G. Della Casa e S. Mucci intervistano Luciano Vasapollo* - sinistrainrete -
Governo Letta:"Il ritorno della balena bianca"
Il governo Letta si è definitivamente insediato. Rispetto al governo Monti, di cui lei parla nel libro “Il risveglio dei maiali - PIIGS” e nel libro “Se cento giorni di Monti vi sembrano pochi”, c’è continuità o discontinuità?
“Non c’è assolutamente alcuna discontinuità, è la politica che sta imponendo la Banca Centrale Europea. Questo si può notare anche dalle politiche socio-economiche e dalle scelte operative conseguenti applicate nei mesi appena trascorsi. Di solito, quando un paese è instabile dal punto di vista della governabilità, la speculazione finanziaria lo attacca; ciò è avvenuto con la Spagna, con la Grecia, con l’Irlanda e il Portogallo. Durante questi due mesi di assenza completa dei governi in Italia, non c’è stato alcun attacco speculativo perché si è determinata una stabilità compatibile voluta e studiata a tavolino: ha continuato a governare l’esecutivo di Monti che ha applicato le politiche finanziarie, monetarie ed economiche di carattere neoliberiste volute dalla Banca Centrale Europea, dalla Troika quindi anche dal Fondo Monetario Internazionale e ovviamente dalla Commissione Europea. Parallelamente a questo si stava delineando il quadro necessario di maggiore stabilità in funzione di tale politica di austerità, che poi significa massacro sociale con un attacco senza precedenti al salario diretto, indiretto e differito. Abbiamo ora lo stesso Presidente della Repubblica di prima, con una forte attività decisionistica caratterizzata da cammino spedito verso la Repubblica presidenziale. C’è questo governo che chiamano delle larghe intese, del pensiero ed azione unica antipopolare, cioè l’ideale condizione politico-governativa del consenso sociale imposto antidemocraticamente per continuare le politiche socio-economiche restrittive di tagli indiscriminati alla spesa sociale da parte della Troika, in particolare verso i lavoratori dell’Europa mediterranea.
A me sembra di essere tornati a 30-40 anni fa: questo è un governo delle politiche care alla vecchia, e nuova, Democrazia Cristiana. Nella migliore delle ipotesi i Berlusconiani di centrodestra sono gli Andreottiani e i Craxiani di una volta, ma anche nel PD prevale la componente ex democristiana del partito cattolico neoliberista, clientelare ma con apparenti preoccupazioni sociali a cui si finge di dar risposta. La composizione dei sotto-segretari di governo denota un equilibrismo incredibile di andreottiana memoria.
È possibile che si torni a 30-40 anni fa? Sì, è possibile nel momento in cui ci ritroviamo al “ritorno della Balena Bianca”, ossia della Democrazia Cristiana in versione del ventunesimo secolo e in piena crisi sistemica economica e politica ma soprattutto di civiltà. E così noi , i lavoratori tutti, veniamo costretti sulla difensiva e a rivendicare il duro e parziale mantenimento di alcuni diritti che ormai erano assodati e consolidati ed erano stati conquistati con il sangue del movimento operaio, diritti che adesso vengono invece espropriati in maniera violenta senza alcun rispetto delle stesse regole democratiche del confronto degli interessi reali e contrapposti in campo. Gli attacchi sono mirati ad avere sempre più profitto, sempre più rendite e abbassare il costo del lavoro, per accrescere il potere economico della Germania e dei grandi potentati europei, e della vita dei lavoratori e dei loro diritti si fa carta straccia.”
“Non c’è assolutamente alcuna discontinuità, è la politica che sta imponendo la Banca Centrale Europea. Questo si può notare anche dalle politiche socio-economiche e dalle scelte operative conseguenti applicate nei mesi appena trascorsi. Di solito, quando un paese è instabile dal punto di vista della governabilità, la speculazione finanziaria lo attacca; ciò è avvenuto con la Spagna, con la Grecia, con l’Irlanda e il Portogallo. Durante questi due mesi di assenza completa dei governi in Italia, non c’è stato alcun attacco speculativo perché si è determinata una stabilità compatibile voluta e studiata a tavolino: ha continuato a governare l’esecutivo di Monti che ha applicato le politiche finanziarie, monetarie ed economiche di carattere neoliberiste volute dalla Banca Centrale Europea, dalla Troika quindi anche dal Fondo Monetario Internazionale e ovviamente dalla Commissione Europea. Parallelamente a questo si stava delineando il quadro necessario di maggiore stabilità in funzione di tale politica di austerità, che poi significa massacro sociale con un attacco senza precedenti al salario diretto, indiretto e differito. Abbiamo ora lo stesso Presidente della Repubblica di prima, con una forte attività decisionistica caratterizzata da cammino spedito verso la Repubblica presidenziale. C’è questo governo che chiamano delle larghe intese, del pensiero ed azione unica antipopolare, cioè l’ideale condizione politico-governativa del consenso sociale imposto antidemocraticamente per continuare le politiche socio-economiche restrittive di tagli indiscriminati alla spesa sociale da parte della Troika, in particolare verso i lavoratori dell’Europa mediterranea.
A me sembra di essere tornati a 30-40 anni fa: questo è un governo delle politiche care alla vecchia, e nuova, Democrazia Cristiana. Nella migliore delle ipotesi i Berlusconiani di centrodestra sono gli Andreottiani e i Craxiani di una volta, ma anche nel PD prevale la componente ex democristiana del partito cattolico neoliberista, clientelare ma con apparenti preoccupazioni sociali a cui si finge di dar risposta. La composizione dei sotto-segretari di governo denota un equilibrismo incredibile di andreottiana memoria.
