di Spartaco A. Puttini - sinistrainrete -
Chi non apprende dalle lezioni della storia è condannato a ripetere i propri errori. E chi pensa di muoversi senza curarsene non è solo cieco, è pericoloso, come ebbe a dire Hobsbawm.A guardare il contegno assunto dai vari riformismi di fronte alla crisi e all’offensiva reazionaria che si è scagliata contro i popoli europei balza agli occhi l’assoluta mancanza di una risposta adeguata, all’altezza della sfida.
L’accondiscendenza verso le politiche di austerità delle tecnocrazie liberali e la sostanziale sudditanza teorica alle ricette del pensiero economico mainstream negli ambienti politici che si rifanno al riformismo la fanno ancora grandemente da padrona, nonostante tutto.
Anche nel corso della campagna elettorale per le elezioni politiche in Italia si è sviluppato un grave equivoco, foriero di serie conseguenze, e si è persa una grande occasione ad urne nemmeno aperte.
L’equivoco è dovuto al fatto che una coalizione di centrosinistra che riscopre, almeno a parole, il valore del “lavoro” continua a sostenere la necessità di un incontro con il così detto centro liberale (che può essere definito centro solo con una buona dose di fantasia) e questo la porta ad essere più tenera e più invischiata con le politiche di austerità e macelleria sociale del governo uscente presieduto da Monti di quanto sarebbe lecito e, anche dal punto di vista puramente elettoralistico, conveniente.
Quando si sostiene che molto probabilmente, comunque vada, si troverà un’intesa con Monti nella nuova legislatura, vi è assai poco da aggiungere. Di fatto il centrosinistra ha impostato malissimo la campagna elettorale. Avesse sostenuto posizioni critiche e fortemente antitetiche a quelle dell’esecutivo uscente (inviso anche solo istintivamente alla stragrande maggioranza degli italiani), basate sulla necessità di una politica espansiva, dell’abbandono delle politiche di austerità e del Fiscal compact, di una revisione profonda dei trattati europei, di un sostegno al welfare e più in generale al potere d’acquisto delle masse popolari, forse sarebbe addirittura riuscito a far dimenticare 13 mesi di appoggio pressoché incondizionato al governo dei tecnici. Cosa non non farebbero gli italiani per una svolta!? Forse non avrebbe nemmeno avuto bisogno di invocare il voto utile. Invece…
Invece, l’aver sostenuto che la contraddizione principale non è quella che dividerebbe i progressisti dall’ultraliberismo di Monti ma quella che separa i sostenitori dell’integrazione europea (così come si è concretamente manifestata) dagli altri, definiti disinvoltamente “populisti”, pone le cose su un altro piano. Il fatto che questa dichiarazione l’abbia fatta Stefano Fassina1, cioè colui che ha sostenuto e sostiene all’interno del Pd e della coalizione “Italia Bene Comune” le posizioni politiche più qualificate a sinistra e più critiche nei confronti del liberismo, offre un’idea della situazione nella quale ci si trova, del punto cui è giunto il riformismo.
Lasciamo perdere per un attimo la disquisizione sul significato del termine “populista” (che non è esattamente sinonimo di “demagogo”), e accettiamo convenzionalmente la volgare versione corrente per la quale basta dire due sparate in campagna elettorale per essere riconosciuti come tali, anche se in realtà si è solo dei liberisti mascherati, come è il caso di Berlusconi (il quale è giustamente intento a far dimenticare di essere stato prono ai diktat di Bruxelles fino a ieri). Dimentichiamoci che il termine fa riferimento a ben precise correnti politiche, con una loro storia ed anche una loro dignità.
Il succo del discorso sta nella concezione algebrica della politica per cui per arginare una destra, ritenuta a torto o a ragione la più pericolosa, sommi i tuoi voti all’altra destra. Ragionamento che a prima vista sul piano tattico pare ineccepibile, ma che implica dei costi non irrilevanti.
