Vladimiro Giacché
I presupposti economici dell’attacco alla CostituzioneRelazione per il Convegno dell’Associazione Marx XXI “Neoliberismo, crisi e attacco alla Costituzione” (Roma, 12 giugno 2010)
1. Cominciamo dalla fine
Cominciamo dalla fine: cioè dalla proposta di Tremonti di stravolgere l’art. 41 della Costituzione per favorire la libertà d’impresa e d’intrapresa.
Vale la pena di farlo non soltanto per restare legati all’attualità.
Ma perché gli slogan con cui questo attacco è stato condotto ci dicono molto.
L’opposizione è, da un lato, tra:
- libertà (d’impresa)E, dall’altro:
- semplificazione
- mercato.
- regolamentazione
- procedure (“burocrazia”)
- presenza dello Stato / di un soggetto pubblico.
Vale la pena di notare che iin quest’ultimo attacco alla Costituzione troviamo i motivi di fondo di tutti gli attacchi alla Costituzione di questi anni, nonché ai presidi legali a difesa degli interessi dei lavoratori.
- Libertà contro regolamentazione: le polemiche contro i “lacci e lacciuoli” di Guido Carli
- Semplificazione contro la pesantezza di procedure “burocratiche”: non è questa la parola d’ordine di tutte le (contro)riforme elettorali, che hanno fatto del nostro sistema elettorale e parlamentare un sistema che è ormai da tempo a- o meglio anti-Costituzionale?
Dal proporzionale puro sino al porcellum passando per le varie leggi maggioritarie, ma anche i regolamenti parlamentari antiostruzionismo e l’abuso della decretazione d’urgenza (che come ha detto Agamben ha reso da tempo la nostra una “Repubblica… non più parlamentare, ma governamentale”: Stato di eccezione, p. 28), sino all’attuale sua generalizzazione di fatto.
Tutto questo è stato fatto in nome della semplificazione, della rapidità decisionale e dell’efficienza.
- E infine mercato contro Stato: non è questo il sigillo che reca l’introduzione del concetto di sussidiarietà nel nostro ordinamento e più in generale l’idea che il pubblico debba essere residuale (quindi fine dell’economia mista ecc)?
(Se poi allarghiamo lo sguardo ad altri Paesi europei, troviamo in fondo cose non tanto diverse da queste. Il concetto aziendale di governance impresta la sua logica apparentemente efficientistica e realmente autoritaria all’ambito politico un po’ ovunque, e non da oggi. Ma restiamo in Italia.)
Tutto questo va avanti (ossia il nostro Paese va indietro) da almeno 30 anni.
Da quegli anni Ottanta che si aprono idealmente
-con la sconfitta operaia alla Fiat (1980),
-con la scoperta della loggia P2 (1981)
-e, non molto più tardi (1983), con la prima commissione bicamerale per riformare la Costituzione.
Nello stesso 1980 Reagan viene eletto presidente degli Stati Uniti e ha inizio il trionfo ideologico del liberismo, ma anche quel brave new world della finanza e del credito che in poco meno di 30 anni porterà il valore degli asset finanziari mondiali, da un valore pressoché pari al valore del pil mondiale, a qualcosa come il 360% di quella cifra.
La conclusione convulsiva di questa fase la stiamo vivendo dal 2007 ad oggi.
La traiettoria da osservare dovrebbe essere almeno questa.
2. Vent’anni di pensiero unico – e di declino economico
In questa sede però mi limiterò a ripercorrere gli aspetti di fondo degli ultimi 20 anni.
Sono gli anni in cui il pensiero unico trionfa infine anche nel nostro Paese.
E sono anche gli anni in cui, pur tra alti e bassi, tra scivoloni e riprese di breve durata, lla crisi dell’economia italiana si approfondisce e si cronicizza.
Sino a diventare tendenza: ossia declino.
Dal punto di vista economico, le grandi linee di tendenza sono queste:
1) privatizzazioni e fine dell’economia mista (il grosso negli anni Novanta); si tratta di un importante cambiamento alla costituzione materiale del nostro Paese, pur senza cambiare la Costituzione (nel caso specifico l’art. 43).
