino, e che venga introdotto come premio di partecipazione con quelle caratteristiche distintive che le riflessioni scientifiche e le evidenze empiriche, da Einaudi in poi, hanno da tempo prescritto. Solo in tale ambito il salario variabile potrà contribuire – come uno ma non certo l’unico degli strumenti – a fermare il declino dell’apparato produttivo italiano, innescando un circolo virtuoso tra produttività e salario reale che si basi sia sulla crescita della produttività che sulla distribuzione dei risultati a coloro che vi concorrono.
Il primo nella sezione dedicata a Rivitalizzare la vocazione industriale dell’Italia, ove si afferma:
“Serve infine lavorare sulla produttività totale dei fattori e sul costo del lavoro per diminuire quel divario con gli altri Paesi europei che crea uno squilibrio di competitività. Bisogna quindi continuare sulla strada del decentramento della contrattazione salariale lungo il solco dell’accordo tra le parti sociali dell’ottobre scorso”.
Il secondo nella sezione La riforma delle pensioni e del mercato del lavoro, ove si afferma:
“La modernizzazione del mercato del lavoro italiano richiederà inoltre di intervenire per: [...]
– spostare verso i luoghi di lavoro il baricentro della contrattazione collettiva, favorendo il collegamento di una parte maggiore delle retribuzioni alla produttività o alla redditività delle aziende attraverso forme di defiscalizzazione, come avvenuto nell’accordo firmato dalle parti sociali nell’ottobre scorso”.
Questi due passi sono importanti perché hanno una valenza generale sia in termini di obiettivi che di strumenti. La produttività è necessaria per gli obiettivi di crescita e di recupero di competitività nei confronti di altri Paesi europei, ed è anche un obiettivo a cui le retribuzioni devono essere collegate nelle imprese private e nel settore pubblico in un quadro di decentramento della contrattazione salariale. La visione che emerge nell’Agenda Monti è secondo noi solo in parte condivisibile, per quello che si afferma e per ciò che non si afferma. Ci soffermiamo qui in modo sintetico su tre aspetti: il ruolo della contrattazione e che tipo; lo strumento della fiscalizzazione; la concezione di salario variabile (per chi fosse interessato alle argomentazioni, rimandiamo alla versione completa di questo lavoro, disponibile nel pdf qui sotto).
Due pilastri e un metodo
Premettiamo che il decentramento contrattuale non deve essere assolutamente demonizzato, tutt’altro. E’ sempre stato il livello negoziale nell’ambito del quale sono migliorate le condizioni di lavoro dei lavoratori ed anche le condizioni di produttività e competitività dell’impresa. Ciò è storicamente avvenuto in varie fasi dello sviluppo economico italiano ed ha trovato spesso un equilibrio con modalità centralizzate. (…) Ed anche quando gli obiettivi erano quelli macroeconomici, i due pilastri, decentramento e centralizzazione, sono stati utilizzati congiuntamente in modo complementare. (…) Anche oggi vi è un obiettivo macroeconomico da raggiungere, che è quello di riprendere un sentiero di crescita della produttività e di recupero di competitività dell’apparato industriale nazionale. Tale obiettivo non può che reggersi su due pilastri, il contratto nazionale e il contratto decentrato. E il metodo è quello della concertazione.
È significativo che ciò che viene dichiarato nell’Agenda sia il ruolo della contrattazione decentrata, sul salario, mentre la funzione della contrattazione nazionale sia intesa in modo implicito, non essendo neppure richiamata, come un livello di cui ridurre necessariamente la portata. Al contempo il metodo stesso della concertazione non è indicato come metodo di lavoro, essendo stato sostituito nella pratica del Governo Monti da quello della informazione e a volte della consultazione, come in effetti è avvenuto nel caso della riforma del sistema pensionistico ed in quella del mercato del lavoro, con esiti non particolarmente brillanti ricordiamo. (…).