Il problema è che, così facendo, si lasciano spazi elettorali immensi e ci si pone su un terreno che non consentirà mai di intercettare i voti di quanti vogliono un “cambio di stagione”, siano già inquadrati alla propria sinistra o siano semplicemente elettori delusi, risucchiati dal non-voto o attirati dal voto di protesta.
Ci si dimentica così della nota legge della fisica per la quale il vuoto non esiste. Quella che politicamente ha gonfiato spesso il fenomeno qualunquista e che a tratti ha concorso a sdoganare in Europa forze apertamente reazionarie.
Ci si dimentica, cioè, che per facilitare l’adesione alla propria posizione politica occorre lavorare sui bisogni delle persone, e nella crisi indicare con coerenza una via d’uscita. Ci si dimenticano le lezioni della storia, e chi dimentica i propri errori è condannato a ripeterli. E’ questa la malattia cronica del riformismo che, inchinandosi verso i liberali, lascia le esigenze delle masse popolari prive di soddisfazione, abbandonandole in balìa della demagogia reazionaria.
Il riformismo apre le porte alla reazione
Storicamente il riformismo, negli anni ’20 e ’30, ha aperto, con la propria incapacità a rispondere ai bisogni delle masse popolari e con la sua sudditanza ai poteri forti e alla loro ideologia, la strada alla reazione.
All’epoca i socialisti planisti2 videro nella crisi che attanagliava le classi popolari e i lavoratori un’occasione obbligata di trasformazione sociale e politica in senso socialista. Per quanto esigui, videro nell’intervento programmato dello Stato in economia una soluzione di lungo periodo alla contraddizione del capitalismo e un modo per uscire dall’impasse in cui si era impantanata la socialdemocrazia. Una proposta che avrebbe forse consentito di porre prima, e su basi più avanzate di quanto non avvenne in seguito con i fronti popolari, la questione dell’unità del movimento operaio. Come avviene oggi, allora pesò sui riformisti, che restarono sordi alla necessità delle riforme di struttura per uscire dalla crisi, una sostanziale sudditanza alle idee economiche dominanti, che erano ieri come oggi quelle delle oligarchie dominanti, quelle reclamizzate per farne gli interessi a scapito di quelli nazionali. Certo, i paralleli storici sono sempre azzardati. Ma non inutili.
Come non vedere un parallelo tra la suicida accondiscendenza dell’Spd degli anni Trenta verso la deflazione salariale di Brüning, che provocò una crisi senza precedenti nei rapporti tra partito socialdemocratico e sindacato; gli sforzi di Sisifo dei laburisti di Mcdonald, che cercarono di tenere la parità della sterlina con l’oro e che causarono la scissione del Labour Party e la sua caduta nella minorità politica per un lungo periodo; o ancora la scelta di Blum di sacrificare il Fronte Popolare sull’altare della parità di bilancio e del liberoscambismo, con l’atteggiamento attuale, in testarda difesa di questa Europa, votato all’accoglimento delle sue richieste fino al masochismo e tutto proteso a cercare punti di contatto con la politica montiana?
In entrambi i casi, ieri come oggi, per la mancata volontà di imboccare con ardimento e responsabilità le misure che, sole, possono fare uscire dalla crisi, si produce una frantumazione delle forze progressiste. Anche oggi c’è chi pensa di poter dare al paese una correzione di indirizzo a sinistra escludendo però quelle componenti di sinistra che, nonostante tutto, sono state più conseguenti nel rifiutare il neoliberismo, nell’opporsi a Monti, nel difendere il potere di acquisto delle masse popolari e il welfare.
La chiusura a queste forze è anche e soprattutto una chiusura a determinate istanze nel momento in cui ci si esercita con acrobazie verbali per sostenere una maggiore equità, ma all’interno dei vincoli europei che sono stati inseriti apposta per lanciare una offensiva antipopolare senza precedenti, volta a scaricare sulle spalle dei lavoratori la crisi del sistema capitalistico.
Ma, ovviamente, non è solo questo il problema.