È possibile che si torni a 30-40 anni fa? Sì, è possibile nel momento in cui ci ritroviamo al “ritorno della Balena Bianca”, ossia della Democrazia Cristiana in versione del ventunesimo secolo e in piena crisi sistemica economica e politica ma soprattutto di civiltà. E così noi , i lavoratori tutti, veniamo costretti sulla difensiva e a rivendicare il duro e parziale mantenimento di alcuni diritti che ormai erano assodati e consolidati ed erano stati conquistati con il sangue del movimento operaio, diritti che adesso vengono invece espropriati in maniera violenta senza alcun rispetto delle stesse regole democratiche del confronto degli interessi reali e contrapposti in campo. Gli attacchi sono mirati ad avere sempre più profitto, sempre più rendite e abbassare il costo del lavoro, per accrescere il potere economico della Germania e dei grandi potentati europei, e della vita dei lavoratori e dei loro diritti si fa carta straccia.”
Tra revisione dell’Imu, abolizione dell'aumento dell'Iva, soluzione del problema degli esodati e introduzione di un reddito minimo, le promesse di Letta richiederebbero tra i 10 e i 30 miliardi secondo diverse stime. Da dove verranno presi questi soldi? Soliti tagli alla spesa pubblica, sanità ed istruzione?
“Questo governo apparentemente dovrà far vedere che propone la realizzazione anche di politiche sociali perché la gente non ce la fa più, ormai non c’è speranza di futuro per i giovani; non si parla di precarietà del lavoro, è precarietà della vita. Per non parlare di come vivono gli immigrati nel nostro paese, in condizioni disagiate, di miseria e repressione. Ormai disoccupazione e precarietà sono questioni che toccano drammaticamente persone adulte e non solo i giovani. Si parla di suicidi e di atti di follia, ma la gente non diventa improvvisamente pazza; ci si ritrova a 50 anni con due o tre figli senza sapere cosa dargli da mangiare, come pagare l’affitto o il mutuo della casa, una vita da buttare senza un futuro, perché riproporsi sul mondo del lavoro dopo un licenziamento a quell’età è di una difficoltà incredibile.
I politici hanno paura che la profondissima crisi economica e sociale possa portare ad un antagonismo duro, ad un conflitto forte che coinvolga sempre più ampi settori della società: per questo fanno proposte anche a carattere apparentemente di protezione sociale per tentare di placare la rabbia popolare, si teme la rivolta collettiva e non più il gesto individuale di un disperato.
Si parla allora di reddito garantito, di nuovi ammortizzatori sociali, ma non saranno politiche sociali rivolte al welfare universalistico quanto piuttosto a un “welfare dei miserabili”; è finita la fase del capitalismo moderato e keynesiano, non ci sono più i margini di profittabilità che permettano al capitale una politica seppur minimamente redistributiva.
Una parte misera, più che povera, della società beneficerà di provvedimenti di qualche centinaio di euro. Ma i soldi pubblici delle nostre tasse continueranno ad andare alle banche e alle imprese, non alle politiche per uno Stato sociale allargato. I tagli saranno per l’ennesima volta proprio sul welfare universalistico, quindi su istruzione, scuola, università, sanità, pensioni, edilizia pubblica, ammortizzatori sociali del lavoro ad ampia protezione.
I tagli che vengono e verranno sempre più effettuati riguarderanno la spesa sociale, ma non la spesa pubblica complessiva. La spesa sociale è una parte minima della spessa pubblica; quest’ultima comprende anche le spese militari e tutta una parte di flussi di denaro proveniente dalle nostre tasse e che va a finire al sistema bancario ed al sistema d’impresa in forma di defiscalizzazioni, di incentivi, di voluta e favorita evasione ed elusione fiscale.
Il governo dei tecnici di Monti aveva come obiettivo quello della riduzione del deficit e del rapporto debito pubblico/pil, ciò ovviamente per mantenere un livello alto di competitività internazionale della Germania; e per favorire tale ruolo e funzione del capitalismo a guida tedesca, occorre che alcuni paesi si sacrifichino. Questi sono i cosiddetti PIIGS, acronimo che sta per Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna, ma che vuol dire anche maiali: è questo il nuovo termine offensivo utilizzato per indicare le vittime di un processo di ristrutturazione capitalistico, così come “terroni” o “mangia terra” erano i lavoratori migranti del Sud che dovevano garantire lo sviluppo del “miracolo economico italiano” .
È stato tagliato dal governo Monti lo Stato sociale ed il rapporto debito/pil è aumentato: dove vanno a finire i soldi delle nostre tasse e imposte? Vanno con flussi enormi a chi ha determinato questa crisi, cioè al sistema bancario e finanziario. È come se avessimo davanti a noi un boia che ci mette il cappio al collo e invece di combatterlo duramente per imporgli di smetterla lo alimentassimo affinché continui a farlo fino a farci morire impiccati: le banche ci hanno distrutto la capacità di acquisto reale e di vita e lo Stato continua a dare i soldi alla speculazione finanziaria e delle banche e non a redistribuire al lavoro, al lavoro negato per rendere il maltolto a chi la ricchezza sociale davvero l’ha creata con il proprio sangue e sudore.
Ancora nei prossimi mesi, con la scusa della competitività internazionale continuerà ad andare denaro ai grandi potentati economici, in particolare a quelli del sistema bancario e finanziario.
Inoltre si delinea una lotta per diminuire il potere salariale d’acquisto dei lavoratori e quindi anche il potere che i lavoratori possono avere nella società: questo perché pensano che un lavoratore costretto alla miseria, alla precarietà, a non avere casa, possa essere meno conflittuale avendo come priorità la sopravvivenza.