Quindi l’obiettivo della crescita della produttività e del recupero della competitività delle imprese dovrebbe reggersi solo su un pilastro, quello della contrattazione decentrata, ed al contempo deve fare a meno del metodo della concertazione, sostituito da quello della informazione e parziale consultazione. Entrambi gli aspetti ci sembrano quelli che hanno caratterizzato la politica del Governo Monti sul tema del lavoro, ed in ciò vediamo una continuità piuttosto che una discontinuità con il Governo precedente. Non ci sembra un caso che sull’articolo 8 della legge 148 del 2011 (Governo Berlusconi), quello che prevede che i contratti aziendali o territoriali definiti di prossimità, possano derogare con efficacia erga omnes non solo da quanto previsto dai contratti nazionali, ma anche da disposizioni legislative, il Governo Monti non sia mai intervenuto per abrogarlo. (…).
Ci sembra più che lecito dubitare che il conseguimento di un obiettivo così importante per il sistema produttivo italiano possa essere perseguito affidandosi solo a un pilastro, quello della contrattazione decentrata sul salario, quando come è noto questo livello di contrattazione copre una quota piuttosto contenuta delle imprese. (…) In gran parte del tessuto produttivo, il pilastro su cui Monti fa affidamento non esiste. Qui allora dovrebbe operare il contratto nazionale di lavoro che non solo svolge una funzione di garanzia di minimi di trattamento economico e normativo prevedendo tutele e diritti, ma dovrebbe anche farsi carico di trovare strumenti adeguati per perseguire l’obiettivo di crescita della produttività e recupero della competitività. A questo livello, sarebbe più opportuno porsi un obiettivo condiviso di crescita di produttività, di settore, di comparto, di filiera e, fissato questo obiettivo programmato di produttività, utilizzare varie leve, fra cui le decisioni di innovazione organizzativa e tecnologica, gli investimenti in capitale fisico e capitale intangibile, le risorse pubbliche e private in R&S, e per l’innovazione di prodotto e di processo. E quindi collegare a questo obiettivo programmatico di crescita della produttività l’andamento delle retribuzioni, che svolgono così una duplice funzione, da un lato di tipo redistributivo che è essenziale per sostenere la crescita dei salari reali e quindi fonte principale della domanda interna di beni e servizi, dall’altro di stimolo e pressione per il cambiamento tecnologico ed organizzativo delle imprese, così come un grande economista italiano argomentava, Paolo Sylos Labini (1989), richiamando gli insegnamenti degli economisti classici, da Smith, passando per Ricardo, per giungere a Marx. In questo modo si possono recuperare i due pilastri, quello della contrattazione decentrata e della contrattazione centralizzata, naturalmente con un metodo, che non può che essere quello della concertazione e della condivisione di obiettivi concordati e di comportamenti conseguenti e tra loro coerenti.
La strada suggerita nell’Agenda Monti è invece differente e incompleta nel senso indicato sopra. Si propone un legame tra produttività e retribuzioni a livello decentrato che trova ispirazione in quell’Accordo sulla Produttività del Novembre 2012 che viene richiamato come linea guida. Già ci siamo occupati di quell’accordo, evidenziandone i limiti profondi (www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Produttivita-un-accordo-con-nulla-di-buono-15503). Qui intendiamo riprendere alcune delle nostre osservazioni per estenderle all’Agenda Monti. (…)
La defiscalizzazione aiuta la contrattazione decentrata oppure è cosmesi?
Lo strumento principe e unico nell’Agenda per favorire la contrattazione decentrata sul salario è quello della fiscalità, con le misure previste di decontribuzione e detassazione del salario flessibile. (…) Sappiamo che tale strumento non è nuovo, in Italia e neppure all’estero, nell’esperienza anglosassone e in quella francese ad esempio. Nel nostro paese risale al 1997. (…)
Ci dovremmo chiedere se tali interventi dal 1997 in poi hanno esteso la contrattazione decentrata e in particolare quella sul salario variabile. In secondo luogo se a fronte di un’eventuale negoziazione decentrata sul salario variabile si registra una effettiva variabilità del salario tale da innescare circoli virtuosi tra retribuzione e produttività, di cui poi discuteremo nel seguito.
Se consideriamo fonti sindacali, oppure fonti nazionali istituzionali, non sembra possibile riscontrare una maggiore diffusione della contrattazione decentrata, fatta eccezione per una prima fase successiva all’accordo del 1993. Anzi, lo spazio della contrattazione decentrata sembra essersi ridotto, ed essa ha anche cambiato natura, concentrandosi spesso su istituti di tipo difensivo volti alla tutela del posto di lavoro, a retribuzioni minime in situazioni di crisi aziendale, o alla gestione della mobilità esterna all’impresa.
