di Riccardo Achilli - sinistrainrete -
Da quando la signora Lagarde si è installata alla guida del FMI, numerosi osservatori, ovviamente di parte o superficiali, hanno sottolineato un presunto cambio di passo e di filosofia del FMI, un allontanamento dal cinismo neomonetarista ed iperliberista che da sempre caratterizza l'impostazione, più ideologica che tecnico/professionale, dell'Istituto, e che si trova scolpita nei punti del Washington Consensus, che puntualmente si traducono in “programmi” di austerità finanziaria e riforme strutturali sui mercati monetario e del lavoro e nei sistemi di welfare pubblico suggeriti ai Paesi iper-indebitati, e quindi in terribili recessioni economiche, spaventose e rapide fasi di impoverimento degli strati popolari, aumento delle diseguaglianze distributive, ulteriore avvitamento dei problemi di finanza pubblica.Certo su una revisione dell'ortodossia del FMI hanno influito le pesanti critiche provenute anche da economisti borghesi come Joseph Stiglitz, che sulla critica alle ricette del FMI ci ha costruito un best seller: La Globalizzazione E I Suoi Oppositori (edito da Einaudi in italia), in cui analizza gli errori delle istituzioni economiche internazionali – e in particolare del Fondo Monetario Internazionale – nella gestione delle crisi finanziarie che si sono susseguite negli anni novanta, dalla Russia ai paesi del sud est asiatico all'Argentina. Stiglitz illustra come la risposta del FMI a queste situazioni di crisi sia stata sempre la stessa, basandosi sulla riduzione delle spese dello Stato, una politica monetaria deflazionista e l'apertura dei mercati locali agli investimenti esteri. Tali scelte politiche standardizzate venivano di fatto imposte ai paesi in crisi ma non rispondevano alle esigenze delle singole economie, e si rivelavano inefficaci o addirittura di ostacolo per il superamento delle crisi.
Così come sull'ortodossia del FMI pesa come un macigno il fallimento del programma di rientro dal debito dei Paesi PIIGS della Ue: la Grecia, la prima vittima sacrificale di un programma di austerità e di riforme liberiste imposto anche dal FMI, passa da un rapporto debito/PIL del 153% nel 2010 al 181,3% nel 2012, con la proiezione di un aumento fino al 199,9% nel 2014, e non si sa quando potrà tornare a rifinanziarsi sui mercati, trasformandosi in un paziente perenne per la Ue, attaccato a tempo indefinito al tubo degli aiuti erogati dall'ESM1. Aiuti, peraltro, che si trasformano, per i Paesi che contribuiscono a finanziare questo meccanismo, in ulteriore debito pubblico, generando un contagio finanziario complessivo. E nel frattempo il fallimento greco ha già imposto perdite al sistema finanziario globale, con un haircut nel 2011 pari al 50% del valore nominale dei bond greci a carico delle banche creditrici ed un riacquisto, a fine 2012, di parte del debito nazionale a prezzi inferiori a quelli di mercato, che di fatto è un ulteriore haircut (poiché i creditori hanno visto riconosciuto un prezzo di riacquisto pari al 32-40% del valore nominale dei titoli) per un valore di circa 15 miliardi con riguardo alle banche creditrici estere. E con la Merkel che già annuncia un nuovo haircut per il 2014, cui dovrebbero partecipare anche i governi creditori della Grecia.
Questo fallimento nel tentativo di raddrizzare le finanze pubbliche greche con rimedi neoliberisti che ovviamente fanno pagare il conto solo ai più poveri, ai più fragili, a chi dipende in misura più alta dai trasferimenti pubblici, ha comportato conseguenze sociali da Apocalisse, che a mio avviso non si sarebbero verificate, in una simile dimensione, nemmeno se la Grecia fossa stata colpita da un Tsunami analogo a quello che colpì l'Asia nel 2004:
- la percentuale di popolazione a rischio di povertà passa dal 19,7% del 2009 al 21,4% nel 2011,
- il tasso di grave deprivazione materiale, che misura la quota di popolazione più disperata, balza dall'11% al 15,2% sul medesimo periodo,
- i disoccupati passano da 593.100 a giugno 2010 a 1.228.300 a settembre 2012,
- la struttura sociale greca si sudamericanizza, con la popolazione appartenente al quintile più povero della distribuzione del reddito che assorbe il 6,7% del reddito nazionale equivalente nel 2011, in diminuzione dal 7% del 2009, mentre il quinto più ricco della popolazione non è stato toccato affatto dalla crisi, e continua ad assorbire il 40,4% del reddito nazionale equivalente.
