EDITORIALE - Marco Revelli
«Tra tanti ciechi e monocoli siamo condannati a vedere; tra tanti illusi dobbiamo essere consci di tutta un'esperienza storica e attuale». Era il novembre del 1922. Lo scriveva Piero Gobetti - e oggi potrebbero ripeterlo le decine di migliaia di uomini e di donne mobilitati dalla Fiom nella consapevolezza dell'emergenza democratica che stiamo vivendo -, nel primo numero della «Rivoluzione liberale» uscito dopo la Marcia su Roma, quando quasi tutti, a destra come a sinistra, consideravano quella catastrofe poco più che un'increspatura sulla superficie piatta della storia. Questo per dire come spesso le grandi cesure storiche - i «mutamenti di stato» negli assetti istituzionali, i terremoti nelle culture politiche, i punti terminali dei cicli - siano ignorate dagli stessi protagonisti. Come stia, forse, in un angolo del Dna della specie l'abitudine a ricondurre lo straordinario entro l'involucro rassicurante dell'ordinario. Oggi ho l'impressione che sia un po' così. Anche in casa nostra.
Anche noi, come gli astronauti di ritorno dalle missioni spaziali nei brutti film di fantascienza (quando esisteva ancora la fantascienza) possiamo dire di aver vissuto «l'inimmaginabile». Abbiamo visto una buona metà del corpo elettorale mettersi fuori dal sistema politico ufficiale. Praticare con perentorietà una migrazione biblica. Abbiamo visto in diretta, a camere riunite e a reti unificate, il parlamento arrendersi alla propria impotenza e «scegliere di non scegliere» al primo atto fondativo della propria esistenza, l'elezione del presidente. Per esibirsi subito dopo in un grottesco rito sado-maso, tutti in piedi ad applaudire l'uomo che li prendeva a scudisciate, lasciando il campo a quello che è ormai un presidenzialismo di fatto, lontano anni luce dal modello di democrazia parlamentare previsto dai padri costituenti per il semplice fatto che il parlamento, per la seconda volta in un anno e mezzo, è stato surrogato dal corno monocratico dell'Esecutivo. E che il Governo è nato in realtà fuori - e sopra - di esso, controllato dal «pilota automatico» europeo che non lascia margini di manovra né discrezionalità. Abbiamo visto infine un grande partito - l'unico e ultimo, in Italia, a chiamarsi ancora partito, quello che ha ottenuto alla Camera l'abnorme premio di maggioranza previsto dalla legge-porcata - disfarsi sotto i nostri occhi, travolto dalla disgregazione del suo gruppo dirigente e dalla totale mancanza di una cultura politica, quale che sia. E a fronte di esso tornare ad ergersi l'immagine sulfurea del Cavaliere riesumato da morte presunta e assurto istantaneamente a dominus e arbiter degli «equilibri politici» (sic).
L'abbiamo visto, tutto questo. E nonostante ciò siamo ancora qui a domandarci come metterci una pezza secondo le regole dell'ordinaria amministrazione. Come potrà il Pd ritrovarsi, magari al Congresso. Quali carte ha la sinistra interna. Con Barca? Magari in ticket con Vendola? O, all'opposto, con Renzi, uno al Partito l'altro al Governo? O, che ne so, con la Cgil di ieri in asse con quella di oggi, Epifani e Camusso? Come se lì, in quel paesaggio di rovine, ci fossero ancora materiali per costruire zattere. E risorse politiche e umane per risollevarsi. E soprattutto come se lo strappo consumato con la nascita del governo Letta-Berlusconi non avesse scavato un abisso tra quella classe politica, tutta intera, e le residue energie democratiche del Paese (quelle che si ostinano a considerare una «sintesi di tutte le proprie antitesi» il berlusconismo e il suo eroe eponimo).