Però qual è il limite di questa politica? Che la gente potrebbe non farcela più. E quindi le reazioni sociali collettive potrebbe andare fuori controllo.
Ma il movimento dei lavoratori, dei migranti, dei precari deve difendersi e realizzare lotte incisive. Oggi dobbiamo avere il coraggio politico di riproporre lotte avanzate non solo sul terreno della redistribuzione del reddito ma su quello socialmente più incisivo e dirompente della redistribuzione sociale realizzata; per esempio riproporre la riduzione dell’orario di lavoro, la lotta contro la disoccupazione, la lotto contro la precarietà, la lotta per l’edilizia pubblica per permettere ai giovani di avere una casa. Riaffermare con forza i diritti dei soggetti di classe del lavoro e del lavoro negato per una inversione totale dei rapporti di forza nel conflitto capitale-lavoro. ”
Come vede l’introduzione di un reddito minimo garantito e in quale forma pensa sarebbe più efficace introdurlo?
“Ci sono due scuole sul reddito sociale o reddito di cittadinanza, che dir si voglia. Noi come Cestes nel 1995 abbiamo iniziato a studiare e diffondere attraverso convegni e libri, stimolando soprattutto un forte movimento d’opinione e di lotta, una legge di iniziativa popolare da portare in parlamento per la discussione di un reddito sociale. Sono state presentate 63 mila firme a fronte delle 50 mila necessarie: proposta di legge che in 18 anni nessuna commissione né di centrodestra né di centrosinistra ha mai discusso, anche se l’abbiamo riproposta anche attraverso alcuni parlamentari nei primi anni del duemila.
Noi che abbiamo una mentalità più lavorista, quindi indirizzata alle dinamiche del conflitto capitale-lavoro, diciamo che deve trattarsi di un reddito da intendersi non come vitalizio ma come un reale ed efficace ammortizzatore sociale, cioè non deve evitare l’assunzione, l’avviamento ad un lavoro a pieni diritti e pieno salario, ma intervenire momentaneamente poiché l’obiettivo della classe degli sfruttati l’abbattimento della precarietà e della disoccupazione.
Nei periodi in cui sei disoccupato, in cassa integrazione o precario, lo Stato si preoccupa di fornirti ad esempio 1000-1200 euro al mese esentasse, ovvero un minimo stabilito come necessario per vivere dignitosamente. Se sei disoccupato ti fornisce la totalità della somma stabilita; nel momento in cui si dimostri che il reddito da lavoro ad esempio è 400 euro al mese, ti dà gli altri 800. Qualcuno obietta che in questo modo potrebbe approfittarsene chi non ha voglia di lavorare. La nostra proposta infatti prevede che sia necessario dimostrare di essere disoccupati ed in cerca di un posto di lavoro, e se viene proposta un’occasione occupazionale a pieno salario e con pieni diritti bisogna accettarla, pena la decadenza del diritto al reddito sociale; nel tempo in cui percepisci il reddito sociale sei anche obbligato a seguire corsi di formazione che lo Stato e le regioni ti garantiscono per reinserirti nel mondo attivo del lavoro.
Quelli che parlano di reddito vitalizio o reddito di sussistenza dal momento della nascita fino alla morte non si rendono conto che questa è una proposta totalmente neoliberista, propria dell'ideologia originaria Thatcheriana e Reaganiana, portata avanti dagli economisti neoliberisti a guida “scuola dei Chicago boys”: lo Stato ti dà mille euro fin dal giorno in cui nasci e ti lascia sprovvisto di garanzie sociali per tutta la vita. Tutto il resto, il problema dell’istruzione, della sanità, della pensione, te lo devi risolvere da solo, nessun intervento pubblico in tale direzione, sia se sei occupato o disoccupato o che hai un cattivissimo contratto di lavoro precario. Questo tipo di reddito di cittadinanza dalla nascita alla morte, che viene spesso proposto oggi, nasce da una filosofia diversa dalla nostra: è un imbroglio dietro il quale si nasconde un mercato selvaggio in cui gli spiriti animali si sbranano, poiché lo Stato con quel tipo di reddito si scarica di ogni responsabilità con un semplice assegno vitalizio e lascia che le sorti dei cittadini lavoratori siano in mano alle ferree leggi selvagge di mercato .Quindi la proposta diventa di destra, liberista, nel momento in cui lo Stato ti dà una sorta di beneficenza e poi non si occupa più di te, dei tuoi bisogni sociali.
Noi invece, nel difendere e proporre un rafforzamento di un welfare universale, cioè per tutti, inseriamo la proposta del reddito sociale per colmare la carenza di potere d’acquisto con la redistribuzione della ricchezza sociale, recuperando le risorse necessarie a tal fine da una seria lotta all’evasione totale, ad una adeguata ed incisiva tassazione di tutti i capitali, a partire ovviamente dai movimenti internazionali dei capitali speculativi, etc; solo così si possono rafforzare percorsi di lotta per ottenere un lavoro degno di questo nome a pieni diritti e a pieno salario, in una nuova stagione di protagonismo nelle lotte dei movimenti sindacali di classe, dei soggetti del lavoro e del lavoro negato e del non lavoro, dagli occupati, ai precari, alla disperazione dei tanti disoccupati e pensionati a basso reddito, ai migranti.”
Un giovane al giorno d'oggi a cosa deve aspirare? Qual è l'idea alla quale puntare? Un sistema di welfare alla scandinava sarebbe sufficiente o verrebbe comunque fagocitato dal sistema capitalistico?
