di Davide Grasso - sinistrainrete -
Di fronte ad atti criminali quali le guerre cui l’Italia partecipa e ha partecipato, l’opposizione nel nostro paese c’è stata ora più ora meno, e non sempre ha saputo essere all’altezza nella critica all’intervento militare. Spesso il pacifismo ha rivelato caratteristiche ipocrite, se non addirittura razziste: popoli bambini, quelli delle regioni colpite dai bombardamenti, che avrebbero dovuto essere “diversamente educati” alla democrazia dalle istituzioni occidentali (o dai pacifisti stessi, se non altro tramite sprezzanti condanne delle loro forme di resistenza). L’ostilità alla guerra, inoltre, non è stata giustificata, sovente, politicamente e moralmente, come sarebbe giusto, ma giuridicamente (mancata sanzione dell’ONU, art. 11 della costituzione italiana), lasciando aperta la porta all’idea che l’azione dell’esercito, se portata avanti con tutti i crismi del diritto nazionale e internazionale, sarebbe stata legittima. In questo quadro l’unica vera forma di opposizione mondiale alla guerra permanente di Bush e soci/successori sono state e sono le resistenze delle popolazioni occupate che, partendo dall’esigenza materiale e concreta di resistere all’espropriazione economica, umana e politica di cui sono oggetto, agiscono con tutti i mezzi che hanno a disposizione.In oltre dieci anni, in quei paesi (senza che i nostri media si siano degnati di raccontarlo con un minimo di onestà, neanche quando le guerre facevano notizia) si sono svolte manifestazioni di dissenso all’occupazione militare dei territori in mille forme, per lo più pacifiche (preghiere, cortei, astensione dal voto, sabotaggi) ma anche violente (guerriglia, azioni armate). Il rifiuto dell’occupazione militare del proprio paese, la cui giustezza dovrebbe essere evidente a chiunque non professi una visione del mondo dove esistono naturali gerarchie tra popolazioni e aree del pianeta, ha assunto la forma del silenzio o delle grida, della poesia o della pittura, della diserzione e dell’infiltrazione, dei mitra e dell’esplosivo. Uno tra tanti episodi è stato, dieci anni fa, l’attacco contro un presidio militare italiano a Nassiriya, nel sud dell’Iraq, in cui – nell’esplosione di un’autocisterna imbottita di esplosivo, lanciata a tutta velocità contro la base – morirono 17 tra soldati italiani e carabinieri. Un atto legittimo, giacché una forza occupante non può pretendere di essere trattata con sentimenti di amicizia dalla popolazione sottomessa. Può sperarlo, nel suo ovvio interesse, ma non pretenderlo; e dato che con le armi l’occupante si è imposto, è del tutto normale che con le armi sia combattuto.
Nella celebrazione propagandistica dell’anniversario dell’attentato, le istituzioni italiane, che vollero contribuire all’occupazione degli USA in Iraq (e forniscono ancora uomini e mezzi all’occupazione dell’Afghanistan), hanno pianto i 17 morti, che sono da sempre nei loro discorsi i “martiri” e gli “eroi” di Nassiryya, vittime di un cieco e assurdo atto di violenza. Noi chiedemmo allora, e chiediamo ora: sono eroi, persone che imbracciano le armi contro popolazioni lontane, per il mero tornaconto economico personale? (Gli stipendi dei soldati impegnati all’estero sono d’oro, ed in questi giorni fa scandalo anche l’oro di cui sono fatte le loro pensioni, e i percorsi privilegiati per ottenerle). Come anche soltanto si possa pensarlo, è un mistero. Al contrario, ci sembrano persone che fanno una scelta orribile e spregevole. Che poi siano gli stati, le cui coalizioni militari hanno aggredito paesi stranieri con bombardamenti a tappeto, uso di armi non convenzionali, omicidi, stupri e torture in serie (uno su tutti: il “massacro dei ponti” del 6 aprile 2004 a Nassiryya, in cui i soldati italiani uccisero donne e bambini per puro divertimento), a recitare la parte degli esecratori della violenza, è semplicemente ridicolo.
Il piagnisteo di queste ore è stato reso ancora più patetico da un episodio, ossia l’intervento della deputata del M5S Emanuela Corda che, in parlamento, ha sostenuto che la pietà umana e il ricordo non andrebbero tributate soltanto ai 17 caduti italiani, ma anche all’attentatore, Abu al-Kacem abu Leile, che morì nell’esplosione da lui stesso provocata. Un intervento politicamente dubbio, giacché qui non è in gioco il sentimento umanitario indifferenziato, in base al quale, naturalmente, l’auspicio sarebbe che morti non ce ne fossero mai, da nessuna parte; qui si è trattato di un conflitto di tipo partigiano, dove un esercito che ha occupato un territorio è stato oggetto di atti di resistenza (i “partigiani” non sono necessariamente italiani, né necessariamente laici o comunisti: consultare il dizionario per credere). Appare scorretto rimuovere il contesto politico dell’episodio, e fare appello a una pietas indifferenziata che, più che umanità, cela ponziopilatismo morale o la semplice ritrosia ad analizzare il problema. L’interesse dell’intervento, nondimeno, era rappresentato dalla contraddizione che esso introduceva nel dibattito parlamentare e nell’atteggiamento delle istituzioni italiane di fronte all’episodio.