Il riformismo reazionario
Adottando una postura apparentemente ragionevole e ineccepibile e dipingendosi come “la forza tranquilla” che vuole migliorare la situazione, ma senza avventure, il centrosinistra in realtà resta nel solco di un immobilismo un po’ doroteo, sostenendo alcune questioni che, nella migliore delle ipotesi, sono caratteristiche perché non dicono nulla di netto, nulla che suoni impegno in una direzione chiara, non equivoca. Alcune uscite nascondono qualsiasi interpretazione. Si può sostenere che esse celino l’accettazione di proposte ragionevoli, ma si può con altrettanta fondatezza sostenere che le respingano. Nel frattempo, guardando a Monti, ci si lega le mani e si lasciano ampi margini d’azione alle peggiori derive. C’è ancora da meravigliarsi se con questa postura Berlusconi resuscita?
Perché nel gorgo della crisi non c’è più spazio per margini riformisti che, guardandosi bene dal disturbare la digestione dei potenti, si limitino a truccare con un po’ di belletto la “Fornero”, che resterà comunque una brutta legge.
I limiti di un riformismo superficiale ed esangue sono del resto palesi di fronte all’attuale fase, nella quale alcuni nodi vengono al pettine. Per far fronte ad una crisi di sovrapproduzione si è avviato decenni fa un processo di finanziarizzazione che consente grosse fortune a un numero limitato di individui e gruppi ma che non può permettere lo stabilirsi di un compromesso sociale sul quale possa crescere una classe media che tende invece, inevitabilmente, a proletarizzarsi. Nelle condizioni date o vi è un cambio di passo a livello macroeconomico e si accettano un minimo di riforme di struttura e la ripresa di un qualificato intervento pubblico in economia (interventi riformatori, non riformisti) o dalla crisi non se ne esce. Si potrà certo parlare di necessità del welfare, ma senza una politica di ricostruzione economica e con la spada di Damocle del pareggio di bilancio in Costituzione alle parole sarà ben dura far seguire i fatti.
Nell’ultimo trentennio le socialdemocrazie hanno avuto una pesante responsabilità storica.
Il collasso del campo socialista ha fatto in pari tempo piazza pulita della presunta capacità alternativa delle socialdemocrazie e della presunta naturalezza del compromesso sociale che vigeva al di qua della cortina di ferro durante la guerra fredda.
La controrivoluzione all’Est, spostando i rapporti di forza a livello internazionale, ha inferto un colpo mortale a tali illusioni. Il compromesso è stato progressivamente abolito dall’alto (noi stiamo vivendo l’ultimo capitolo del dramma) nel contesto di una crisi sistemica senza precedenti.
In tutti questi venti anni le sinistre europee omologate al sistema atlantico e liberista, tra cui sono state arruolate le socialdemocrazie, sdraiatesi ovunque sul pensiero mainstream, hanno parlato il linguaggio di un’alternanza tra amministratori, che non si curavano delle linee fondanti strategiche del loro operare perché tali linee erano rappresentate dall’indiscutibile accettazione del “corpus” liberista.
Ovunque la socialdemocrazia ha vissuto il suo ennesimo fallimento, prestandosi a fare un po’ di demagogia pseudo-egualitaria su aspetti che, per quanto eticamente rilevanti, erano secondari rispetto alla determinazione degli indirizzi di fondo dei rispettivi paesi. Il termine demagogia è pienamente giustificato, perché è impossibile garantire il welfare (seppur in fantomatiche nuove forme) quando si decide di privatizzare, colpire il potere d’acquisto delle classi popolari, deregolare l’economia e colpire al cuore la capacità del proprio paese di produrre. Tutte conseguenze portanti dell’accettazione dei dogmi liberisti accettati. Non è un caso la postura che hanno assunto nei confronti di questa costruzione contorta dell’Unione europea, vero e proprio ariete reazionario guidato dall’interesse del grande capitale, i socialisti francesi, tedeschi, greci, spagnoli.