“Ovviamente qui subentra l'appartenenza ideologica. Io sono un marxista, che aspira a fare un lavoro di teoria e di lotta che possa costruire la prospettiva del socialismo. Dire che domani non ci sarà il socialismo significa sostenere che alle condizioni attuali, se non si determinano nuovi rapporti di forza, non vedremo il sol dell'avvenire.
Il problema resta la relazione tra tattiche e strategia. Non mi impressiona parlare di welfare alla scandinava o di un nuovo modello di occupazione; ma queste conquiste derivano da elargizioni caritatevoli o dalla lotta per trasformare radicalmente il sistema e quindi la società? Io penso che è la lotta che crea protagonismo sociale, che abitua ad avere relazioni sociali e a diventare un'identità non individuale ma collettiva. Se la rivendicazione tattica del momento è inquadrata in una prospettiva più o meno lunga di superamento del modo di produzione capitalistico, significa che non sei compatibile col capitalismo. Ma quando la lotta rivendicativa da tattica diventa strategia, come è accaduto per la maggior parte dei partiti di sinistra d'Europa, che hanno abbandonato l'orizzonte dell’abbattimento del capitalismo e quello del socialismo, allora costruire e vivere nel capitalismo più morbido e sociale, diventa la prospettiva strategica; dunque i partiti da comunisti e socialisti, pronti a tutelare gli interessi di classe, si trasformano in forze che sono certamente più o meno democratiche o progressiste, ma comunque compatibili con questo sistema.
Alla domanda “Cosa deve fare un ragazzo?” la mia risposta è: deve lottare per uscire dall'individualismo e porsi come soggetto politico collettivo protagonista della trasformazione sociale radicale, quindi rivoluzionaria. Ciò significa sentirsi appartenente a una classe, la classe che ha i suoi stessi interessi. È vero che ci sono varie classi, ma la differenza è questa: appartieni a coloro che detengono i mezzi di produzione, e dunque sei uno sfruttatore, o sei lo sfruttato? Lo sfruttato può essere il disoccupato o il contadino, ma al giorno d'oggi l'impiegato o anche il funzionario che guadagna 2000 euro e ne paga 1200 di mutuo è un capitalista, è un ricco?
Di tempi per il superamento del capitalismo non so indicarne: dipendono dai rapporti di forza che si realizzano nel conflitto sociale, nel generale conflitto capitale-lavoro.”
Ancora 40 anni fa andare nelle piazze o in fabbrica a parlare di rivoluzione poteva suscitare speranza nelle persone, poteva dar modo ai lavoratori di spaziare nel mondo e di provare a cambiarlo. Al giorno d'oggi, invece, il superamento del capitalismo e il socialismo sembrano prospettive difficilmente praticabili: se si andasse in un'assemblea di lavoratori a parlare di Marx, si rischierebbero i fischi. Secondo lei, il superamento del capitalismo e il socialismo sono prospettive ormai impossibili per l'occidente o c'è una speranza che possano avverarsi, al di là dei tempi che questo possa richiedere?
“In primo luogo, la concezione che io ho della storia è quella del materialismo storico. Secondo questa prospettiva, occorre sempre considerare la relazione di forza nel conflitto fra le classi. La storia scorre nella lotta fra le classi: in questo senso non è lineare. Quindi, dire che si rinuncia all'orizzonte del socialismo è follia. Oggi io lavoro per questa prospettiva socialista e riesco a conquistare piccoli spazi – meno di quelli che vorrei; ma la storia è fatta di salti, di rotture. Chi ci dice che il capitalismo è l'ultimo orizzonte dell'umanità è fuori dalla storia, perché non si rende conto che i periodi storici sono fatti da contraddizioni, che mettono in moto alternative che possono radicalizzarsi e cambiare i contesti. Dunque il fatto che oggi ci si ritenga in arretratezza nello scontro e sconfitti non vuol dire niente; la domanda che io pongo è questa: è stato mai facile per i comunisti e per i socialisti modificare i rapporti di forza? Mai. Sotto il fascismo i militanti del Partito Comunista Italiano erano poche centinaia, il PCI non era un partito di massa e non aveva nessuna possibilità di conquistare il potere, un partito sul quale possiamo discutere, ma che è arrivato al 30-35% dei voti. Per fare un esempio più vicino a me, 10 anni fa' qualcuno poteva pensare che un cocalero, cioè uno dei leader sindacali dei lavoratori più oppressi, e un aymara, ovvero un membro della maggioranza della popolazione originaria, oppressa da 500 anni dall'oligarchia bianca, sarebbe diventato per la prima volta presidente della Bolivia e primo presidente indigeno nel mondo?
Ricordo le elezioni del 1999, Evo Morales si presenta dopo le battaglie dei cocaleros: prende pochissimi voti, poi viene eletto deputato. Successivamente viene espulso dal parlamento perché accusato di essere un narcotrafficante, tutto ciò a causa dell'ignoranza strumentale che non vuole distinguere la coca dalla cocaina e i cocaleros dai narcotrafficanti.
Successivamente avviene qualcosa di particolare in Bolivia. L'acqua viene privatizzata: nella cultura andina, non religiosa ma spirituale, l'acqua è vista come componente centrale della natura, di Pacha Mama, della Madre Terra. La privatizzazione dell'acqua porta in piazza milioni di militanti di movimenti tra loro diversi. Come risponde il regime cosiddetto democratico? Sparando in piazza: in una manifestazione ci sono 60 morti, in un'altra 26. Questo dà forza a movimenti di poche centinaia di persone che prima avevano difficoltà ad unirsi. Evo Morales si presenta di nuovo alle elezioni nel 2005 e le vince con il 54% dei voti, nel dicembre 2009 le rivince col 64%.
