(18 Novembre 2013) - pane-rose it -
Nel caldo di questa precoce estate australe e con una partecipazione minima saranno Michelle Bachelet (centro-sinistra) ed Evelyn Matthei (destra) a disputarsi la presidenza del Cile nel ballottaggio del 15 dicembre. Rappresentata come popolarissima e quasi madre della patria, capace di cooptare i comunisti e proporre ampie riforme che superino l’impalcatura pinochetista dello Stato, Bachelet non ha per ora frenato la crisi della politica tradizionale messa a nudo da una partecipazione elettorale inferiore al 50%.
L’ex presidente ha ottenuto poco più di 3 milioni di voti, il 46,6% dei suffragi, una percentuale equivalente a quella che la portò al ballottaggio nel 2005 (46%, i voti furono 3,7 milioni ancora in regime di voto obbligatorio). Evelyn Mattei ha raggiunto l’obiettivo minimo del ballottaggio con un disastroso 25% (1,6 milioni di voti), il peggior risultato per le destre dal ritorno della democrazia nel 1989 se si eccettua Arturo Alessandri che nel 1993 si fermò al 24,4%. Ancora nel 2005 l’attuale presidente Piñera e Joaquín Lavin sommarono il 48,6% (il primo poi perse il ballottaggio). Nel 2009 Piñera stesso raggiunse il 44% per poi battere il grigio Eduardo Frei di un soffio al secondo turno.
Al di là di un risultato tra le due candidate principali che, punto più punto meno, era previsto, la questione più rilevante è quella dello stravolgimento della tradizione di voto nazionale, iscrizione al voto e poi obbligo, ribaltata in un modello all’europea: iscrizione automatica e voto libero. Per i politologi è di gran lunga l’elemento di più complessa lettura ed è difficile valutare l’impatto della fine del voto obbligatorio che ha caratterizzato queste elezioni. Dei 13,5 milioni di aventi diritto meno del 50% (6,65 milioni) si è recato alle urne, un elemento che conferma la cilena come una società scarsamente interessata alla politica. Nel 2009 erano stati 7,3 milioni contro 8,3 milioni di iscritti. Se l’89% di partecipazione virtuale del 2009 non è comparabile con il 49% reale di questa domenica è rilevante l’evaporazione di oltre mezzo milioni di voti. Restando prudenti sull’evoluzione dei flussi, di sicuro è stata smentita la speranza che l’eliminazione della necessità di iscrizione comportasse una facilitazione di accesso al processo elettorale. Più che il non doversi iscriversi per i cileni ha fatto premio la fine dell’obbligo. In troppi, piuttosto che i seggi, hanno affollato come ogni domenica i mall, i centri commerciali, le cattedrali laiche del cile neoliberale. Imprevedibile e senza precedenti è infine il comportamento degli elettori il 15 dicembre. Come e con quanti voti si affermerà Michelle Bachelet?