2) fine della grande industria in Italia, facilitata dalle privatizzazioni, vera e propria scialuppa del Titanic per capitalisti industriali in crisi di profittabilità;
3) il nanismo industriale italiano cresce: le piccole imprese, magnificate a destra e sinistra (distretti ecc.), non solo resistono, ma crescono di numero e di importanza relativa; è una tendenza che si afferma dal 1971 in poi;
4) moltiplicazione dei rapporti di impiego, ma un’unica tendenza: precarizzazione;
5) di fatto le condizioni della competitività delle imprese italiane si riducono da tre a due: con la metà degli anni Novanta vengono meno le svalutazioni competitive, e il peso si distribuisce tutto su evasione fiscale e basso costo del lavoro;
6) gigantesco spostamento di reddito dai salari ai profitti (senza che però questi ultimi spicchino il volo durevolmente); decisivi per la perdita di potere d’acquisto dei salari e delle pensioni sino ad oggi sono gli accordi del luglio 1992 e poi 1993 sulla scala mobile;
7) l’evasione fiscale cresce e raggiunge la cifra di 247 miliardi di euro (120 di minori imposte riscosse rispetto al dovuto: dati Istat);
8) cresce la rendita finanziaria e fondiaria/immobiliare;
9) la crescita diventa sempre più anemica, la produttività del lavoro ristagna, e lo stesso vale per la domanda interna; la situazione è di fatto di crisi – strisciante o conclamata - per tutto il decennio trascorso (un vero decennio perduto per l’economia italiana).
10) in questo modo è sempre più a rischio anche la tradizionale collocazione dell’Italia nella divisione internazionale del lavoro: rapporto di subfornitura (rispetto alla Germania) e crescita trainata dal commercio estero.
Sintesi:
La sintesi migliore l’ha offerta Mario Deaglio in un suo articolo dello scorso anno: “sono circa 15 anni che l’Italia si limita a galleggiare e viene lasciata indietro dagli altri paesi avanzati”.[1]
Qualche parola di spiegazione, anche a chiarimento dei punti elencati sopra:
Quest’ultimo dato, che del resto era già stato reso pubblico dal governatore della Banca d’Italia nella sua relazione annuale, offre la chiave migliore per intendere la drammaticità e peculiarità della crisi italiana.
Quindici anni: non è una cifra casuale.
A metà degli anni Novanta, infatti, finiscono le svalutazioni competitive, una delle fondamentali leve della competitività delle imprese italiane sui mercati esteri. La penultima svalutazione della lira (del 30%) è del 1992, l’ultima (del 10%) è del 1995. Poi comincia la marcia di avvicinamento all’euro.
Dal 1999 le svalutazioni sono rese impossibili dalla nascita dell’euro (i rapporti di cambio irrevocabili tra le diverse valute nazionali e l’euro entrarono in vigore il 1° gennaio 1999, anche se sono dal 2002 l’euro le sostituì come moneta fisica). E dal 1999 al 2009 il divario di reddito medio tra l’Italia e gli altri paesi della zona euro triplica: era pari a 1.300 dollari pro capite nel 1999, sarà pari a 3.500 dollari a fine 2009.[2]
E questo, si noti bene, nonostante che tutti, ma proprio tutti, i dettami del pensiero unico neoliberista siano stati seguiti con diligenza da scolaretti modello: privatizzazioni, moderazione salariale, flessibilità (cioè precarizzazione) dei rapporti di lavoro, smantellamento del sistema pensionistico pubblico.
Ma torniamo ai “meravigliosi anni Novanta”: venuta meno la leva competitiva rappresentata dalle svalutazioni periodiche della lira, il padronato spinge l’acceleratore sugli altri due pedali tradizionalmente adoperati: il basso costo del lavoro e l’evasione fiscale.
Solo così si possono spiegare i dati apparentemente contradditori esibiti dall’economia italiana in questo periodo.
Da un lato la produttività del lavoro ha un andamento pessimo (scende all’1,7% negli anni 1992-2000, ed è addirittura nulla dal 2000 al 2008), e il prodotto interno lordo ristagna: negli anni 1999-2009 la crescita complessiva è stata appena del 5,5%, mentre i paesi dell’area dell’euro crescevano in media del 13,5%.
Dall’altro, i profitti non solo tengono, ma crescono: dopo il 1993 sono aumentati per tutti gli anni Novanta, sia in percentuale del pil che come quota sul valore aggiunto, e lo stesso è avvenuto anche nei primi anni 2000.