La domanda che andrebbe posta a Evo Morales è questa: dieci anni fa' avresti mai pensato di governare il paese? Avresti creduto che gli aymara l'avrebbero governato? Noi pensavamo che avrebbero potuto farlo tra 500 anni, ma la storia non è andata in questo modo.
Insomma, qual è il nostro obiettivo? Disperarsi perché non ci sono le condizioni per realizzare il socialismo e stare a casa a non far nulla o metterci in gioco ed essere soggetti storici della trasformazione per il superamento del capitalismo, contribuendo a creare le condizioni anche qui ed ora di lotta per la costruzione di un’ALBA Euro-Afro-Mediterranea e quindi per percorsi di transizione al Socialismo nel e per il XXI secolo?”
È stato tagliato dal governo Monti lo Stato sociale ed il rapporto debito/pil è aumentato: dove vanno a finire i soldi delle nostre tasse e imposte? Vanno con flussi enormi a chi ha determinato questa crisi, cioè al sistema bancario e finanziario. È come se avessimo davanti a noi un boia che ci mette il cappio al collo e invece di combatterlo duramente per imporgli di smetterla lo alimentassimo affinché continui a farlo fino a farci morire impiccati: le banche ci hanno distrutto la capacità di acquisto reale e di vita e lo Stato continua a dare i soldi alla speculazione finanziaria e delle banche e non a redistribuire al lavoro, al lavoro negato per rendere il maltolto a chi la ricchezza sociale davvero l’ha creata con il proprio sangue e sudore.
Ancora nei prossimi mesi, con la scusa della competitività internazionale continuerà ad andare denaro ai grandi potentati economici, in particolare a quelli del sistema bancario e finanziario.
Inoltre si delinea una lotta per diminuire il potere salariale d’acquisto dei lavoratori e quindi anche il potere che i lavoratori possono avere nella società: questo perché pensano che un lavoratore costretto alla miseria, alla precarietà, a non avere casa, possa essere meno conflittuale avendo come priorità la sopravvivenza.
Però qual è il limite di questa politica? Che la gente potrebbe non farcela più. E quindi le reazioni sociali collettive potrebbe andare fuori controllo.
Ma il movimento dei lavoratori, dei migranti, dei precari deve difendersi e realizzare lotte incisive. Oggi dobbiamo avere il coraggio politico di riproporre lotte avanzate non solo sul terreno della redistribuzione del reddito ma su quello socialmente più incisivo e dirompente della redistribuzione sociale realizzata; per esempio riproporre la riduzione dell’orario di lavoro, la lotta contro la disoccupazione, la lotto contro la precarietà, la lotta per l’edilizia pubblica per permettere ai giovani di avere una casa. Riaffermare con forza i diritti dei soggetti di classe del lavoro e del lavoro negato per una inversione totale dei rapporti di forza nel conflitto capitale-lavoro. ”
Come vede l’introduzione di un reddito minimo garantito e in quale forma pensa sarebbe più efficace introdurlo?
“Ci sono due scuole sul reddito sociale o reddito di cittadinanza, che dir si voglia. Noi come Cestes nel 1995 abbiamo iniziato a studiare e diffondere attraverso convegni e libri, stimolando soprattutto un forte movimento d’opinione e di lotta, una legge di iniziativa popolare da portare in parlamento per la discussione di un reddito sociale. Sono state presentate 63 mila firme a fronte delle 50 mila necessarie: proposta di legge che in 18 anni nessuna commissione né di centrodestra né di centrosinistra ha mai discusso, anche se l’abbiamo riproposta anche attraverso alcuni parlamentari nei primi anni del duemila.
Noi che abbiamo una mentalità più lavorista, quindi indirizzata alle dinamiche del conflitto capitale-lavoro, diciamo che deve trattarsi di un reddito da intendersi non come vitalizio ma come un reale ed efficace ammortizzatore sociale, cioè non deve evitare l’assunzione, l’avviamento ad un lavoro a pieni diritti e pieno salario, ma intervenire momentaneamente poiché l’obiettivo della classe degli sfruttati l’abbattimento della precarietà e della disoccupazione.
Nei periodi in cui sei disoccupato, in cassa integrazione o precario, lo Stato si preoccupa di fornirti ad esempio 1000-1200 euro al mese esentasse, ovvero un minimo stabilito come necessario per vivere dignitosamente. Se sei disoccupato ti fornisce la totalità della somma stabilita; nel momento in cui si dimostri che il reddito da lavoro ad esempio è 400 euro al mese, ti dà gli altri 800. Qualcuno obietta che in questo modo potrebbe approfittarsene chi non ha voglia di lavorare. La nostra proposta infatti prevede che sia necessario dimostrare di essere disoccupati ed in cerca di un posto di lavoro, e se viene proposta un’occasione occupazionale a pieno salario e con pieni diritti bisogna accettarla, pena la decadenza del diritto al reddito sociale; nel tempo in cui percepisci il reddito sociale sei anche obbligato a seguire corsi di formazione che lo Stato e le regioni ti garantiscono per reinserirti nel mondo attivo del lavoro.