Altro fattore è la conferma della fine conclamata del bipolarismo cileno. Nel 1999 Ricardo Lagos e Joaquím Lavín presero al primo turno il 96% dei voti e sembrò addirittura esaltante il 3,2% della comunista Gladys Marín. Oggi poco più dei due terzi di voti si concentra sulle candidate principali. Erano stati tre quarti nel 2009 quando però, di fronte allo scarso appeal del candidato della Concertazione Eduardo Frei, aveva soprattutto prosperato la candidatura dell’indipendente progressista Marco Enríquez-Ominami che aveva superato il 20%. Oggi il quadro è ulteriormente frammentato. La scommessa di Michelle, di cooptare il Partito Comunista e il movimento studentesco nella vecchia Concertazione (simboleggiati da Camila Vallejo e gli altri ex-studenti entrati in parlamento), ha prodotto finora un risultato elettorale che potrà trovare sostanza solo con una vera stagione riformista. Dall’assemblea costituente che superi la carta scritta da Pinochet alla riforma del sistema educativo privatistico ed escludente, da almeno una parvenza di equità fiscale alla sanzione di alcuni diritti civili come il matrimonio egualitario in un paese dove il divorzio è stato ripristinato da appena un decennio, i nodi verranno al pettine quando Bachelet tornerà alla Moneda. Di sicuro il rifiuto della proposta politica tradizionale resta alta. Il fallimento della Matthei che sarà tamponato dal 40 e più che prenderà al ballottaggio è evidente e più che alla ex-ministra di Piñera va imputato a tutta la destra. Anche i tre milioni di voti per la Bachelet sono un risultato misero per una presidente che i media tendono a rappresentare come più popolare di quello che realmente è. È pur vero che in quel 30% dei candidati minori non emerge alcuna possibile alternativa di governo. Marco questa volta cede la metà dei suoi voti (11% a 10%) al suo omologo più destrorso Franco Parisi che aveva provato a succhiare le ruote alla Matthei. Per Enríquez-Ominami è un fallimento. Il candidato umanista (ecosocialista) Marcel Claude, l’uomo della sinistra non cooptata dalla Nuova Maggioranza, non arriva al 3%, come Gladys nel 1999, molto meno del 5,4% di Tomás Hirsch nel 2005. È interessante notare che nei sondaggi condotti tra i cileni all’estero (ai quali Bachelet promette il diritto di voto) Marcel Claude sarebbe giunto al ballottaggio superando di gran lunga Matthei. Al suo fianco va citato almeno l’ambientalista (e santone) di origine libanese Alfredo Sfeir che supera il 2%.
Non è banale per Michelle Bachelet il cammino verso il ballottaggio. Se Matthei non ha nulla da perdere l’ex presidente, pur rischiando poco o nulla, non può permettersi di vincere con un numero minimo di votanti che getterebbe ulteriore delegittimazione sui partiti della Concertazione. Esauriti i discorsi sulle figlie dei due generali, il democratico e il golpista (il lettore attento di questo sito apprezzerà gli siano stati risparmiati), il ballottaggio restituisce quel Cile politicante dell’ultimo quarto di secolo, il Cile neoliberale dal quale il paese reale sembra sempre più lontano non perché vi si opponga ma perché lo considera come uno stato di natura immutabile. Evelyn non vuol cambiare il modello e Michelle, pur non essendo una novità, promette tanto sapendo di poter apportare solo cambiamenti minori. Non è che ci sia molto da sperare.
L’ex presidente ha ottenuto poco più di 3 milioni di voti, il 46,6% dei suffragi, una percentuale equivalente a quella che la portò al ballottaggio nel 2005 (46%, i voti furono 3,7 milioni ancora in regime di voto obbligatorio). Evelyn Mattei ha raggiunto l’obiettivo minimo del ballottaggio con un disastroso 25% (1,6 milioni di voti), il peggior risultato per le destre dal ritorno della democrazia nel 1989 se si eccettua Arturo Alessandri che nel 1993 si fermò al 24,4%. Ancora nel 2005 l’attuale presidente Piñera e Joaquín Lavin sommarono il 48,6% (il primo poi perse il ballottaggio). Nel 2009 Piñera stesso raggiunse il 44% per poi battere il grigio Eduardo Frei di un soffio al secondo turno.
Al di là di un risultato tra le due candidate principali che, punto più punto meno, era previsto, la questione più rilevante è quella dello stravolgimento della tradizione di voto nazionale, iscrizione al voto e poi obbligo, ribaltata in un modello all’europea: iscrizione automatica e voto libero. Per i politologi è di gran lunga l’elemento di più complessa lettura ed è difficile valutare l’impatto della fine del voto obbligatorio che ha caratterizzato queste elezioni. Dei 13,5 milioni di aventi diritto meno del 50% (6,65 milioni) si è recato alle urne, un elemento che conferma la cilena come una società scarsamente interessata alla politica. Nel 2009 erano stati 7,3 milioni contro 8,3 milioni di iscritti. Se l’89% di partecipazione virtuale del 2009 non è comparabile con il 49% reale di questa domenica è rilevante l’evaporazione di oltre mezzo milioni di voti. Restando prudenti sull’evoluzione dei flussi, di sicuro è stata smentita la speranza che l’eliminazione della necessità di iscrizione comportasse una facilitazione di accesso al processo elettorale. Più che il non doversi iscriversi per i cileni ha fatto premio la fine dell’obbligo. In troppi, piuttosto che i seggi, hanno affollato come ogni domenica i mall, i centri commerciali, le cattedrali laiche del cile neoliberale. Imprevedibile e senza precedenti è infine il comportamento degli elettori il 15 dicembre. Come e con quanti voti si affermerà Michelle Bachelet?
