Tra il no all'austerity e ai populismi che invocano l'uscita dall'euro, il nodo che resta irrisolto quello dell’efficacia dell’azione per il cambiamento: se le elezioni e le manifestazioni non funzionano, come si può “costringere” il potere economico e politico a cambiare strada?
Le politiche di austerità nate con l’ossessione per l’insolvenza sul debito pubblico, stanno portando l’Europa verso la dissolvenza: un’immagine sempre più sfocata e scomposta, col rischio di una dissoluzione del progetto europeo che non ha più il consenso dei cittadini.1
Nell’ultimo anno il dibattito politico ed elettorale nei paesi europei ha ovunque preso la strada di caratterizzazioni fortemente nazionali, dimenticando la questione comune della direzione che deve prendere l’insieme dell’Europa. In tutti i paesi – Italia compresa - le elezioni tenute nell’ultimo anno hanno portato a governi di grande coalizione. In Germania resta al potere Angela Merkel in coalizione con i socialdemocratici, con una politica di austerità per l’Europa che non è destinata a cambiare. In Olanda c’è ora un governo di coalizione tra liberali e socialdemocratici con la conferma del precedente primo ministro liberale. In Austria si è confermata la grande coalizione. La passata vittoria di François Hollande in Francia non ha mutato in modo significativo gli equilibri in Europa, la sua promessa di insistere sulla crescita anziché sull’austerità è stata dimenticata, e il governo registra una grave perdita di popolarità sul piano interno.
Allo stesso tempo si rafforzano in tutti i paesi le spinte populiste, anti-europee, di estrema destra, con prospettive di successo per forze come l’Ukip inglese, il Front National francese, il partito di destra tedesco anti-euro “Alternativa per la Germania”, l’estrema destra di Austria, Olanda e altri paesi. Si tratta di una deriva pericolosa alla vigilia delle elezioni per il Parlamento europeo della primavera 2014. Nei prossimi mesi il rischio è che il dibattito contrapponga da un lato l’Europa dell’austerità – gestita quasi ovunque da governi di grande coalizione - e dall’altro il rifiuto dell’Europa in nome di populismi e nazionalismi.
Questa, tuttavia, non è una scelta obbligata. Esiste un’altra Europa possibile, fondata non sul mercato e la finanza, ma sul lavoro, sui diritti, sull’uguaglianza, sulla sostenibilità, sulla democrazia.
Hanno preso piede, invece, le spinte populiste contro l’Europa che guardano a un illusorio orizzonte nazionale come possibilità di uscita dalla crisi, affidandosi a misure come l’uscita dall’euro, la riduzione della spesa pubblica, un maggior sostegno alle vittime della crisi. Il segno dominante di queste posizioni in Europa è quello di un populismo di destra.2
Anche tra i critici “da sinistra” delle politiche di austerità è presente una posizione analoga che vede, in particolare, nell’uscita dall’euro la soluzione principale dei problemi attuali. È una discussione che occorre affrontare con la consapevolezza dell’insieme dei problemi che colpiscono oggi l’Italia e l’Europa.
È dall’inizio delle “controfinanziarie”, nel 1999, che Sbilanciamoci! critica il modello di integrazione europea fondato sui parametri di Maastricht, denuncia i limiti dell’Unione monetaria, gli effetti negativi per i paesi come l’Italia, chiede di limitare il potere della finanza. Da quando è scoppiata la crisi del 2008, queste critiche e le proposte di cambiamento sono state al centro di decine di rapporti, libri, e-book, “contro-Cernobbio” e iniziative politiche di Sbilanciamoci!, oltre al dibattito quotidiano sul sito www.sbilanciamoci.info, dove sull’Europa sono stati pubblicati centinaia di articoli.