La reazione politica e giornalistica, senza sorprese, è stata feroce: la deputata è diventata una belva perversa, assetata di sangue italiano, pronta ad arruolarsi in una milizia islamica di tagliatori di teste. Nulla di strano: in un paese in cui tutta l’informazione nazionale, dal Giornale al Manifesto, ha sempre condannato, dall’invasione del 2003 in poi, le azioni di resistenza della guerriglia irachena, nulla c’è da stupirsi. Tanto più che l’Italia ha fatto la guerra in Iraq per interessi precisi, ed ora i pozzi petroliferi della zona di Nassiryya sono sfruttati dall’ENI; è questo che, dietro la facciata di non sanno neanche loro che cosa, i politici e i giornalisti italiani sanno di dover difendere (e nascondere). Quello che potrebbe sembrare strano, invece, è che, dopo soltanto 24 ore, Emanuela Corda non soltanto si sia scusata, abbia fatto ammenda pubblica e dichiarato al parlamento che non intendeva affatto giustificare l’orrendo atto dell’attentatore, ma abbia anche affermato che quest’ultimo era un plagiato e un ignorante, e che lei è contraria ad ogni forma di fondamentalismo e fanatismo di tipo religioso.
Poche idee, bisogna dirlo, e confuse. La religione non fu né lo scopo né la causa di quell’attentato. La questione non è mai stata, per questo marocchino e per il suo gruppo di supporto, imporre ai 17 soldati italiani la fede islamica; questo, si badi, non è anzi mai stato il motivo ispiratore delle azioni di guerriglia contro i soldati occidentali. Abu al-Kacem voleva uccidere i soldati italiani, in quanto nemici di guerra, non convertirli. Le motivazioni che hanno motivato la diffusa e prolungata resistenza irachena possono essere o meno condivise, ma sono palesi, e riconosciute in tutto il mondo; non nei paesi che hanno portato avanti l’occupazione militare, ma tant’è: in essi c’è, sul tema, un’evidente limitazione della libertà di espressione. Le fedi religiose – quella musulmana in questo caso – possono certo essere sprone all’azione e alla dedizione politica in contesti come questo, e ciò è tutto tranne che un mistero (soprattutto ai nostri tempi) ma questo non ne fa la causa, semmai lo sfondo o il contorno ideologico di atti che hanno una giustificazione politica del tutto indipendente.
Siamo noi i primi a ritenere di aver probabilmente poco a che spartire, culturalmente e politicamente, con i tanti militanti che hanno combattuto le occupazioni militari dell’Afghanistan o dell’Iraq; e dove portiamo avanti le nostre lotte, ci impegniamo in molti modi affinché le linee politiche che ispirano i movimenti contro le guerre siano di tutt’altro tenore. Questo, però, passa in secondo piano quando si tratta di comprendere gli eventi e prendere posizione sullo scenario globale; al di là delle lingue, dei costumi e dei credi religiosi che possono svilupparsi nei differenti contesti, crediamo sia giusto considerare gli oppressi di tutto il mondo, a partire dalle loro condizioni, una cosa sola. Si tratta di rivendicare la necessità, per tutti e ovunque nel mondo, di vivere liberi almeno dall’interferenza militare di paesi stranieri che, oltre ad essere per definizione violenta, è sempre interessata. Di questo, però, con Emanuela Corda, sarebbe inutile discutere: lei ha fatto ammenda con a fianco il deputato Cinque Stelle che siede in commissione difesa, che la controllava, a mo’ di patriottico gufo, parola per parola. Non si è minimamente chiesta, lei, se quello che diceva avesse un senso, se fosse giusto o sbagliato, e se dare dell’ignorante a qualcuno che non aveva mai conosciuto, ossia l’attentatore Abu al-Kacem (per il quale soltanto il giorno prima aveva invocato la pietas dovuta ai morti), fosse giusto o corretto.
Ha agito come le hanno imposto, come fanno sempre i membri dei partiti che siedono in parlamento, anche quando si dicono più “indipendenti” degli altri; e buonanotte pietas, buonanotte Iraq, buonanotte Nassiryya. Si è infilata in questioni troppo complesse per lei e i suoi pari, evidentemente, ed è già contenta di averla scampata, di non doversi dimettere da quel consesso di paraculi in cui siede, dove la condanna della resistenza ai crimini di guerra dell’Italia è un dogma, un’ovvietà, una verità assoluta da sempre, dai tempi di Giolitti a quelli di Letta. Un giorno ha avuto un’idea, il giorno dopo le hanno ricordato che non può averla, e lei ha preso il microfono per dire: scusate, che stupida, me ne ero dimenticata. Perché perdere tempo a parlare di tutto questo? Perchè anche questa deputata, questa "cittadina", ci insegna qualcosa; se non altro a vedere quanto Abu al-Kacem appaia come un gigante, di fronte a lei. Avrà avuto idee sbagliate, sarà stato antipatico forse, sarà stato magari un grandissimo stronzo: noi questo non possiamo saperlo. È partito dal suo paese, però, ed ha aiutato delle persone, di un altro paese, a colpire chi aveva occupato la loro città con la forza. Purtroppo è morto, facendo questo, e avremmo preferito fosse rimasto vivo; anche perché ha saputo lasciare, come tanti altri resistenti alle guerre, un dignitoso esempio di coerenza. Una parola, naturalmente, del tutto ignota ai parlamentari italiani.
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