Ci siamo trovati di fronte ad un filone di riformismo che ha accompagnato tutte le controriforme attuate in senso antipopolare e antinazionale in questi anni; un riformismo che proprio per questo potremmo definire reazionario. Tale filone di pensiero compatibile con il neoliberismo ha mostrato la radicale debolezza delle prospettive riformiste.
La ricerca di elementi di socialità all’interno del sistema capitalistico è stata messa a dura prova dalla reazione liberale, che ha inteso risolvere le sue contraddizioni scaricando tutto sui lavoratori, con l’aumento della disoccupazione, la riduzione del potere di acquisto dei salariati, l’attacco alle conquiste e alle garanzie democratiche, la progressiva liquidazione dell’intervento sociale.
Quest’ ultimo è un fatto significativo, emblematico, se si pensa che appunto con l’intervento sociale cercava di caratterizzarsi il riformismo. Di fronte all’offensiva neoliberista il riformismo è rimasto nudo. Ha abbandonato le sue stesse soluzioni nel momento in cui vedeva che, per applicarle, si sarebbero dovute forzare le strutture stesse del sistema, mentre il suo intento restava e resta quello di agire all’interno del sistema: ieri era possibile con lo stato sociale, oggi necessariamente contro di esso.
Questo dovrebbe dimostrare la straordinaria attualità della polemica di Togliatti (frettolosamente spedito in soffitta) sul “riformismo senza riforme” e dovrebbe portare a riscoprire tutto il valore attribuito alle più ambiziose riforme di struttura da parte di una sinistra di classe degna di questo nome.
Il riformismo futile
Non so valutare se vi siano in Italia, all’interno della forza maggioritaria del centrosinistra, componenti socialdemocratiche, o pseudo tali.
Ricordo che, all’imbocco del tunnel che avrebbe determinato la svolta occhettiana, dalle pagine di “Marxismo Oggi” Gian Mario Cazzaniga già nel 1988 sottolineò come il gruppo dirigente che stava per liquidare il Pci (partito che è sempre stato riformatore e puntava alla costruzione progressiva del socialismo nella cornice della democrazia repubblicana ma che non fu mai riformista!) si ponesse su un terreno di rottura e svendita con la tradizione storica del movimento operaio per indossare i panni di una cultura liberal-democratica e che persino per la socialdemocrazia non vi fosse posto nella “cosa” occhettiana. Mi pare che quella analisi abbia colto nel segno. Casomai si può, a posteriori, ritenere eccessivamente ottimista la visione di Cossutta, secondo la quale la base popolare del partito sarebbe stata non assimilabile al nuovo corso. Disgraziatamente non è stato così. Parte rilevante di quella base ha subito una mutazione genetica ed ha bevuto tutto o quasi in questi venti anni, tanto da ritenere Obama un simbolo di sinistra, da accodarsi ad ogni campagna di demonizzazione contro i movimenti di liberazione nazionale e contro chi si oppone ai piani dell’imperialismo e da accettare di mettersi l’elmetto per ogni aggressione bellica spacciata per impresa umanitaria (da cui deriva parte significativa della crisi del movimento per la pace). Ieri ha accettato di credere a Monti come al male necessario. Oggi continua a giurarsi fedele fino alla morte ad un ideale europeista martirizzato dall’attuale processo di integrazione e schiacciato sotto il peso di una moneta unica sempre più ingombrante a causa delle pulsioni egemoniche tedesche.
Finalmente, sotto l’urto del fondamentalismo montiano, alcuni esponenti del Pd sembravano intenzionati a rompere con il tabù dell’accettazione del liberismo e avevano manifestato la convinzione di attuare altre politiche economiche diverse dall’austerità e più incentrate sulla crescita. Era la prima volta che maturava in una parte, seppur minoritaria, del Pd un approccio critico, seppur timidamente critico, dall’epoca della svolta della Bolognina e dalla concomitante sbornia liberale.
Invece le ultime proposte riportano indietro di una spanna la situazione. A partire dalla reiterazione della fede cieca nell’euro e nei trattati europei, da Maastricht in poi.