Inoltre, meccanismi di defiscalizzazione possono indurre comportamenti collusivi tra le parti, ed accrescere la probabilità di tali comportamenti se già presenti. Percentuali significative di contratti cosiddetti “cosmetici”, ovvero contratti che formalmente introducono la flessibilità salariale ma che nella sostanza prevedono che tale flessibilità non sussista in quanto i premi salariali sono pressoché garantiti dal meccanismi adottato, sono risapute nell’esperienza italiana, e tale modalità non è certo scomparsa in presenza di vantaggi fiscali distribuiti senza controllo alcuno. L’introduzione del vantaggio fiscale mai è stata accompagnata da una attività di verifica e di controllo di quanto variabile sia effettivamente il salario che gode di tale vantaggio. (…) Dalle verifiche per via diretta alle raccolte che - in modo non sistematico – fanne le organizzazioni sindacali o datoriali, emerge una diffusione significativa di contratti cosmetici nell’ordine del 10%-20% ed anche maggiore a seconda delle aree geografiche indagate, dei settori produttivi coinvolti, delle dimensioni d’impresa, del tasso di sindacalizzazione di settore e/o d’impresa. Percentuali di questo tipo risultano confermate anche dalle indagini di Banca d’Italia e Istat che hanno individuato una diffusione significativa di premi salariali distribuiti in cifra fissa. Inoltre, nei casi di premi effettivamente variabili, le quote del salario di produttività non superano quasi mai il 10% della retribuzione totale e spesso si aggirano attorno al 5%, una soglia piuttosto contenuta, che non raggiunge il valore di una mensilità, e quasi sempre non ha effetti sul salario differito, quindi non è computata per il trattamento di fine rapporto e neppure per la previdenza obbligatoria, cioè a fini pensionistici. (…).
Per ovviare a questi possibili effetti collaterali della fiscalizzazione l’Agenda Monti non prevede alcunché, ovvero nessun percorso di monitoraggio è contemplato, anche se il problema è ben presente nella letteratura economica e nell’esperienza sindacale. (…) In Italia si intende introdurre comunque in modo diffuso tale pratica senza modalità di monitoraggio, affidando ad essa un obiettivo superiore, ovvero la diffusione della contrattazione decentrata e mediante questa del salario variabile nelle imprese. Il recente accordo di rinnovo del contratto per il settore metalmeccanico, firmato il 5 dicembre 2012, sembra prevedere tale opzione, spostando parte della retribuzione negoziata al livello nazionale sul livello decentrato per trarre vantaggio della minore fiscalità, ed al contempo garantendo gli aumenti retributivi concordati. Come abbiamo osservato (www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Metalmeccanici-un-contratto-sbagliato-15854), questa è la dimostrazione che o si intende (a) realizzare una serie di contratti aziendali cosmetici, oppure si intende (b) modificare la composizione del salario, diminuendone la quota certa a favore di quella incerta, depotenziando grandemente il contratto nazionale con il quale non si garantisce neppure più in questo caso la salvaguardia del potere d’acquisto. Siccome non crediamo che l’obiettivo della Agenda Monti sia il primo, non rimane che ritenere che sia il secondo.
Produttività/redditività o partecipazione?
È certo notevole e da rimarcare che nell’Agenda Monti la retribuzione flessibile sia associata unicamente al legame con la ”produttività o redditività”. (…) Tuttavia così non è nell’Accordo sulla produttività (…) Rispetto a quel testo si opera una revisione al ribasso della portata dell’istituto, laddove si dichiarava “Per favorire questo processo è necessario, altresì, incrementare e rendere strutturali, certe e facilmente accessibili tutte le misure fiscali e contributive volte ad incentivare la contrattazione di secondo livello che collega parte della retribuzione al raggiungimento di obiettivi di produttività, di qualità, di redditività, di efficacia, di innovazione, di valorizzazione del lavoro, di efficienza organizzativa e altri elementi rilevanti ai fini del miglioramento della competitività del settore produttivo” (Accordo sulla Produttività, 2012, p.4, corsivo nostro).