Quelli che parlano di reddito vitalizio o reddito di sussistenza dal momento della nascita fino alla morte non si rendono conto che questa è una proposta totalmente neoliberista, propria dell'ideologia originaria Thatcheriana e Reaganiana, portata avanti dagli economisti neoliberisti a guida “scuola dei Chicago boys”: lo Stato ti dà mille euro fin dal giorno in cui nasci e ti lascia sprovvisto di garanzie sociali per tutta la vita. Tutto il resto, il problema dell’istruzione, della sanità, della pensione, te lo devi risolvere da solo, nessun intervento pubblico in tale direzione, sia se sei occupato o disoccupato o che hai un cattivissimo contratto di lavoro precario. Questo tipo di reddito di cittadinanza dalla nascita alla morte, che viene spesso proposto oggi, nasce da una filosofia diversa dalla nostra: è un imbroglio dietro il quale si nasconde un mercato selvaggio in cui gli spiriti animali si sbranano, poiché lo Stato con quel tipo di reddito si scarica di ogni responsabilità con un semplice assegno vitalizio e lascia che le sorti dei cittadini lavoratori siano in mano alle ferree leggi selvagge di mercato .Quindi la proposta diventa di destra, liberista, nel momento in cui lo Stato ti dà una sorta di beneficenza e poi non si occupa più di te, dei tuoi bisogni sociali.
Noi invece, nel difendere e proporre un rafforzamento di un welfare universale, cioè per tutti, inseriamo la proposta del reddito sociale per colmare la carenza di potere d’acquisto con la redistribuzione della ricchezza sociale, recuperando le risorse necessarie a tal fine da una seria lotta all’evasione totale, ad una adeguata ed incisiva tassazione di tutti i capitali, a partire ovviamente dai movimenti internazionali dei capitali speculativi, etc; solo così si possono rafforzare percorsi di lotta per ottenere un lavoro degno di questo nome a pieni diritti e a pieno salario, in una nuova stagione di protagonismo nelle lotte dei movimenti sindacali di classe, dei soggetti del lavoro e del lavoro negato e del non lavoro, dagli occupati, ai precari, alla disperazione dei tanti disoccupati e pensionati a basso reddito, ai migranti.”
Dalla barbarie del capitalismo ai percorsi di transizione al socialismo nel e per il XXI secolo
Si parla spesso del ruolo di istituzioni quali la BCE o il gruppo Bilderberg nella politica degli Stati. Pensa che tesi simili possano essere valutate come complottiste o crede che certe istituzioni limitino realmente la nostra sovranità?
“Il vero complotto che c’è dietro tutto questo è il modo di produzione capitalista. Non è il complotto di una multinazionale in particolare. Certo nelle contraddizioni che creano la crisi del capitalismo si infila a maggior ragione l’apparato finanziario e bancario, o anche produttivo, di una multinazionale per poterne tirar fuori delle super rendite e dei super profitti.
Ma più che vedere chi guadagna dalla crisi dovremmo vedere perché essa nasce. Quella attuale è una crisi sistemica completamente differente da quelle congiunturali precedenti.
Il capitalismo, per ripristinare e valorizzare il ciclo produttivo al tasso di profitto desiderato, deve distruggere le forze produttive in eccesso. Si distruggono capitali: fusioni, accorpamenti di imprese, imprese maggiori che inglobano imprese più piccole, concentrazioni, privatizzazioni, esternalizzazioni, tutti processi che nel complesso incidono sulla riduzione della forza lavoro attiva e che significano licenziamenti e precarietà del lavoro. E di conseguenza si abbatte il costo quindi dell’altra forza produttiva, la forza lavoro: con l’uso razzista dell’immigrazione in termini quasi ricattatori, con la precarietà, con una disoccupazione che diventa strutturale.
Nel 1929 entrò in crisi l’intero modello produttivo: come se ne uscì? Con la produzione di massa del sistema fordista-taylorista; con l’utilizzo come forma energetica portante del petrolio; con il Keynesismo, che non è una politica alternativa al capitalismo, quanto piuttosto una forma di sostenimento della domanda pubblica ai fini della ripresa capitalistica. Anche se poi la crisi del ‘29 più che con quei metodi si risolse con la guerra mondiale.
L’attuale crisi non vede al momento una nuova tipologia di accumulazione, non c’è un nuovo fordismo da proporre, non c’è una nuova fonte energetica centrale, non c’è un nuovo modello a cui può puntare il capitalismo per poter rilanciare il suo processo d’accumulazione. Quindi il capitale internazionale ha solo due strade. Una è la finanziarizzazione dell’economia, che è stata provata, ma che produce bolle speculative che prima o poi scoppiano: il prezzo di un appartamento può crescere molto ma se nessuno lo compra prima o poi dovrà crollare, così come un titolo azionario può crescere ma se il valore dell’azione non corrisponde alla ricchezza reale dell’azienda, poi finisce per scoppiare.
L’altro modo si basa su privatizzazioni, espulsione di forza lavoro, precarietà, attacco al salario diretto (stipendio), indiretto (Stato sociale) e differito (pensioni).
Per quanto conviveremo con questa situazione di crisi sistemica? Non lo so, la vita di un uomo è diversa e non commensurabile con un ciclo storico, le trasformazioni epocali non possono essere viste nei 70-80 anni di vita di una persona. Da quando venne messo in crisi il sistema feudale e nacquero le prime imprese capitalistiche, sono serviti 500 anni perché il capitalismo diventasse sistema. Dire che il capitalismo sia arrivato alla crisi definitiva non vuol dire che domani ci sarà il socialismo o un altro nuovo modello. Perché se di fronte alle condizioni oggettive di difficoltà non si determina una soggettività alternativa, la crisi può durare un anno, dieci anni, cinquecento anni. Dipende dalla coniugazione tra condizioni oggettive e condizioni soggettive. Oggi il capitalismo non ha una prospettiva per un nuovo modello d’accumulazione, ma domani però non ci sarà il socialismo. E’ una questione di coniugazione dell’oggettività della crisi con i rapporti di forza che una soggettività rivoluzionaria sa dirigere e attivare in maniera vincente nel conflitto contro la società del capitale, per il superamento del modo di produzione capitalistico.