L’ultima proposta di Fassina, accettare un commissario europeo (tedesco?) per farsi controllare i compiti e rinunciare definitivamente alla sovranità residua in cambio di avere in un secondo tempo una politica redistributiva a livello europeo è indicativa3.
Brilla per la sua incredibile ingenuità. E’ già scritto che la politica redistributiva a livello europeo resterà nei sogni di chi l’ha proposta, quando saremo commissariati. Perché ci sono rapporti di forza concreti di cui tenere conto e purtroppo la Ue è nata su un impianto liberista che nega alla radice le stesse politiche redistributive ed espansive. La stessa lacuna riguardo alla costruzione del potere politico nel processo di integrazione europeo cade come il cacio sui maccheroni, visto l’ampio margine che lascia alla politiche reazionarie della tecnocrazia, volte all’asservimento delle nazioni deboli dell’eurozona e alla distruzione sistematica dei livelli di vita e delle conquiste delle masse popolari in tutti i paesi membri. Qualcuno crede ancora che tale mancanza sia un caso?
Non era forse la Trilateral, di cui Monti è stato augusto esponente, a sostenere in tempi non sospetti che la democrazia era un impedimento all’adozione delle controriforme che dovevano portare avanti la lotta di classe alla rovescia per trasferire le ricchezze dai ceti popolari alle oligarchie?
Essendo la sovranità nazionale condizione necessaria della democrazia e della partecipazione popolare a cosa può portare una sua ulteriore alienazione?
E’ evidente che la proposta Fassina rischia di tramutarsi in un boomerang nel momento in cui la sovranità nazionale è l’unica arma che resta per cambiare il corso della partita. Sbaglia chi sostiene che in futuro è ineludibile l’abbandono della sovranità. Di grosso. L’unica cosa che è inevitabile è la morte e la cessione della sovranità l’avvicinerebbe.
La difesa della sovranità al primo posto
Fassina propone addirittura di confrontarsi con Hollande per chiarirgli che non c’è alternativa alla rinuncia della sovranità (sic!) Non credo che il futuro governo riuscirà a convincere la Francia in tal senso. Non già per cieca fiducia nell’esecutivo socialista di Hollande, quanto perché la questione della sovranità nazionale è storicamente assai delicata in quel paese, quantomeno da De Gaulle in poi (a proposito, ecco un populista che ha fatto una cosa buona!).
Inoltre occorre tenere presente che gli ultimi dati sull’andamento dell’indice PMI del settore manifatturiero, che detta volgarmente misura lo stato di salute, l’andamento, del settore tenendo conto di numerosi dati (produzione, scorte, consegne, occupazione…), segnalano un brusco calo per la Francia. Se fino a metà dello scorso anno i trend tedeschi e francesi erano tutto sommato paralleli e quasi sovrapponibili, da allora in poi si è registrata una divergenza radicale tra la Germania e la Francia4. A Parigi questo dato suonerà la sveglia, sommandosi ad altri indicatori che già da tempo mostravano come solamente la Germania (cioè il grande capitale tedesco) abbia guadagnato profumatamente dall’adozione della moneta unica mentre tutti gli altri hanno visto un netto peggioramento delle loro condizioni, Francia inclusa.
La pressione delle divergenze macroeconomiche all’interno dell’eurozona si sta accentuando e la possibilità che la moneta unica, impedendo gli aggiustamenti necessari, si disgreghi si fa più vicina, se non si inverte la rotta. Ma di questa inversione non v’è traccia.