Nella critica dell’Europa della finanza e dell’austerità si tratta di fare i conti con due questioni. La prima riguarda l’evoluzione della politica. L’ipotesi che ci fosse uno spazio per politiche dei governi nazionali e per una strategia dell’Europa capaci di introdurre una discontinuità col neoliberismo e di rovesciare le politiche di austerità non ha trovato conferme. L’esperienza deludente del governo socialista di François Hollande, la continuità con le politiche passate dei governi di grande coalizione in Italia come in Germania e l’insistenza di Bruxelles e Francoforte sulle politiche del passato mostrano l’immobilità della politica e delle élite europee e nazionali. Né le proteste sociali e sindacali, né l’opposizione politica, né qualche successo elettorale delle forze di centro-sinistra sono stati sufficienti a portare a un cambio di rotta, a livello nazionale come in Europa. Il risultato di questo perseverare in politiche sbagliate è l’aggravarsi della crisi, sei anni di depressione in Italia, la frattura crescente tra centro e periferia dell’Europa. Questi problemi sono destinati ad aggravarsi ulteriormente nel 2014, creando situazioni di disagio sociale e declino economico sempre più gravi e sempre meno governabili da una politica immobile.
La prospettiva di una politica di cambiamento, legata al progetto di Europa post-liberista, appare così bloccata dall’immobilità dei governi e delle istituzioni da un lato, e dall’altra dall’esiguità del consenso che nelle recenti elezioni hanno ottenuto le forze di opposizione – da sinistra - ai governi di larghe intese in Europa: in Italia Sinistra Ecologia e Libertà, la Linke e i Verdi in Germania, varie forze di sinistra e verdi in Olanda, Austria e Francia; l’unica eccezione è stata l’affermazione nel 2012 in Grecia di Syriza, arrivato a essere il secondo partito nel parlamento di Atene.
Sul terreno della politica elettorale a pagare non è la richiesta di un’altra Europa, ma l’anti-Europa. Il consenso elettorale, anche nei gruppi sociali più colpiti dalla crisi, va sempre più a forze populiste – in Italia il Movimento Cinque Stelle, ma anche forze del centro-destra. Questo riflette l’insoddisfazione per l’inadeguatezza della politica europea, ma anche la ricerca di risposte semplici a problemi complessi. Si cerca una “protezione” – da cui sono esclusi immigrati e gruppi sociali marginali - di fronte al peggioramento delle condizioni sociali, si immaginano autorità visibili e “vicine”, al posto di poteri lontani e incontrollabili.
Le proposte che ne risultano tendono a essere semplicistiche e illusorie. L’esempio più ovvio è buona parte del dibattito sull’uscita dall’euro e sul ritorno a monete nazionali come una soluzione automatica alla crisi. Si pensa a un ritorno a un passato immaginario dove i paesi hanno solide basi produttive, in cui la competitività può essere sostenuta attraverso la svalutazione della moneta, in cui i capitali restano comunque all’interno del paese, in cui non c’è rischio di attacchi speculativi, in cui tutto questo aumenta i gradi di libertà per le politiche economiche nazionali. Si trascura quanto sarebbe complicato il ritorno alle monete nazionali e quanta cooperazione europea sarebbe richiesta per realizzarlo.
La realtà, oggi, è che i capitali sono pienamente liberi di muoversi – ci sono 150 miliardi di euro di capitali italiani in Svizzera. La reintroduzione di monete nazionali offrirebbe una nuova facile preda alla speculazione, con il rischio di crisi valutarie che potrebbero avere effetti peggiori dell’attuale pressione sul debito, come ha mostrato la crisi asiatica del 1997-98. Con un quarto della capacità produttiva industriale perduta, l’Italia difficilmente potrebbe tradurre la svalutazione in forte crescita dell’export, mentre la dipendenza dall’estero non solo per le materie prime, ma anche per tutti i prodotti ad alta tecnologia significa che la svalutazione della moneta si tradurrebbe in un aumento dei prezzi che ridurrebbe ulteriormente i salari reali. Il rischio di una spirale fatta di svalutazione, inflazione, fuga di capitali, deficit estero e caduta della produzione potrebbe lasciare il paese in condizioni peggiori di quelle attuali. Anziché aumentare i gradi di libertà delle politiche, c’è il rischio che il ritorno a monete nazionali spinga la politica economica dei paesi in crisi a mettere al primo posto la stabilizzazione del cambio – com’è avvenuto con la crisi della lira nel 1992 – sacrificando ogni altro obiettivo.
Un obiettivo prioritario è quindi quello di “legare le mani” alla finanza e porre limiti alla mobilità dei capitali. Misure di questo tipo sono state introdotte dalla stessa Europa a Cipro dopo la crisi finanziaria del paese: il paese è rimasto nell’area euro, continua a usare la moneta comune, ma i capitali non possono uscire dal paese e servono a rifinanziare le banche e l’economia.