La riproposizione della conflittualità capitale-lavoro diventa comunque determinante. La storia che si determina attraverso lo scontro tra classi: il capitale che estorce pluslavoro dai lavoratori e i lavoratori che devono difendere la propria condizione di vita. Poi ci sarà chi ne beneficerà di più e chi meno, ma il fulcro vero è il conflitto capitale-lavoro.”
Ma più che vedere chi guadagna dalla crisi dovremmo vedere perché essa nasce. Quella attuale è una crisi sistemica completamente differente da quelle congiunturali precedenti.
Il capitalismo, per ripristinare e valorizzare il ciclo produttivo al tasso di profitto desiderato, deve distruggere le forze produttive in eccesso. Si distruggono capitali: fusioni, accorpamenti di imprese, imprese maggiori che inglobano imprese più piccole, concentrazioni, privatizzazioni, esternalizzazioni, tutti processi che nel complesso incidono sulla riduzione della forza lavoro attiva e che significano licenziamenti e precarietà del lavoro. E di conseguenza si abbatte il costo quindi dell’altra forza produttiva, la forza lavoro: con l’uso razzista dell’immigrazione in termini quasi ricattatori, con la precarietà, con una disoccupazione che diventa strutturale.
Nel 1929 entrò in crisi l’intero modello produttivo: come se ne uscì? Con la produzione di massa del sistema fordista-taylorista; con l’utilizzo come forma energetica portante del petrolio; con il Keynesismo, che non è una politica alternativa al capitalismo, quanto piuttosto una forma di sostenimento della domanda pubblica ai fini della ripresa capitalistica. Anche se poi la crisi del ‘29 più che con quei metodi si risolse con la guerra mondiale.
L’attuale crisi non vede al momento una nuova tipologia di accumulazione, non c’è un nuovo fordismo da proporre, non c’è una nuova fonte energetica centrale, non c’è un nuovo modello a cui può puntare il capitalismo per poter rilanciare il suo processo d’accumulazione. Quindi il capitale internazionale ha solo due strade. Una è la finanziarizzazione dell’economia, che è stata provata, ma che produce bolle speculative che prima o poi scoppiano: il prezzo di un appartamento può crescere molto ma se nessuno lo compra prima o poi dovrà crollare, così come un titolo azionario può crescere ma se il valore dell’azione non corrisponde alla ricchezza reale dell’azienda, poi finisce per scoppiare.
L’altro modo si basa su privatizzazioni, espulsione di forza lavoro, precarietà, attacco al salario diretto (stipendio), indiretto (Stato sociale) e differito (pensioni).
Per quanto conviveremo con questa situazione di crisi sistemica? Non lo so, la vita di un uomo è diversa e non commensurabile con un ciclo storico, le trasformazioni epocali non possono essere viste nei 70-80 anni di vita di una persona. Da quando venne messo in crisi il sistema feudale e nacquero le prime imprese capitalistiche, sono serviti 500 anni perché il capitalismo diventasse sistema. Dire che il capitalismo sia arrivato alla crisi definitiva non vuol dire che domani ci sarà il socialismo o un altro nuovo modello. Perché se di fronte alle condizioni oggettive di difficoltà non si determina una soggettività alternativa, la crisi può durare un anno, dieci anni, cinquecento anni. Dipende dalla coniugazione tra condizioni oggettive e condizioni soggettive. Oggi il capitalismo non ha una prospettiva per un nuovo modello d’accumulazione, ma domani però non ci sarà il socialismo. E’ una questione di coniugazione dell’oggettività della crisi con i rapporti di forza che una soggettività rivoluzionaria sa dirigere e attivare in maniera vincente nel conflitto contro la società del capitale, per il superamento del modo di produzione capitalistico.
La riproposizione della conflittualità capitale-lavoro diventa comunque determinante. La storia che si determina attraverso lo scontro tra classi: il capitale che estorce pluslavoro dai lavoratori e i lavoratori che devono difendere la propria condizione di vita. Poi ci sarà chi ne beneficerà di più e chi meno, ma il fulcro vero è il conflitto capitale-lavoro.”
Un giovane al giorno d'oggi a cosa deve aspirare? Qual è l'idea alla quale puntare? Un sistema di welfare alla scandinava sarebbe sufficiente o verrebbe comunque fagocitato dal sistema capitalistico?
“Ovviamente qui subentra l'appartenenza ideologica. Io sono un marxista, che aspira a fare un lavoro di teoria e di lotta che possa costruire la prospettiva del socialismo. Dire che domani non ci sarà il socialismo significa sostenere che alle condizioni attuali, se non si determinano nuovi rapporti di forza, non vedremo il sol dell'avvenire.
Il problema resta la relazione tra tattiche e strategia. Non mi impressiona parlare di welfare alla scandinava o di un nuovo modello di occupazione; ma queste conquiste derivano da elargizioni caritatevoli o dalla lotta per trasformare radicalmente il sistema e quindi la società? Io penso che è la lotta che crea protagonismo sociale, che abitua ad avere relazioni sociali e a diventare un'identità non individuale ma collettiva. Se la rivendicazione tattica del momento è inquadrata in una prospettiva più o meno lunga di superamento del modo di produzione capitalistico, significa che non sei compatibile col capitalismo. Ma quando la lotta rivendicativa da tattica diventa strategia, come è accaduto per la maggior parte dei partiti di sinistra d'Europa, che hanno abbandonato l'orizzonte dell’abbattimento del capitalismo e quello del socialismo, allora costruire e vivere nel capitalismo più morbido e sociale, diventa la prospettiva strategica; dunque i partiti da comunisti e socialisti, pronti a tutelare gli interessi di classe, si trasformano in forze che sono certamente più o meno democratiche o progressiste, ma comunque compatibili con questo sistema.