Così nel testo dell’Agenda Monti, il salario variabile perde quella valenza più ampia che riconduce gli auspicati guadagni di produttività anche a fattori di qualità della produzione e del prodotto ed alla organizzazione e valorizzazione del lavoro, restringendo il campo a mera efficienza del fattore lavoro o alla profittabilità dell’impresa, facendo emergere una concezione aziendalistica davvero arcaica anche rispetto alla letteratura economica business oriented. Non è affatto un caso che mai nell’Agenda il termine “partecipazione” o il più debole “coinvolgimento” siano declinati assieme a quello del salario variabile, come se i due concetti fossero tra loro incompatibili. (…) Più probabilmente, il termine partecipazione o quello molto più debole di coinvolgimento mal si coniuga con la concezione sottintesa d’impresa, e rischia di andare in conflitto con quello della democrazia industriale che i termini partecipazione/coinvolgimento potrebbero richiamare.
Cosi non era per gli estensori del Protocollo del 23 luglio 1993, il famoso accordo che sanciva il doppio livello di contrattazione, quello nazionale e quello decentrato, e prevedeva, tra l’altro, che le “erogazioni del livello di contrattazione aziendale sono strettamente correlate ai risultati conseguiti nella realizzazione di programmi concordati tra le parti, aventi come obiettivo incrementi di produttività, di qualità ed altri elementi di competitività di cui le imprese dispongano, compresi i margini di produttività, che potrà essere impegnata per accordo tra le parti, eccedente quella eventualmente già utilizzata per riconoscere gli aumenti retributivi a livello di Ccnl, nonché ai risultati legati all’andamento economico dell’impresa” (Protocollo 23 luglio 1993, sezione 2, comma 3, corsivo nostro). Si noti come il testo afferma non tanto che le retribuzioni siano collegate agli incrementi di produttività, ecc., ma quanto che queste siano strettamente correlate ai risultati raggiunti con la realizzazione di programmi concordati tra le parti, che hanno questi come obiettivi gli incrementi di produttività, ecc. L’enfasi è posta sul raggiungimento di programmi peraltro concordati tra le parti, e non su meri indicatori di produttività o redditività aziendali, questi ultimi neppure esplicitamente richiamati nel testo che fa riferimento generale all’andamento economico dell’impresa. (…)
Qui ci interessa un richiamo a ciò che un padre della Repubblica Italiana scriveva nel 1949 in relazione alla partecipazione agli utili. Non si tratta di Alcide De Gasperi, così spesso citato da Monti, quanto di Luigi Einaudi, nelle sue Lezioni di politica sociale del 1949. In quest’opera, Einaudi ragionava sulla forma della partecipazione dei lavoratori agli utili dell’impresa e dalle sue argomentazioni possono essere tratte i seguenti cinque principi cardine. (si rinvia al testo completo per le argomentazioni di Einaudi). (…)
1) che la parte variabile della erogazione al lavoratore sia una aggiunta al salario normale da questo percepito, e non sostitutiva di una quota di questo, ovvero non si deve trasformare una quota certa del salario in una quota incerta;
2) che la partecipazione sia agli utili e non alle perdite dell’impresa, che invece rimangono parte del rischio imprenditoriale, per cui la concezione di suddivisione del rischio non è appropriata e non deve applicarsi alla relazione retribuzione variabile e risultati;
3) che la variabilità della quota aggiuntiva deve collegarsi alla organizzazione e struttura dell’impresa, ed in particolare alla loro partecipazione alla organizzazione del lavoro, e non a fattori di rischio imprenditoriale e di mercato che possono risultare anche aleatori;
4) che la partecipazione implica necessariamente che i lavoratori abbiamo voice nelle scelte dell’impresa sui fattori organizzativi che li coinvolgono e che hanno effetti sulla retribuzione variabile, sotto forma di modalità non solo informative, ma anche consultive e negoziali con la direzione dell’impresa;
5) che tutto ciò avvenga in virtù della pre-esistenza di una relazione fiduciaria tra le parti, piuttosto che essere questo lo strumento per costruire tale relazione fiduciaria.