Meglio sarebbe riconoscere realisticamente che quella del Pd è una crisi irreversibile. Che la fine di quel partito sarà probabilmente lunga, senza Big bang ma anche senza punti di ripristino o di ritorno. Troppo ampia la parte del suo immaginario e della stessa coscienza morale «colonizzata» dal modo di essere e di pensare dell'avversario, come è emerso alla superficie nei giorni neri dell'elezione del presidente e nella facilità, per alcuni voluttà, con cui è avvenuta la coincidentia oppositorum nella ibrida compagine governativa. Troppo evidente l'assenza di un pur minimo denominatore comune in termini di cultura politica. Troppo logorata la sua classe dirigente, sempre più impegnata a difendere l'indifendibile.
Valter Tocci, in un folgorante intervento al Piccolo Eliseo in occasione dell'incontro con Rodotà, ha evocato il concetto di Collasso citando l'omonimo libro di Jared Diamond e la tragedia dell'Isola di Pasqua, dove un popolo isolato dal resto del mondo e guidato da un'élite ferocemente divisa al suo interno si estinse: perché, appunto, la pressione centripeta dell'autoreferenzialità e dell'isolamento aveva reso insanabili i contrasti al vertice e inevitabile la fine. E' esattamente ciò a cui si è assistito in questi giorni, nello scontro di tutti contro tutti (e lontano da tutto) all'interno di un gruppo dirigente separato dal proprio popolo e insieme intriso di veleni e rancori personali, che ha reso impossibile qualunque soluzione in avanti rendendo endemico lo stallo.
È difficile immaginare che una tale classe politica possa non dico ritrovare una propria coesione, ma anche solo organizzare i propri dissidi lungo linee politiche comprensibili, secondo un qualche cleavage razionalmente individuabile (la vecchia demarcazione tra Ds e Margherita o, che so, tra renziani e bersaniani, cristiano-sociali e social-democratici, moderati e radicali...), in una situazione nella quale persino la «scissione» apparirebbe come un'opzione fausta (quantomeno un barlume di senso, che richiederebbe comunque una sia pur minima capacità di pensarsi in un altrove rispetto al mondo pietrificato del «pilota automatico»). E' più probabile che quel gruppo continuerà a restare forzosamente nell'unico involucro che gli permette di mantenersi nelle prossimità del potere, continuando a dilaniarsi a vicenda, un'esecuzione dietro l'altra, agguato dopo agguato, mandando al martirio il segretario di turno e lasciando dietro di sé una lunga scia di esodati silenziosi e impotenti...
So benissimo che un quadro siffatto atterrisce. Conosco perfettamente, perché lo provo ogni giorno, il senso di vertigine tipico dell'horror vacui, tanto più se consideriamo l'effetto congiunto della crisi istituzionale e di quella economica e sociale che vi si intreccia con bagliori weimariani. Ma proprio per questo resto convinto che se un'alternativa si vuole creare, in fretta, nella profondità della crisi italiana, questa non potrà essere ripensata che lontano da Bisanzio.
Se un cantiere si vorrà aprire, non potrà nascere che «fuori dalle mura» di quel mondo crollato, con altri linguaggi, altre facce, altri stili politici, diversi da quelli ormai frusti delle troppe sinistre fallite, chiamando a raccolta quanti - e sono tanti - hanno deciso di guardare avanti: in uno «spazio politico» in cui, prima di contare e di contarsi, ci si impegni a pensare e a pensarsi, senza più illudersi della possibilità di procedere per assemblaggio degli eterogenei frammenti prodotti dal crollo (a cominciare da quelli che hanno fatto naufragare nel minoritarismo l'esperienza di «Cambiare si può»). Né di attaccarsi al carro di qualche improbabile capo-corrente.