Per contrastare la finanza, le proposte sono ben note: una tassa sulle transazioni finanziarie ben più dura di quella introdotta finora che ridimensioni il settore, divieto delle attività finanziarie più rischiose e dannose per l’economia reale, limiti alle vendite allo scoperto, divisione tra banche commerciali e banche d’affari, vincoli più efficaci sull’operato delle banche, una ristrutturazione del settore bancario con un ruolo chiave di una banca d’investimento pubblica che indirizzi le operazioni verso l’economia reale anziché verso la finanza, la tassazione dei patrimoni finanziari e aliquote più alte per la tassazione delle rendite finanziarie.
Concentrare su questo obiettivo le richieste di cambiamento offrirebbe forse migliori spazi per una politica diversa. E la costruzione di ampie alleanze sociali e politiche per realizzare alcune di queste misure potrebbe essere più realizzabile. Con una finanza ridimensionata diventerebbe più agevole una riforma radicale dell’Unione monetaria e della Banca centrale europea e una rottura con le politiche di austerità, che sono gli altri due obiettivi fondamentali per realizzare un cambio di rotta.
Ma di fronte alla crisi europea, in effetti, il nodo irrisolto resta quello dell’efficacia dell’azione per il cambiamento: se le elezioni e le manifestazioni non funzionano, come si può “costringere” il potere economico e politico a cambiare strada per uscire dalla crisi?
La minaccia di uscita dall’euro ha qui l’immagine di un’”arma assoluta” capace di far saltare il sistema che ci ha portato alla depressione. Ma chi dovrebbe impugnarla? Gli attuali governi di larghe intese? Uno schieramento populista capace di vincere le elezioni? Gli stessi poteri forti dell’Europa che si liberebbero così dei disastrati paesi della periferia? Sono scenari che appaiono illusori quanto gli effetti risolutivi che a tale mossa vengono attribuiti.
Certo, se la crisi si aggravasse ulteriormente, potrebbero diventare inevitabili anche misure estreme, come l’uscita dall’euro e l’insolvenza sul debito pubblico. Ma il costo economico e sociale di misure di questo tipo in condizioni di emergenza sarebbe pesantissimo, innanzi tutto per le classi popolari.
Per realizzare un cambiamento di rotta, più concreta sembra la strada di costruire – senza scorciatoie - un’alleanza tra la “vittime” della crisi. Sul piano sociale, tra lavoratori di tutti i tipi – dipendenti e autonomi, precari e stabili, nativi e immigrati, giovani e vecchi, ricostruendo identità collettive e solidarietà sociali a scala europea. Sul piano economico, tra il lavoro e le imprese, contro il potere della finanza. Sul piano nazionale, tra i paesi della periferia messi ai margini dell’Europa. Un “vertice della periferia” in cui si incontrino movimenti sociali, associazioni, sindacati, forze politiche e, perché no, governi di Italia, Grecia, Spagna, Portogallo sarebbe un passo importante per dare visibilità e voce all’altra Europa che vogliamo, quella che può fermare l’Europa della finanza e dell’austerità, ma anche le pulsioni verso un ritorno di nazionalismi.
(1) Secondo il sondaggio di Demos, il centro di ricerca di Ilvo Diamanti, nel settembre 2012 la quota di italiani che dichiarano di avere moltissima o molta fiducia nell’Europa è al 36%, contro il 49% del 2010, prima che la speculazione colpisse l’Italia, e il 57% del 2000, prima dell’euro. Metà dei rispondenti tuttavia dichiarano che l’Italia starebbe peggio se fosse fuori dall’Europa e dall’euro (http://www.demos.it/a00759.php?ref=NRCT-43137808-2).
(2) In Italia l’affermazione del Movimento Cinque Stelle riflette questi stessi contenuti, con un posizionamento politico più confuso ed eterogeneo, la cui deriva nazionalista e conservatrice tuttavia è apparsa evidente con l’opposizione di Beppe Grillo alla cancellazione del reato di clandestinità previsto dalla Legge Bossi-Fini all’indomani della tragedia di Lampedusa nell’ottobre 2013. Si veda anche Roberta Carlini, Euro, l’uscita è a destra, (http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/alter/Euro-l-uscita-e-destra-20724).