Come abbiamo detto, il problema resta quello dei superamento o meno del capitalismo. Poi la tattica si fa in base ai rapporti di forza: per esempio, se sei forte rivendichi un salario sociale di 2000 euro, se invece sei debole arrivi a una mediazione e ti accontenti di 800 euro.
Alla domanda “Cosa deve fare un ragazzo?” la mia risposta è: deve lottare per uscire dall'individualismo e porsi come soggetto politico collettivo protagonista della trasformazione sociale radicale, quindi rivoluzionaria. Ciò significa sentirsi appartenente a una classe, la classe che ha i suoi stessi interessi. È vero che ci sono varie classi, ma la differenza è questa: appartieni a coloro che detengono i mezzi di produzione, e dunque sei uno sfruttatore, o sei lo sfruttato? Lo sfruttato può essere il disoccupato o il contadino, ma al giorno d'oggi l'impiegato o anche il funzionario che guadagna 2000 euro e ne paga 1200 di mutuo è un capitalista, è un ricco?
Ancora 40 anni fa andare nelle piazze o in fabbrica a parlare di rivoluzione poteva suscitare speranza nelle persone, poteva dar modo ai lavoratori di spaziare nel mondo e di provare a cambiarlo. Al giorno d'oggi, invece, il superamento del capitalismo e il socialismo sembrano prospettive difficilmente praticabili: se si andasse in un'assemblea di lavoratori a parlare di Marx, si rischierebbero i fischi. Secondo lei, il superamento del capitalismo e il socialismo sono prospettive ormai impossibili per l'occidente o c'è una speranza che possano avverarsi, al di là dei tempi che questo possa richiedere?
“In primo luogo, la concezione che io ho della storia è quella del materialismo storico. Secondo questa prospettiva, occorre sempre considerare la relazione di forza nel conflitto fra le classi. La storia scorre nella lotta fra le classi: in questo senso non è lineare. Quindi, dire che si rinuncia all'orizzonte del socialismo è follia. Oggi io lavoro per questa prospettiva socialista e riesco a conquistare piccoli spazi – meno di quelli che vorrei; ma la storia è fatta di salti, di rotture. Chi ci dice che il capitalismo è l'ultimo orizzonte dell'umanità è fuori dalla storia, perché non si rende conto che i periodi storici sono fatti da contraddizioni, che mettono in moto alternative che possono radicalizzarsi e cambiare i contesti. Dunque il fatto che oggi ci si ritenga in arretratezza nello scontro e sconfitti non vuol dire niente; la domanda che io pongo è questa: è stato mai facile per i comunisti e per i socialisti modificare i rapporti di forza? Mai. Sotto il fascismo i militanti del Partito Comunista Italiano erano poche centinaia, il PCI non era un partito di massa e non aveva nessuna possibilità di conquistare il potere, un partito sul quale possiamo discutere, ma che è arrivato al 30-35% dei voti. Per fare un esempio più vicino a me, 10 anni fa' qualcuno poteva pensare che un cocalero, cioè uno dei leader sindacali dei lavoratori più oppressi, e un aymara, ovvero un membro della maggioranza della popolazione originaria, oppressa da 500 anni dall'oligarchia bianca, sarebbe diventato per la prima volta presidente della Bolivia e primo presidente indigeno nel mondo?
Ricordo le elezioni del 1999, Evo Morales si presenta dopo le battaglie dei cocaleros: prende pochissimi voti, poi viene eletto deputato. Successivamente viene espulso dal parlamento perché accusato di essere un narcotrafficante, tutto ciò a causa dell'ignoranza strumentale che non vuole distinguere la coca dalla cocaina e i cocaleros dai narcotrafficanti.
Successivamente avviene qualcosa di particolare in Bolivia. L'acqua viene privatizzata: nella cultura andina, non religiosa ma spirituale, l'acqua è vista come componente centrale della natura, di Pacha Mama, della Madre Terra. La privatizzazione dell'acqua porta in piazza milioni di militanti di movimenti tra loro diversi. Come risponde il regime cosiddetto democratico? Sparando in piazza: in una manifestazione ci sono 60 morti, in un'altra 26. Questo dà forza a movimenti di poche centinaia di persone che prima avevano difficoltà ad unirsi. Evo Morales si presenta di nuovo alle elezioni nel 2005 e le vince con il 54% dei voti, nel dicembre 2009 le rivince col 64%.
La domanda che andrebbe posta a Evo Morales è questa: dieci anni fa' avresti mai pensato di governare il paese? Avresti creduto che gli aymara l'avrebbero governato? Noi pensavamo che avrebbero potuto farlo tra 500 anni, ma la storia non è andata in questo modo.
Insomma, qual è il nostro obiettivo? Disperarsi perché non ci sono le condizioni per realizzare il socialismo e stare a casa a non far nulla o metterci in gioco ed essere soggetti storici della trasformazione per il superamento del capitalismo, contribuendo a creare le condizioni anche qui ed ora di lotta per la costruzione di un’ALBA Euro-Afro-Mediterranea e quindi per percorsi di transizione al Socialismo nel e per il XXI secolo?”
Nessun commento:
Posta un commento