Tirar fuori questo paese dal buco nero in cui sta velocemente affondando richiederà un'energia politica straordinaria, che coincide con un'altrettanto straordinaria mobilitazione morale e culturale: con la necessità di ripensare alle radici un modello economico e sociale alternativo tanto al neo-liberismo fallito quanto al keynesismo social-democratico estinto col Novecento e, contemporaneamente, di rianimare un'idea di democrazia capace di sopravvivere alla crisi dei suoi tradizionali soggetti politici e alle troppe tentazioni presidenzialiste che emergono dal brodo tossico della personalizzazione della politica.
Tanto vale incominciare subito, chiamando a raccolta le migliori risorse intellettuali, morali e sociali, a cominciare da quelle che Landini ha portato in piazza sabato scorso a Roma. Senza più deleghe. Né dilazioni.
Anche noi, come gli astronauti di ritorno dalle missioni spaziali nei brutti film di fantascienza (quando esisteva ancora la fantascienza) possiamo dire di aver vissuto «l'inimmaginabile». Abbiamo visto una buona metà del corpo elettorale mettersi fuori dal sistema politico ufficiale. Praticare con perentorietà una migrazione biblica. Abbiamo visto in diretta, a camere riunite e a reti unificate, il parlamento arrendersi alla propria impotenza e «scegliere di non scegliere» al primo atto fondativo della propria esistenza, l'elezione del presidente. Per esibirsi subito dopo in un grottesco rito sado-maso, tutti in piedi ad applaudire l'uomo che li prendeva a scudisciate, lasciando il campo a quello che è ormai un presidenzialismo di fatto, lontano anni luce dal modello di democrazia parlamentare previsto dai padri costituenti per il semplice fatto che il parlamento, per la seconda volta in un anno e mezzo, è stato surrogato dal corno monocratico dell'Esecutivo. E che il Governo è nato in realtà fuori - e sopra - di esso, controllato dal «pilota automatico» europeo che non lascia margini di manovra né discrezionalità. Abbiamo visto infine un grande partito - l'unico e ultimo, in Italia, a chiamarsi ancora partito, quello che ha ottenuto alla Camera l'abnorme premio di maggioranza previsto dalla legge-porcata - disfarsi sotto i nostri occhi, travolto dalla disgregazione del suo gruppo dirigente e dalla totale mancanza di una cultura politica, quale che sia. E a fronte di esso tornare ad ergersi l'immagine sulfurea del Cavaliere riesumato da morte presunta e assurto istantaneamente a dominus e arbiter degli «equilibri politici» (sic).
L'abbiamo visto, tutto questo. E nonostante ciò siamo ancora qui a domandarci come metterci una pezza secondo le regole dell'ordinaria amministrazione. Come potrà il Pd ritrovarsi, magari al Congresso. Quali carte ha la sinistra interna. Con Barca? Magari in ticket con Vendola? O, all'opposto, con Renzi, uno al Partito l'altro al Governo? O, che ne so, con la Cgil di ieri in asse con quella di oggi, Epifani e Camusso? Come se lì, in quel paesaggio di rovine, ci fossero ancora materiali per costruire zattere. E risorse politiche e umane per risollevarsi. E soprattutto come se lo strappo consumato con la nascita del governo Letta-Berlusconi non avesse scavato un abisso tra quella classe politica, tutta intera, e le residue energie democratiche del Paese (quelle che si ostinano a considerare una «sintesi di tutte le proprie antitesi» il berlusconismo e il suo eroe eponimo).
Meglio sarebbe riconoscere realisticamente che quella del Pd è una crisi irreversibile. Che la fine di quel partito sarà probabilmente lunga, senza Big bang ma anche senza punti di ripristino o di ritorno. Troppo ampia la parte del suo immaginario e della stessa coscienza morale «colonizzata» dal modo di essere e di pensare dell'avversario, come è emerso alla superficie nei giorni neri dell'elezione del presidente e nella facilità, per alcuni voluttà, con cui è avvenuta la coincidentia oppositorum nella ibrida compagine governativa. Troppo evidente l'assenza di un pur minimo denominatore comune in termini di cultura politica. Troppo logorata la sua classe dirigente, sempre più impegnata a difendere l'indifendibile.