Il testo pubblicato costituisce un estratto della parte europea all'interno della Controfinanziaria.
Nell’ultimo anno il dibattito politico ed elettorale nei paesi europei ha ovunque preso la strada di caratterizzazioni fortemente nazionali, dimenticando la questione comune della direzione che deve prendere l’insieme dell’Europa. In tutti i paesi – Italia compresa - le elezioni tenute nell’ultimo anno hanno portato a governi di grande coalizione. In Germania resta al potere Angela Merkel in coalizione con i socialdemocratici, con una politica di austerità per l’Europa che non è destinata a cambiare. In Olanda c’è ora un governo di coalizione tra liberali e socialdemocratici con la conferma del precedente primo ministro liberale. In Austria si è confermata la grande coalizione. La passata vittoria di François Hollande in Francia non ha mutato in modo significativo gli equilibri in Europa, la sua promessa di insistere sulla crescita anziché sull’austerità è stata dimenticata, e il governo registra una grave perdita di popolarità sul piano interno.
Allo stesso tempo si rafforzano in tutti i paesi le spinte populiste, anti-europee, di estrema destra, con prospettive di successo per forze come l’Ukip inglese, il Front National francese, il partito di destra tedesco anti-euro “Alternativa per la Germania”, l’estrema destra di Austria, Olanda e altri paesi. Si tratta di una deriva pericolosa alla vigilia delle elezioni per il Parlamento europeo della primavera 2014. Nei prossimi mesi il rischio è che il dibattito contrapponga da un lato l’Europa dell’austerità – gestita quasi ovunque da governi di grande coalizione - e dall’altro il rifiuto dell’Europa in nome di populismi e nazionalismi.
Questa, tuttavia, non è una scelta obbligata. Esiste un’altra Europa possibile, fondata non sul mercato e la finanza, ma sul lavoro, sui diritti, sull’uguaglianza, sulla sostenibilità, sulla democrazia.
Hanno preso piede, invece, le spinte populiste contro l’Europa che guardano a un illusorio orizzonte nazionale come possibilità di uscita dalla crisi, affidandosi a misure come l’uscita dall’euro, la riduzione della spesa pubblica, un maggior sostegno alle vittime della crisi. Il segno dominante di queste posizioni in Europa è quello di un populismo di destra.2
Anche tra i critici “da sinistra” delle politiche di austerità è presente una posizione analoga che vede, in particolare, nell’uscita dall’euro la soluzione principale dei problemi attuali. È una discussione che occorre affrontare con la consapevolezza dell’insieme dei problemi che colpiscono oggi l’Italia e l’Europa.
È dall’inizio delle “controfinanziarie”, nel 1999, che Sbilanciamoci! critica il modello di integrazione europea fondato sui parametri di Maastricht, denuncia i limiti dell’Unione monetaria, gli effetti negativi per i paesi come l’Italia, chiede di limitare il potere della finanza. Da quando è scoppiata la crisi del 2008, queste critiche e le proposte di cambiamento sono state al centro di decine di rapporti, libri, e-book, “contro-Cernobbio” e iniziative politiche di Sbilanciamoci!, oltre al dibattito quotidiano sul sito www.sbilanciamoci.info, dove sull’Europa sono stati pubblicati centinaia di articoli.
Nella critica dell’Europa della finanza e dell’austerità si tratta di fare i conti con due questioni. La prima riguarda l’evoluzione della politica. L’ipotesi che ci fosse uno spazio per politiche dei governi nazionali e per una strategia dell’Europa capaci di introdurre una discontinuità col neoliberismo e di rovesciare le politiche di austerità non ha trovato conferme. L’esperienza deludente del governo socialista di François Hollande, la continuità con le politiche passate dei governi di grande coalizione in Italia come in Germania e l’insistenza di Bruxelles e Francoforte sulle politiche del passato mostrano l’immobilità della politica e delle élite europee e nazionali. Né le proteste sociali e sindacali, né l’opposizione politica, né qualche successo elettorale delle forze di centro-sinistra sono stati sufficienti a portare a un cambio di rotta, a livello nazionale come in Europa. Il risultato di questo perseverare in politiche sbagliate è l’aggravarsi della crisi, sei anni di depressione in Italia, la frattura crescente tra centro e periferia dell’Europa. Questi problemi sono destinati ad aggravarsi ulteriormente nel 2014, creando situazioni di disagio sociale e declino economico sempre più gravi e sempre meno governabili da una politica immobile.