Altro fattore è la conferma della fine conclamata del bipolarismo cileno. Nel 1999 Ricardo Lagos e Joaquím Lavín presero al primo turno il 96% dei voti e sembrò addirittura esaltante il 3,2% della comunista Gladys Marín. Oggi poco più dei due terzi di voti si concentra sulle candidate principali. Erano stati tre quarti nel 2009 quando però, di fronte allo scarso appeal del candidato della Concertazione Eduardo Frei, aveva soprattutto prosperato la candidatura dell’indipendente progressista Marco Enríquez-Ominami che aveva superato il 20%. Oggi il quadro è ulteriormente frammentato. La scommessa di Michelle, di cooptare il Partito Comunista e il movimento studentesco nella vecchia Concertazione (simboleggiati da Camila Vallejo e gli altri ex-studenti entrati in parlamento), ha prodotto finora un risultato elettorale che potrà trovare sostanza solo con una vera stagione riformista. Dall’assemblea costituente che superi la carta scritta da Pinochet alla riforma del sistema educativo privatistico ed escludente, da almeno una parvenza di equità fiscale alla sanzione di alcuni diritti civili come il matrimonio egualitario in un paese dove il divorzio è stato ripristinato da appena un decennio, i nodi verranno al pettine quando Bachelet tornerà alla Moneda. Di sicuro il rifiuto della proposta politica tradizionale resta alta. Il fallimento della Matthei che sarà tamponato dal 40 e più che prenderà al ballottaggio è evidente e più che alla ex-ministra di Piñera va imputato a tutta la destra. Anche i tre milioni di voti per la Bachelet sono un risultato misero per una presidente che i media tendono a rappresentare come più popolare di quello che realmente è. È pur vero che in quel 30% dei candidati minori non emerge alcuna possibile alternativa di governo. Marco questa volta cede la metà dei suoi voti (11% a 10%) al suo omologo più destrorso Franco Parisi che aveva provato a succhiare le ruote alla Matthei. Per Enríquez-Ominami è un fallimento. Il candidato umanista (ecosocialista) Marcel Claude, l’uomo della sinistra non cooptata dalla Nuova Maggioranza, non arriva al 3%, come Gladys nel 1999, molto meno del 5,4% di Tomás Hirsch nel 2005. È interessante notare che nei sondaggi condotti tra i cileni all’estero (ai quali Bachelet promette il diritto di voto) Marcel Claude sarebbe giunto al ballottaggio superando di gran lunga Matthei. Al suo fianco va citato almeno l’ambientalista (e santone) di origine libanese Alfredo Sfeir che supera il 2%.
Non è banale per Michelle Bachelet il cammino verso il ballottaggio. Se Matthei non ha nulla da perdere l’ex presidente, pur rischiando poco o nulla, non può permettersi di vincere con un numero minimo di votanti che getterebbe ulteriore delegittimazione sui partiti della Concertazione. Esauriti i discorsi sulle figlie dei due generali, il democratico e il golpista (il lettore attento di questo sito apprezzerà gli siano stati risparmiati), il ballottaggio restituisce quel Cile politicante dell’ultimo quarto di secolo, il Cile neoliberale dal quale il paese reale sembra sempre più lontano non perché vi si opponga ma perché lo considera come uno stato di natura immutabile. Evelyn non vuol cambiare il modello e Michelle, pur non essendo una novità, promette tanto sapendo di poter apportare solo cambiamenti minori. Non è che ci sia molto da sperare.
Gennaro Carotenuto
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