La tendenza a rilasciare dichiarazioni mielose sembra far parte integrante di questa distinta signora, dall'algido aspetto e dalla lunga militanza politica nella destra neogollista francese. Al recente vertice di Davos, la nostra amica si è lasciata andare ad un lacrimoso discorso sulla dignità delle donne in India e nei Paesi arabi (ma il tasso di disoccupazione femminile, in Grecia, con le sue cure, è passato dal 13,2% del 2009 al 21,4% nel 2011) e sull'esigenza di costruire condizioni di maggiore equità distributiva, arrivando addirittura a citare Roosevelt, quando diceva che “il test del nostro progresso è se diamo abbastaza a chi ha troppo poco” (ma l'indice del Gini, l'indicatore che misura l'equità distributiva, peggiora in tutti i PIIGS).
A prescindere dalle dichiarazioni della Lagarde, in cosa consisterebbe, concretamente, quel “delicato equilibrio” fra crescita e risanamento delle finanze pubbliche attraverso il quale il nuovo direttore generale vorrebbe riformare la linea di condotta tradizionale del FMI, per metterlo al riparo dalle critiche per i suoi continui fallimenti? Una risposta viene dalle raccomandazioni che il FMI indica nell'ultimo “World Economic Update”, di fine gennaio 2013. Ed è una risposta da far venire i brividi: come se ci si trovasse in un esperimento in un ambiente controllato di laboratorio, gli analisti del FMI applicano all'intero globo un modellino astratto, una equazione che bilancia crescita e rigore finanziario, distribuendo arbitrariamente i compiti, fra Paesi che devono sostenere la crescita e Paesi, o aree geoeconomiche, che devono applicarsi a implementare le tradizionali ricette di austerità, lotta all'inflazione e liberalizzazioni. Questo modellino, e la relativa distribuzione globale dei compiti assegnati ai diversi Paesi, sono assolutamente astratti, semplificano in modo inquietante la complessità delle relazioni fra Paesi stessi, e fra economia, politica e società, e non tengono conto degli enormi rischi sottostanti, che potrebbero far deflagrare il mondo intero, se fossero applicati alla lettera.
La componente relativa alla crescita dell'equazione crescita/risanamento finanziario viene affidata essenzialmente agli Stati Uniti. Nel caso degli USA, infatti, il FMI abbandona completamente la sua tradizionale fobia per il controllo dei conti pubblici, ed arriva a suggerire di rialzare il tetto legale al debito, al fine di “evitare un consolidamento fiscale eccessivo”. Ciò in un'economia che ha un rapporto fra debito pubblico e PIL del 140% (considerando anche il debito degli Stati e delle contee, nonché delle agenzie federali), ben più alto del 120% della tanto disprezzata Italia, e che soprattutto è ancora il Paese di riferimento nel sistema dei pagamenti mondiali (che è ancora un sistema di “dollar standard”). E' saggio consigliare agli USA, in queste condizioni, di lasciare crescere ulteriormente un debito pubblico che oramai aumenta al ritmo di 3,6 miliardi di dollari al giorno? Non c'è nessuna considerazione circa l'eventualità che le autorità monetarie cinesi, che detengono 1.155 miliardi di Treasury Bonds, possano spaventarsi per l'ulteriore crescita del debito degli USA senza misure correttive, e decidano di liquidare la loro posizione creditoria, facendo fallire, di fatto, il governo statunitense, e comunque, anche non si verificasse il default, facendo perdere al dollaro la sua posizione centrale nel sistema globale dei pagamenti (già minacciata, poiché su alcuni mercati petroliferi già oggi si usa il renmibi al posto del dollaro), inondando i mercati di titoli del debito denominati in dollari con valutazione da titoli-spazzatura. Non c'è nessuna considerazione circa il fatto che i cambiamenti nel sistema valutario internazionale in generale scatenano guerre mondiali, perché sono accompagnate da modifiche radicali nella distribuzione globale del potere economico e politico.
Ma al di là delle relazioni finanziarie e politiche fra USA e Cina, i suggerimenti sostanzialmente orientati al mantenimento, nel breve periodo, di politiche fiscali moderatamente espansive negli USA, non tengono conto della destabilizzazione economica del resto del mondo derivante dall'ulteriore aggravamento del saldo di bilancia commerciale che politiche fiscali accomodanti genererebbero. Va rilevato che la bilancia commerciale degli USA passa da un disavanzo di 454 miliardi di dollari nel periodo gennaio-novembre 2010 ad un saldo negativo, sostanzialmente stabile, di 501-508 miliardi nei corrispondenti periodi del 2011 e del 2012. Ciò ovviamente alimenta la debolezza del tasso di cambio del dollaro, indotto anche dai quantitative easing varati dalla FED in questi anni, e la debolezza del tasso di cambio del dollaro viene pagata soprattutto dall'economia europea, poiché spinge verso l'alto l'euro e deprime l'export europeo (mentre il tasso di cambio fra renmibi e dollaro ha oscillazioni molto contenute, essendosi mosso di circa l'1,2% fra gennaio 2012 e 2013, poiché la fluttuazione del renmibi è ad oscillazione controllata).