Valter Tocci, in un folgorante intervento al Piccolo Eliseo in occasione dell'incontro con Rodotà, ha evocato il concetto di Collasso citando l'omonimo libro di Jared Diamond e la tragedia dell'Isola di Pasqua, dove un popolo isolato dal resto del mondo e guidato da un'élite ferocemente divisa al suo interno si estinse: perché, appunto, la pressione centripeta dell'autoreferenzialità e dell'isolamento aveva reso insanabili i contrasti al vertice e inevitabile la fine. E' esattamente ciò a cui si è assistito in questi giorni, nello scontro di tutti contro tutti (e lontano da tutto) all'interno di un gruppo dirigente separato dal proprio popolo e insieme intriso di veleni e rancori personali, che ha reso impossibile qualunque soluzione in avanti rendendo endemico lo stallo.
È difficile immaginare che una tale classe politica possa non dico ritrovare una propria coesione, ma anche solo organizzare i propri dissidi lungo linee politiche comprensibili, secondo un qualche cleavage razionalmente individuabile (la vecchia demarcazione tra Ds e Margherita o, che so, tra renziani e bersaniani, cristiano-sociali e social-democratici, moderati e radicali...), in una situazione nella quale persino la «scissione» apparirebbe come un'opzione fausta (quantomeno un barlume di senso, che richiederebbe comunque una sia pur minima capacità di pensarsi in un altrove rispetto al mondo pietrificato del «pilota automatico»). E' più probabile che quel gruppo continuerà a restare forzosamente nell'unico involucro che gli permette di mantenersi nelle prossimità del potere, continuando a dilaniarsi a vicenda, un'esecuzione dietro l'altra, agguato dopo agguato, mandando al martirio il segretario di turno e lasciando dietro di sé una lunga scia di esodati silenziosi e impotenti...
So benissimo che un quadro siffatto atterrisce. Conosco perfettamente, perché lo provo ogni giorno, il senso di vertigine tipico dell'horror vacui, tanto più se consideriamo l'effetto congiunto della crisi istituzionale e di quella economica e sociale che vi si intreccia con bagliori weimariani. Ma proprio per questo resto convinto che se un'alternativa si vuole creare, in fretta, nella profondità della crisi italiana, questa non potrà essere ripensata che lontano da Bisanzio.
Se un cantiere si vorrà aprire, non potrà nascere che «fuori dalle mura» di quel mondo crollato, con altri linguaggi, altre facce, altri stili politici, diversi da quelli ormai frusti delle troppe sinistre fallite, chiamando a raccolta quanti - e sono tanti - hanno deciso di guardare avanti: in uno «spazio politico» in cui, prima di contare e di contarsi, ci si impegni a pensare e a pensarsi, senza più illudersi della possibilità di procedere per assemblaggio degli eterogenei frammenti prodotti dal crollo (a cominciare da quelli che hanno fatto naufragare nel minoritarismo l'esperienza di «Cambiare si può»). Né di attaccarsi al carro di qualche improbabile capo-corrente.
Tirar fuori questo paese dal buco nero in cui sta velocemente affondando richiederà un'energia politica straordinaria, che coincide con un'altrettanto straordinaria mobilitazione morale e culturale: con la necessità di ripensare alle radici un modello economico e sociale alternativo tanto al neo-liberismo fallito quanto al keynesismo social-democratico estinto col Novecento e, contemporaneamente, di rianimare un'idea di democrazia capace di sopravvivere alla crisi dei suoi tradizionali soggetti politici e alle troppe tentazioni presidenzialiste che emergono dal brodo tossico della personalizzazione della politica.
Tanto vale incominciare subito, chiamando a raccolta le migliori risorse intellettuali, morali e sociali, a cominciare da quelle che Landini ha portato in piazza sabato scorso a Roma. Senza più deleghe. Né dilazioni.
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