La prospettiva di una politica di cambiamento, legata al progetto di Europa post-liberista, appare così bloccata dall’immobilità dei governi e delle istituzioni da un lato, e dall’altra dall’esiguità del consenso che nelle recenti elezioni hanno ottenuto le forze di opposizione – da sinistra - ai governi di larghe intese in Europa: in Italia Sinistra Ecologia e Libertà, la Linke e i Verdi in Germania, varie forze di sinistra e verdi in Olanda, Austria e Francia; l’unica eccezione è stata l’affermazione nel 2012 in Grecia di Syriza, arrivato a essere il secondo partito nel parlamento di Atene.
Sul terreno della politica elettorale a pagare non è la richiesta di un’altra Europa, ma l’anti-Europa. Il consenso elettorale, anche nei gruppi sociali più colpiti dalla crisi, va sempre più a forze populiste – in Italia il Movimento Cinque Stelle, ma anche forze del centro-destra. Questo riflette l’insoddisfazione per l’inadeguatezza della politica europea, ma anche la ricerca di risposte semplici a problemi complessi. Si cerca una “protezione” – da cui sono esclusi immigrati e gruppi sociali marginali - di fronte al peggioramento delle condizioni sociali, si immaginano autorità visibili e “vicine”, al posto di poteri lontani e incontrollabili.
Le proposte che ne risultano tendono a essere semplicistiche e illusorie. L’esempio più ovvio è buona parte del dibattito sull’uscita dall’euro e sul ritorno a monete nazionali come una soluzione automatica alla crisi. Si pensa a un ritorno a un passato immaginario dove i paesi hanno solide basi produttive, in cui la competitività può essere sostenuta attraverso la svalutazione della moneta, in cui i capitali restano comunque all’interno del paese, in cui non c’è rischio di attacchi speculativi, in cui tutto questo aumenta i gradi di libertà per le politiche economiche nazionali. Si trascura quanto sarebbe complicato il ritorno alle monete nazionali e quanta cooperazione europea sarebbe richiesta per realizzarlo.
La realtà, oggi, è che i capitali sono pienamente liberi di muoversi – ci sono 150 miliardi di euro di capitali italiani in Svizzera. La reintroduzione di monete nazionali offrirebbe una nuova facile preda alla speculazione, con il rischio di crisi valutarie che potrebbero avere effetti peggiori dell’attuale pressione sul debito, come ha mostrato la crisi asiatica del 1997-98. Con un quarto della capacità produttiva industriale perduta, l’Italia difficilmente potrebbe tradurre la svalutazione in forte crescita dell’export, mentre la dipendenza dall’estero non solo per le materie prime, ma anche per tutti i prodotti ad alta tecnologia significa che la svalutazione della moneta si tradurrebbe in un aumento dei prezzi che ridurrebbe ulteriormente i salari reali. Il rischio di una spirale fatta di svalutazione, inflazione, fuga di capitali, deficit estero e caduta della produzione potrebbe lasciare il paese in condizioni peggiori di quelle attuali. Anziché aumentare i gradi di libertà delle politiche, c’è il rischio che il ritorno a monete nazionali spinga la politica economica dei paesi in crisi a mettere al primo posto la stabilizzazione del cambio – com’è avvenuto con la crisi della lira nel 1992 – sacrificando ogni altro obiettivo.
Un obiettivo prioritario è quindi quello di “legare le mani” alla finanza e porre limiti alla mobilità dei capitali. Misure di questo tipo sono state introdotte dalla stessa Europa a Cipro dopo la crisi finanziaria del paese: il paese è rimasto nell’area euro, continua a usare la moneta comune, ma i capitali non possono uscire dal paese e servono a rifinanziare le banche e l’economia.
