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Dunque il vero dilemma è se la rabbia popolare contro i crimini del finanzcapitalismo spianerà la strada a un ritorno dei totalitarismi di destra, o se matureranno le condizioni per la transizione a una civiltà post capitalista, amministrata da istituzioni politiche fondate sui principi della democrazia diretta e partecipativa.
Per molti di coloro che lo hanno votato, Grillo incarna, a torto o a ragione, la speranza che prevalga la seconda alternativa, e il suo trionfo si è celebrato sulle macerie di una sinistra – riformista e radicale, senza distinzioni – che non è più degna di chiamarsi tale.
Per capirlo basta leggere il bell’articolo di Vladimiro Giacché su “Micromega” 2/2013, dedicato al programma economico del Movimento5Stelle. Mentre il Pd lanciava scomuniche contro l’antipolitica e il populismo – urlando tanto più forte quanto più offriva a Monti la propria disponibilità ad approvare riforme che colpivano al cuore gli interessi delle classi subordinate e, addirittura, una riforma costituzionale che metteva fuori legge il keynesismo –, il Movimento5Stelle varava un programma elettorale che, con tutti i suoi limiti, puntualmente evidenziati da Giacché (mancata identificazione delle risorse per finanziare certi provvedimenti, ingenua fiducia nelle capacità taumaturgiche della Rete, eletta a deus ex machina in grado di sanare l’economia, promuovere la democrazia, migliorare la scuola e via miracolando), rappresenta un sia pur rozzo abbozzo di quello che avrebbe dovuto stilare una sinistra degna del nome: reddito di cittadinanza, no alle grandi opere inutili come la Tav, ripristino dei fondi tagliati a scuola e sanità, abolizione della legge Biagi, lotta alla speculazione finanziaria e all’evasione fiscale, drastica riduzione delle spese militari e dei finanziamenti ai partiti, ecc.
E la sinistra radicale? Qui scappano parole ancora più dure: quando la mancanza di idee e di coraggio politico superano un determinato livello diventano idiozia e viltà. Come altro definire la scelta di un Vendola che si è venduto la possibilità di fare un serio lavoro di opposizione per un pugno di seggi elettorali (che beffardamente ora non gli serviranno neppure a governare). Come altro definire quella degli altri “cespugli” che, invece di dare respiro alle iniziative di ALBA e “Cambiare si può”, hanno scelto di partorire, assieme all’IDV, quell’aborto giustizialista che è la lista Ingroia (a cui confesso con una certa vergogna di avere dato il voto, per disperante assenza di alternative).
Gianni Vattimo, che a quanto pare ha fatto la mia stessa scelta, la motiva parlando di “un voto di resistenza antimontiana”. Ma quale resistenza, se poi dice che “non esiste un’alternativa rivoluzionaria al riformismo”; che l’unica prospettiva possibile è lottare “per ottenere un capitalismo meno feroce e sanguinario”, per costruire “una sinistra di legalità e diritti”?
Ok per i diritti (non prima di averli ordinati gerarchicamente, con quelli sociali davanti a tutti!), ma per quanto riguarda la legalità: di che legalità parliamo? Forse quella di Di Pietro, quando ha condannato la resistenza attiva alla violenza delle istituzioni da parte dei militanti No Global a Genova, o dei militanti NoTav in Val Susa? No grazie, non mi interessa, né credo interessi alle migliaia di ragazzi che sono stati protagonisti dei movimenti degli ultimi anni, i quali difficilmente avranno votato per Vendola o Ingroia, preferendo astenersi o votare Grillo, per sfregio alla “governabilità” se non per convinzione.
Carlo Formenti
(26 febbraio 2013)
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