Non vi è nemmeno un accenno al rischio dell'innesco di una nuova bolla proveniente dal debito privato. Questa componente è arrivata oramai al 250% del PIL statunitense, fra debito delle famiglie per consumi (2.700 miliardi) debito delle imprese (12.000 miliardi) e debiti immobiliari (13.000 miliardi) il tutto mentre il credito al consumo a novembre 2012 è cresciuto del 7% su base annua, e le vendite di nuovi immobili nel 2012 sono aumentate del 20% circa. Insomma, si sta ricreando il meccanismo di esplosione di una nuova bolla, fra espansione del mercato immobiliare e rapido peggioramento del debito delle famiglie acquirenti e delle imprese edili costruttrici, del tutto analogo al 2007, che diede luogo alla crisi attuale, e il FMI consiglia ad Obama di far finta di niente, rialzare ulteriormente il tetto legale del debito pubblico, e rinviare l'aggiustamento fiscale al medio periodo!
Tutti questi rischi non sono nemmeno valutati dagli analisti del FMI, che assegnano agli USA il ruolo di locomotiva della crescita mondiale, a qualsiasi costo, anche abbandonando ogni più elementare prudenza. L'altro lato dell'equazione, ovvero il risanamento finanziario, viene invece spostato sull'Unione Europea, cui si raccomanda di mantenere una elevata disciplina, in materia di consolidamento fiscale e riforme strutturali di tipo liberista, a carico dei “Paesi periferici” (modo diplomatico per definire i PIIGS, ma che è anche una specie di lapsus freudiano, poiché evidenzia la realtà di una Unione Europea in cui vi è una gerarchia fra Paesi centrali – Francia e Germania e loro addentellati nordici – e Paesi periferici, a sovranità limitata).
La stessa maggiore integrazione europea è vista esclusivamente in termini di rafforzamento dei controlli, sia sul sistema bancario che sulle singole politiche fiscali nazionali, utili a ridurre complessivamente il rischio per gli investitori finanziari (da questo punto di vista, le evidenze secondo cui gli investimenti starebbero riaffluendo nei Paesi PIIGS – con un afflusso di circa 100 miliardi a fine 2012 – non sono necessariametne un buon segno, perché potrebbero semplicemente significare che il capitale finanziario scommette sulla prosecuzione ad infinitum dell'austerità, che gli fornisce le necessarie garanzie affinché i propri investimenti vengano restituiti a scadenza). Naturalmente, una integrazione europea meramente finanziaria, fiscale e bancaria, e non politica e sociale, rischia solo di peggiorare l'assetto attuale delle istituzioni europee, che già oggi ha tratti simili a quelli di una sovrastruttura burocratica e non molto democratica, più attenta alle esigenze dei mercati che a quelle dei popoli. Una ulteriore evoluzione in tal senso porterebbe l'Europa a diventare un Leviatano. Non può essere un progetto economico ad unificare l'Europa, ma un progetto politico, quindi sociale, altrimenti gli esiti potrebbero essere disastrosi, o in direzione di una definitiva sottomissione della rappresentanza politica agli interessi economici, oppure in direzione di rinascenti nazionalismi, estremamente pericolosi, se associati ad una crisi economica profonda.
Ma anche questo rischio è del tutto trascurato dagli analisti del FMI, che condannano allegramente i PIIGS a continuare indefinitamente a fare la parte dell'agnello sacrificale del risanamento delle finanze pubbliche globali, cioè a proseguire nella spirale mortale di un continuo impoverimento e di una continua precarizzazione delle proprie società. In buona compagnia con il Giappone, il cui recentemente annunciato piano di stimolo all'economia viene considerato pericoloso nel medio periodo, se non verrà soffocato, per così dire, da una successiva riforma fiscale restrittiva.
Per finire, la Cina dovrebbe proseguire sulla strada di una ulteriore svolta in senso capitalistico delle sue strutture economiche, adottando riforme strutturali “market oriented” e stimolando i consumi privati, anche in questo caso ignorando bellamente alcune delle contraddizioni strutturali della Cina, ovvero la costante minaccia della pressione della gigantesca popolazione rurale sulle città, che rischia di far saltare lo stesso modello politico ed economico cinese, con conseguenze inimmaginabili, e che ovviamente una crescita dei consumi privati, che generalmente è tirata dalle grandi città, renderebbe ancor più forte.
Nell'insieme, il “new thinking” del FMI appare ancor più pericoloso della dottrina tradizionale dell'istituto. Sembra totalmente scollegato dalla realtà e dalle sue complessità e contraddizioni, drammaticamente e pericolosamente semplicistico, pur senza abbandonare il suo tradizionale cinismo, per cui gli Stati politicamente più deboli sullo scenario globale, come i PIIGS, vengono condannati a sopportare il costo del mantenimento di una crescita totalmente squilibrata, e sempre più basata sul nulla, del Paese padrone del mondo, ovvero gli USA. Se questa era la svolta della Lagarde, beh, era meglio tenerci Strauss-Kahn. Meglio un puttaniere che una cinica ipocrita ed incompetente.
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