Per contrastare la finanza, le proposte sono ben note: una tassa sulle transazioni finanziarie ben più dura di quella introdotta finora che ridimensioni il settore, divieto delle attività finanziarie più rischiose e dannose per l’economia reale, limiti alle vendite allo scoperto, divisione tra banche commerciali e banche d’affari, vincoli più efficaci sull’operato delle banche, una ristrutturazione del settore bancario con un ruolo chiave di una banca d’investimento pubblica che indirizzi le operazioni verso l’economia reale anziché verso la finanza, la tassazione dei patrimoni finanziari e aliquote più alte per la tassazione delle rendite finanziarie.
Concentrare su questo obiettivo le richieste di cambiamento offrirebbe forse migliori spazi per una politica diversa. E la costruzione di ampie alleanze sociali e politiche per realizzare alcune di queste misure potrebbe essere più realizzabile. Con una finanza ridimensionata diventerebbe più agevole una riforma radicale dell’Unione monetaria e della Banca centrale europea e una rottura con le politiche di austerità, che sono gli altri due obiettivi fondamentali per realizzare un cambio di rotta.
Ma di fronte alla crisi europea, in effetti, il nodo irrisolto resta quello dell’efficacia dell’azione per il cambiamento: se le elezioni e le manifestazioni non funzionano, come si può “costringere” il potere economico e politico a cambiare strada per uscire dalla crisi?
La minaccia di uscita dall’euro ha qui l’immagine di un’”arma assoluta” capace di far saltare il sistema che ci ha portato alla depressione. Ma chi dovrebbe impugnarla? Gli attuali governi di larghe intese? Uno schieramento populista capace di vincere le elezioni? Gli stessi poteri forti dell’Europa che si liberebbero così dei disastrati paesi della periferia? Sono scenari che appaiono illusori quanto gli effetti risolutivi che a tale mossa vengono attribuiti.
Certo, se la crisi si aggravasse ulteriormente, potrebbero diventare inevitabili anche misure estreme, come l’uscita dall’euro e l’insolvenza sul debito pubblico. Ma il costo economico e sociale di misure di questo tipo in condizioni di emergenza sarebbe pesantissimo, innanzi tutto per le classi popolari.
Per realizzare un cambiamento di rotta, più concreta sembra la strada di costruire – senza scorciatoie - un’alleanza tra la “vittime” della crisi. Sul piano sociale, tra lavoratori di tutti i tipi – dipendenti e autonomi, precari e stabili, nativi e immigrati, giovani e vecchi, ricostruendo identità collettive e solidarietà sociali a scala europea. Sul piano economico, tra il lavoro e le imprese, contro il potere della finanza. Sul piano nazionale, tra i paesi della periferia messi ai margini dell’Europa. Un “vertice della periferia” in cui si incontrino movimenti sociali, associazioni, sindacati, forze politiche e, perché no, governi di Italia, Grecia, Spagna, Portogallo sarebbe un passo importante per dare visibilità e voce all’altra Europa che vogliamo, quella che può fermare l’Europa della finanza e dell’austerità, ma anche le pulsioni verso un ritorno di nazionalismi.
(1) Secondo il sondaggio di Demos, il centro di ricerca di Ilvo Diamanti, nel settembre 2012 la quota di italiani che dichiarano di avere moltissima o molta fiducia nell’Europa è al 36%, contro il 49% del 2010, prima che la speculazione colpisse l’Italia, e il 57% del 2000, prima dell’euro. Metà dei rispondenti tuttavia dichiarano che l’Italia starebbe peggio se fosse fuori dall’Europa e dall’euro (http://www.demos.it/a00759.php?ref=NRCT-43137808-2).
(2) In Italia l’affermazione del Movimento Cinque Stelle riflette questi stessi contenuti, con un posizionamento politico più confuso ed eterogeneo, la cui deriva nazionalista e conservatrice tuttavia è apparsa evidente con l’opposizione di Beppe Grillo alla cancellazione del reato di clandestinità previsto dalla Legge Bossi-Fini all’indomani della tragedia di Lampedusa nell’ottobre 2013. Si veda anche Roberta Carlini, Euro, l’uscita è a destra, (http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/alter/Euro-l-uscita-e-destra-20724).
Il testo pubblicato costituisce un estratto della parte europea all'interno della Controfinanziaria.
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