Come è possibile? In un solo modo: attraverso un gigantesco trasferimento di ricchezza a danno dei salari. E infatti negli ultimi venti anni in Italia il valore degli stipendi rispetto al prodotto interno lordo è crollato del 13% (contro un calo dell’8% nei 19 paesi più avanzati). Oggi le buste paga italiane sono scivolate al 23° posto (su 30) nella classifica dei paesi più industrializzati aderenti all’OCSE, e risultano inferiori del 32% rispetto alla media dell’Europa a quindici. Si può ancora citare un dato riportato in una ricerca della Banca dei Regolamenti Internazionali del 2007: dal 1983 al 2005 i lavoratori hanno perso 8 punti percentuali di reddito, andati in maggiori profitti (che infatti sono saliti nel periodo dal 23% al 31% del totale).[3]
A questo va poi aggiunta un’evasione fiscale da guinness dei primati.
Questo è vero in particolare per la miriade di piccole imprese che caratterizzano il panorama industriale italiano. Sono imprese che da decenni ricevono oscuri nomignoli vezzeggiativi (il più noto è quello di “distretti industriali”, assolutamente privo di ogni valore scientifico) e vengono vantate e portate ad esempio nel mondo dai governanti di turno. Addirittura, sino a qualche anno fa, è impazzata la retorica del “piccolo è bello”, che presupponeva che in Italia – e solo in Italia – le economie di scala non rappresentassero un vantaggio competitivo. E in effetti la tendenza ad una dimensione di impresa media sempre maggiore, evidente tra il 1951 e il 1971, con gli anni Settanta si inverte, innescando una tendenza che perdura a tutt’oggi.
Le piccole e medie imprese non sono soltanto piccole: sono sempre più piccole. Se ai censimenti del 1981 e 1991 la dimensione media in termini di addetti delle aziende italiane risultava pari a 4,5, essa nel 2001 è scesa a 3,9 e rimasta stabile nel 2007:4,0.
La media Ue a 15 è 6,4. Singoli Paesi: Spagna: 5,3; Francia: 5,8; Regno Unito: 11,1; Germania: 13,3.
Il 95 per cento delle aziende italiane oggi ha meno di 10 dipendenti; anche nell’industria la dimensione media è appena di 6,5 addetti.[4]
Per dirla con Mario Sarcinelli, “la piccola dimensione si è accentuata nella struttura industriale italiana negli anni 90. Tra il ’96 e il ’99 il peso della classe d’imprese composta da 1-2 addetti è aumentato; quella con 100 dipendenti e oltre rappresentava meno di un quarto dell’occupazione nelle industrie e nei servizi”.[5] Lo stesso può dirsi per il primo decennio del XXI secolo.
Volendo esprimere tutto questo in termini paradossali, si potrebbe dire che il nanismo industriale italiano cresce.
Come mai? Perché in Italia il consolidamento industriale capitalisticamente necessario viene evitato grazie al “keynesismo delinquenziale” (Marcello De Cecco), consistente in quel peculiare abbattimento dei costi di produzione rappresentato dall’evasione fiscale e contributiva. Di fatto, imprese che sarebbero fuori mercato se pagassero le tasse dovute, si autoriducono questo fattore di costo e riescono a tirare a campare. In parallelo, i profitti dell’impresa, quando ci sono, sono dirottati sul patrimonio personale e familiare dell’imprenditore.
Tutto questo ha concorso a far scivolare il nostro sistema economico verso una frontiera competitiva arretrata, imperniata sulla competizione di prezzo, anziché sulla qualità e sul contenuto tecnologico dei prodotti.
In altri termini si è affermato un modello di competitività miserabile, caratterizzato da bassissimi investimenti in innovazione tecnologica (in particolare di processo).
E questo, ancora una volta, vale non soltanto per le piccole e piccolissime imprese. Basti pensare che gli investimenti delle grandi imprese in immobili tra il 2000 e il marzo 2009 sono aumentati del 104,1%, mentre quelli in macchinari nello stesso periodo sono cresciuti soltanto del 13,4%: e sono quindi risultati, se commisurati all’inflazione del periodo (+21,5%), addirittura negativi. [6]
È il regno del plusvalore assoluto, non più del plusvalore relativo. Un’assurdità per un paese industrialmente avanzato. Anche la crescita dell’occupazione nei primi anni del nuovo secolo porta impresso questo sigillo: è cattiva occupazione, sottopagata e precaria.