Piaccia o no, la realtà fa il suo corso. E’ quella che Saint-Just chiamava la “forza delle cose”. Non a caso durante l’ultimo eurovertice il presidente francese Hollande si è visto costretto a fare presente che “in Europa ci sono Paesi con ampi surplus e grande competitività e altri con pesanti deficit che si sforzano di recuperarla. Per questo i primi dovrebbero stimolare la domanda per permettere ai secondi di tornare in attivo”5. Segno che ora la divaricazione all’interno dell’eurozona diviene sempre più acuta e non riguarda solo il fronte Germania-PIGS, ma attraversa ormai lo stesso asse franco-tedesco, o quel che ne resta. Il tempo dei sorrisi complici tra la Merkel e Sarkozy fa parte del museo dei ricordi. L’insostenibilità dell’euro e dell’attuale processo di integrazione diventa più evidente6 e rende urgente l’adozione di una exit strategy che eviti un bagno di sangue e che arrivi prima di un tramonto dorato (per lor signori), alla greca.
Ha ragione Vladimiro Giacchè, oggi lo spazio per una ridiscussione del Fiscal compact c’è. Andrebbe sfruttato.
Purtroppo Bersani si è recato a Berlino con il cappello in mano mostrando la propria disponibilità a riconoscere la leadership tedesca all’interno della Ue (sic!).
Egemonia e blocco sociale
La ragionevolezza imporrebbe di vedere che la crisi diminuisce la capacità del movimento operaio di ottenere riforme, ma essa aumenta simultaneamente le sue possibilità, quantomeno teoricamente, di realizzare un mutamento radicale.
Ad esempio, la nazionalizzazione del credito (non il salvataggio a spese collettive dell’MPS) fornirebbe la possibilità di rimuovere uno dei principali ostacoli alle imprese (specie di quelle medie e piccole): il problema di accedere al credito agevolato. Sarebbe così possibile siglare un patto sociale tra la classe lavoratrice e strati importanti di ceto medio in crisi senza per questo accettare la deflazione o il contenimento salariale, oltretutto controproducente se si vuole riavviare la domanda. Permetterebbe, in prospettiva, di avviare a soluzione il problema di assorbire progressivamente la disoccupazione, aumentando la produzione e gli investimenti per l’ammodernamento degli impianti, e di sostenere sul medio periodo un ritorno a meccanismi progressivi di rigidità nei contratti di lavoro. La stessa revisione dei carichi fiscali, facendo pagare finalmente chi ha di più e spezzando l’assurda solidarietà di molti lavoratori indipendenti con i trivellatori delle ricchezze nazionali sulla base dell’evasione fiscale, dovrebbe favorire il costituirsi di un blocco sociale alternativo a quello propugnato nei decenni passati dalla destra liberale.
Chi continua a inseguire i moderati (ma Monti non ha ammesso di essere un estremista?) non tiene presente che i ceti medi nella crisi divengono disponibili all’adozione di misure radicali. La contraddizione che li contrappone agli interessi del capitale monopolistico finanziario pone le basi di una convergenza con il mondo del lavoro dipendente. Ma questa ricomposizione è possibile solo sulla base di un progetto di più vasta portata, non di rivendicazioni immediate, cioè è necessario un programma radicale di riforme di struttura per costruire un blocco sociale. In queste sta l’idea del rilancio della ruolo pubblico in economia.
Come riconoscevano appunto negli anni ’30 i planisti: “Se abbiamo proposto queste riforme … strutturali… è perché altrimenti il risanamento economico del paese continuerebbe ad essere ostacolato dalle situazioni che l’hanno reso impossibile sino ad ora: il credito troppo caro e mal diretto a causa del monopolio privato dell’alta banca, il carattere plutocratico della politica deflazionista perseguita da un governo infeudato al grande capitale finanziario, la mancanza di direzione economica che deriva dalla dualità di potere economico e potere politico e dalla forte influenza delle potenze del denaro sulla autorità dello Stato”7.
Se i riformisti avessero osservato meglio, si sarebbero resi conto che alcuni modelli interpretativi e alcune strategie del tanto vituperato Novecento sarebbero ancora in grado di suggerire risposte ai loro quesiti. Certo occorrerebbe fare la fatica di declinare quelle strategie in un contesto diverso. Invece eccoci qui, ad ascoltare la celebre orchestrina del Titanic, sulla rotta verso Weimar.
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