Crediamo che a tali principi cardine possa essere ricondotto quanto previsto dal Protocollo del 1993, mentre è ben più difficile riscontare analoga coerenza nell’Accordo sulla Produttività del novembre 2012 e nell’Agenda Monti del dicembre 2012; entrambi contrastano con tutti e cinque i principi cardine precedenti.
La concezione del legame tra retribuzione e risultati (produttività e/o redditività) che caratterizza sia l’Accordo che l’Agenda implica infatti quanto segue: a) che una quota del salario da certa divenga incerta e transiti dal contratto nazionale di lavoro a quello aziendale/territoriale (contravvenendo al primo principio); b) che il lavoratore suddivida il rischio d’impresa con il datore di lavoro ancorando la sua retribuzione variabile ad eventuali indicatori di redditività aziendale, che possono essere per loro natura influenzati dal mercato e quindi anche aleatori (contravvenendo al secondo e terzo principio); c) che non si prevedano forme per dare sostanza alla partecipazione dei lavoratori alla definizione della organizzazione del lavoro e dell’impresa a cui deve essere collegata la quota aggiuntiva e variabile del salario (contravvenendo al terzo principio); d) che nulla si dica circa le modalità di partecipazione/coinvolgimento dei lavoratori sulle scelte organizzative che li coinvolgono, ed inoltre non si affronti la questione dei diritti di rappresentanza dei soggetti che negoziano accordi di secondo livello, indipendentemente che li sottoscrivano o meno (contravvenendo al quarto principio); e) che tutto ciò si realizzi in un clima che non è certo caratterizzato da relazioni fiduciarie tra le parti, come è attestato anche, ma non solo, da fenomeni quali l’esclusione dal tavolo delle trattative sino ai ricorsi che con crescente frequenza si hanno di fronte ai giudici del lavoro (contravvenendo al quinto principio).
Un’ultima riflessione la dedichiamo alla previsione di efficacia del legame tra retribuzione e risultati aziendali nell’innescare una crescita della produttività, per la quale rimandiamo il lettore interessato al testo pdf completo. (…)
Conclusioni
In conclusione, ciò che emerge dalla Agenda Monti è una concezione di salario flessibile legato alle performance delle imprese estremamente tradizionale, che fonda la sua efficacia su meccanismi di incentivazione dello sforzo lavorativo senza fare i conti con concezioni di impresa più moderne centrate sul modello delle competenze, oppure su meccanismi di suddivisione del rischio senza introdurre alcuna forma di partecipazione nei processi decisionali. Essa appare anche più riduttiva rispetto a quanto declinato nell’Accordo sulla Produttività, che certo non brilla per innovatività, tutt’altro. Questa concezione evidenzia come il fine ultimo della retribuzione flessibile sia la riduzione del costo del lavoro e per questa via la diminuzione del costo del lavoro per unità di prodotto, senza innescare alcun meccanismo virtuoso sul denominatore della frazione, ovvero la produttività. E per fare ciò ci si affida unicamente a misure di defiscalizzazione del salario variabile per i dipendenti. Le esperienze passate, in Italia ed all’estero, mostrano che lo strumento rischia di essere particolarmente inefficace, ed al contempo costoso: può avere un qualche effetto significativo sulla diffusione dei premi variabili, ma contribuisce soprattutto alla diffusione di premi cosmetici negoziati, in assenza di un rigoroso monitoraggio.
Lo strumento delle retribuzioni variabili nell’ambito della contrattazione decentrata potrebbe sortire effetti efficaci sulla dinamica della produttività. A tal fine occorre anzitutto che esso venga portato fuori dal campo delle ideologie e dei luoghi comuni che lo presentano come la panacea al problema del declino, e che venga introdotto come premio di partecipazione con quelle caratteristiche distintive che le riflessioni scientifiche e le evidenze empiriche, da Einaudi in poi, hanno da tempo prescritto. Solo in tale ambito il salario variabile potrà contribuire – come uno ma non certo l’unico degli strumenti – a fermare il declino dell’apparato produttivo italiano, innescando un circolo virtuoso tra produttività e salario reale che si basi sia sulla crescita della produttività che sulla distribuzione dei risultati a coloro che vi concorrono.
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