- All’interno di questo contesto, si ha una complessiva disarticolazione e riarticolazione della classe lavoratrice:
- frammentazione (diritti diversi a parità di mansione)
- creazione di pseudogerarchie interne
- supersfruttamento degli “ultimi” di cui beneficiano anche porzioni della classe lavoratrice (Rosarno docet)
- trionfo della mediazione e creazione di forme fenomeniche illusorie, per cui
* il lavoro salariato si presenta come lavoro autonomo (le partite iva)* la controparte datoriale è mistificata (lavoro interinale)
Questo ci ha posto in concorrenza con i paesi emergenti e di nuova industrializzazione: una battaglia persa in partenza. È qui che va ricercata la radice della stagnazione economica del nostro paese e dell’autentica batosta economica che si è profilata nei primi anni del nuovo secolo, quando la riduzione dei dazi all’importazione di molti prodotti (c.d. accordo multifibre) ha messo fuori mercato numerose nostre produzioni.
È su questo spiazzamento competitivo già in atto da tempo che la crisi mondiale iniziata nel 2007 si è innestata, infierendo ulteriormente. E determinando un drammatico salto di qualità.
3. Dopo il 2007: la Crisi
Continuità con la stagnazione degli anni precedenti:
tant’è che l’Italia va in recessione prima degli altri Paesi, già nel 2008.
Ma anche rottura, come dimostrano i dati relativi al 2009, che segnalano una situazione a dir poco drammatica (la fonte è la Relazione del governatore della Banca d’Italia relativa al 2009):
- 1) Pil: -5%
- 2) Attività industriale: -20% rispetto alla primavera del 2008
- 3) Reddito pro capite tornato ai livelli di metà anni Novanta
- 4) Consumi tornati al 1999
- 5) Produz industriale tornata ai livelli del 1986
- 6) Acquisti di beni durevoli: -10% in due anni
- 7) Acquisti di beni non durevoli, e in particolare alimentari e bevande: - 6,4% nel triennio; questa tendenza negativa riguardo a beni non durevoli non ha precedenti nelle serie storiche della contabilità nazionale (iniziate nel 1970)
- 8) Investimenti fissi lordi nel 2009: -12,9%; anche questo calo è senza precedenti;
- 9) Calo dell’accumulazione (=inv fissi netti, ossia sottraendo agli inv fissi lordi il deprezzamento dello stock di capitale): -58% nel 2009 (-19,8% nel 2008).
- 10) Esportazioni di beni e servizi: -19,1% (soli beni: -20,4%).
- 11) Importazioni di beni e servizi: -14,5% (soli beni: -15,5%)
- 12) Numero di ore lavorate: il calo maggiore dal 1980 (ma meno intenso del livello dell’attività, quindi con ulteriore caduta della produttività del lavoro, ora al di sotto del livello del 2000)
- 13) Al netto dei lavoratori in CIG, l’occupazione operaia è diminuita del 15%.
- 14) A questo va aggiunto il calo dei lavoratori “autonomi” ma che svolgono di fatto lavoro subordinato: -30% rispetto al 2007.
- 15) Il lavoro inutilizzato (disoccupati che cercano lavoro+scoraggiati+CIG) è al 16,5%. Si tratta di un valore superiore del 50% a quello di D, F, UK, Usa.
- 16) Valore aggiunto del settore manifatturiero: -15,8% nel 2009.
4. E ora? Il buio oltre la crisi
Quando sentiamo parlare di ripresa, è sempre bene tenere a mente che si tratterà (si tratterebbe) di ripresa rispetto a questi dati.
Ma soprattutto bisogna intendere che la crisi segnala un punto di rottura irreversibile: è un modello economico che è fallito.
Il “capitalismo dei piccoli”, semplicemente, non esiste più.
Interi distretti smobilitano.
Migliaia di piccole imprese chiudono.
Si affermano processi di concentrazione (probabilmente tardivi e insufficienti).
È – o dovrebbe essere – evidente che è impossibile continuare così: pena un impoverimento inaccettabile delle c.d. “classi medie”, e un disastro competitivo.
Ma proprio questo è il tentativo.
È il tentativo di appropriarsi di una fetta sempre più grande di una torta che si va restringendo.
Per raggiungerlo bisogna
- rafforzare la presa sull’informazione (la crisi che non c’è, che è meno grave che negli altri Paesi)
- far pendere la bilancia tra i poteri in direzione dell’esecutivo (“governare così è un inferno”: Berlusconi), e questo sia rispetto al potere legislativo (che di fatto da tempo non è più tale) che rispetto al potere giudiziario
- distruggere i diritti sindacali e più in generale colpire le garanzie democratiche (dall’introduzione della contrattazione di secondo livello alla limitazione del diritto di sciopero)
- attuare una violenta deregulation
- disgregare lo Stato unitario (federalismo)
Su tutti questi terreni le garanzie previste dalla Costituzione rappresentano un ostacolo formidabile e quindi vanno eliminate.
Sono un ostacolo
- tanto da un punto di vista di garanzie invocabili, di diritti esigibili
- quanto (anche solo) da un punto di vista culturale: perché ci parlano di scenario enormemente diversi da quello, ormai deprimente, del pensiero unico neoliberista.
Per questo motivo negli ultimi anni (e ancora di più nei prossimi) il disastro economico è andato (e andrà) in parallelo con un attacco alla Costituzione su vari fronti, con particolare riguardo alla rappresentanza e ai diritti sociali (con un vero e proprio rovesciamento del concetto di democrazia progressiva che innerva la Costituzione).
A questo riguardo il punto di approdo ormai ben visibile non è più neppure quello di un regime oligarchico e censitario (questo stadio è stato già raggiunto da tempo), ma quello di un regime sempre più chiaramente bonapartista: bonapartismo mediatico, ma anche direttamente e chiaramente repressivo.
La risposta alla crisi da parte della classe dominante è in effetti:
1) “Come prima, più di prima”:
1. sul piano Costituzionale (la modifica dell’art.41 e seguenti annunciata da Tremonti è solo un tassello);
2. su quello del welfare: la distruzione di quello che ne resta.
(si può eccepire che si tratta di una tendenza a livello europeo:
ed è vero, anche perché la concorrenza tra aree valutarie euro/dollaro si è giocata sulla progressiva eliminazione dei margini ancora utilizzabili - il welfare, appunto - per vincere la competizione globale con gli Usa, che questi margini non li ha da tempo. Ma a ben vedere è proprio la generalizzazione di misure del genere che le rende così pericolose, soprattutto in un momento di domanda estremamente debole su scala europea: la verità è che oggi si possono aprire deflattivi da Anni Trenta.)[7]
2) Di fatto, si perpetuano i meccanismi regressivi che stanno disgregando il nostro Paese, facendolo scivolare verso caratteristiche da economia emergente (con la differenza che lì le differenze sociali stanno diminuendo, mentre da noi aumentano)
Battere tutto questo è necessario da più punti di vista:
ci sono tre cose da fare, tra loro strettamente legate:
- 1) Resistere
- 2) Respingere l’attacco al welfare oggi in corso
- 3) Rilanciare il ruolo dello Stato nell’economia:
1. In termini di redistribuzione del reddito:
A questo riguardo è cruciale il tema della fiscalità. Nella sua concreta configurazione attuale in Italia il fisco è un vero Robin Hood alla rovescia. Non è difficile capirlo, né impostare una grande battaglia su questi temi: una battaglia di equità e di legalità al tempo stesso. Qui gli obiettivi devono essere essenzialmente tre:
i. Lotta contro l’evasione
ii. Riequilibrio delle aliquote (anche utilizzando quanto recuperato dal contrasto all’evasione per potenziare i servizi sociali e diminuire le aliquote su salari e pensioni più bassi)
iii. Progressività delle imposte (in attuazione del dettato costituzionale: si veda l’articolo 53, da sempre disatteso nei fatti).
1. Razionalizzando le prestazioni del welfare.
Cominciando con l’addebitarle a tutti i contribuenti e non soltanto ai lavoratori dipendenti:
ad esempio attuando la separazione tra assistenza e previdenza (in modo che le pensioni del primo tipo, che sono interventi assistenziali, siano a carico della fiscalità generale e non soltanto dell’INPS e quindi non siano pagate con le trattenute operate per le pensioni sulle buste paga dei lavoratori).
1. In termini di intervento economico diretto.
Occorre tornare ad assegnare allo Stato:
i. Non soltanto l’effettuazione di grandi investimenti infrastrutturali,
ii. ma anche una più complessiva funzione di regolazione dell’economia, in direzione di una pianificazione dello sviluppo economico.
Ovviamente, questo significherebbe tornare nei fatti a quel concetto di democrazia progressiva che rappresenta il più innovativo portato della nostra Costituzione. E il cui abbandono in questi ultimi decenni, oltre a peggiorare le condizioni di vita dei lavoratori, ha concorso in misura non trascurabile al più generale declino dell’economia italiana e alla regressione della vita democratica del Paese.
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