Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...
(di classe) :-))
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Francobolllo
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Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.
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Europa, SVEGLIA !!
sabato 13 marzo 2010
Serie Approfondimenti
Crisi dello spazio urbano o fine (morte) delle città?
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Letto in Materiali Resistenti.
Fonte: "Eddyburg"
Data di pubblicazione: 28.02.2010. Autore: Salzano, Edoardo
Relazione di apertura della IV sessione (24 febbraio 2010) del convegno “Ma cos’è questa crisi”, Le Settimane della Politica, II edizione
Di quale città parliamo. Dobbiamo precisare innanzitutto che cosa intendiamo per “città”, l’oggetto attorno al quale ragioniamo in questa giornata. Possiamo intendere per “città” quella realtà cui si riferiscono le statistiche internazionali, quando affermano che la grande maggioranza della popolazione del nostro pianeta vive ormai in condizione urbana. Possiamo intendere quindi per “città” ogni agglomerazione di popolazione in spazi relativamente limitati, ciascuno dei quali caratterizzato da alte densità, fitte relazioni tra le persone e le attività, prevalenza di artificialità nei materiali presenti, alto livello di trasformazione rispetto al dato naturale. Possiamo intendere invece per “città” quella particolare forma dell’habitat dell’uomo che si è manifestata nella vicenda storica della civiltà europea, che ha la sua matrice nella polis greca e nell’urbs romana, che ha conosciuto il suo massimo significato nella città del Medioevo e il suo massimo splendore in quella del Rinascimento, il suo sviluppo più esteso e la sua affermazione piena nella città della borghesia capitalistica, e il suo momento estremo nella città dell’egemonia operaia. La città delle statistiche mondiali sembra tutt’altro che in declino. Non è certo priva di aspetti critici - e ad essi accenneremo più avanti - ma essi sembrano a prima vista quelli tipici di una fase di tumultuosa e disordinata crescita. Ci riferiamo perciò, nel ragionare sulla crisi o morte della città, a quella europea, così come la storia l’ha inventata e trasformata. Mi domanderò allora innanzitutto che cosa (quali valori, principi, qualità) caratterizzino la città europea, per interrogarmi poi se essi stiano attraversando una fase di declino o di scomparsa, e se ad essi si possa – e a quali condizioni – ritornare. Ovviamente, mutandi mutandis.
Non parliamo di “Babilonia”La distinzione da cui sono partito riecheggia in qualche modo quella di Carlo Cattaneo. Nel suo celebre testo Cattaneo distingue le città vere e proprie dalle “Babilonie”: […] quelle pompose Babilonie sono città senz'ordine municipale, senza diritto, senza dignità; sono esseri inanimati, inorganici, non atti a esercitare sopra sé verun atto di ragione o di volontà, ma rassegnati anzi tratto ai decreti del fatalismo. Il loro fatalismo non è figlio della religione, ma della politica. Questo è il divario che passa tra la obesa Bisanzio e la geniale Atene; tra i contemporanei d'Omero, di Leonida e di Fidia e gli ignavi del Basso Imperio. L'istituzione sola dei municipii basterebbe a fondere nell'India decrepita un principio di nuova vita [1]. Ciò che infatti in primo luogo caratterizza la città è la presenza in essa di ciò che Cattaneo definisce “ordine municipale”, “diritto”, “dignità”. Luogo dei liberi e degli uguali quindi, dove l’assegnazione degli attributi di “libero” ed “eguale” ai membri delle diverse classi sociali caratterizza differentemente i regimi che via via si sono succeduti, dall’antichità al sistema capitalistico-borghese. Diritto, dignità, ordine municipale: termini che ci riconducono alla società, come comunità che costruisce la città in relazione ai suoi bisogni e che in essa vive, e alla politica, nel senso più ampio del termine, come governo che garantisce a tutti i cittadini (ai liberi e agli eguali) diritto, dignità, ordine. Ritroviamo così, nell’antico scritto del Cattaneo, due delle tre facce, dei tre aspetti che caratterizzano la città: civitas, la società; polis, la politica; urbs, lo spazio fisico. La città come spazio fisico Lo spazio fisico è quello che più direttamente appartiene alla cultura degli urbanisti italiani. Questa cultura nasce infatti – a differenza che in altri paesi – dalle discipline dell’architettura e dell’ingegneria civile: molto attenta al fisico, al costruito e al costruire, al “tecnico”. Essa consente di cogliere, di quella realtà complessa che è la città, aspetti importanti, ma tutt’altro che esclusivi. La città, l’habitat del’uomo, è una realtà così complessa che rende indispensabile, per comprenderla e per governarla efficacemente, un approccio multidisciplinare. Tanto più complessa essa è diventata negli ultimi secoli, in cui tra l’altro si è dissolto il confine tra città e territorio, tra urbano ed extraurbano e l’habitat dell’uomo si esteso all’insieme dei vasti spazi del pianeta, tutti in qualche modo coinvolti nella vita e nelle atttività della civiltà urbana. Lo sguardo dell’urbanista, nonostante i suoi limiti disciplinari, è in grado di cogliere meglio di altri uno dei principali aspetti della città europea: l’elemento che – forse più d’ogni altro – la caratterizza. Mi riferisco agli spazi pubblici, che della città quale la intendo costituiscono certamente l’espressione più originale e – meglio di qualsiasi altra – ne esprimono l’essenza. Gli spazi pubblici nella storia della città europea Nella città della tradizione europea sono sempre stati importanti gli spazi pubblici: i luoghi nei quali stare insieme, commerciare, celebrare insieme i riti religiosi, svolgere attività comuni e utilizzare servizi comuni. Dalla città greca alla città romana fino alla città del medioevo e del rinascimento, il ruolo delle piazze è stato decisivo: le piazze come il luogo dell’incontro tra le persone, ma anche come lo spazio sul quale affacciavano gli edifici principali, gli edifici destinati allo svolgimento delle funzioni comuni: il mercato e il tribunale, la chiesa e il palazzo del governo cittadino. Le piazze erano i fuochi dell’ordinamento della città. Lì i membri delle singole famiglie diventavano cittadini, membri di una comunità. Lì celebravano i loro riti religiosi, si incontravano e scambiavano informazioni e sentimenti, cercavano e offrivano lavoro, accorrevano quando c’era un evento importante per la città: un allarme, una festa, un giudizio. Tutti i cittadini possono fruirne, indipendentemente dal reddito, dall’età, dell’occupazione. E fin dalla piazza primigenia – il mercato – esse sono il luogo dell’incontro con lo straniero: sono la cerniera tra il dentro e il fuori, il luogo dove la città – tramite l’incontro con il “diverso” – si apre al mondo, lo conosce e ne diviene parte: esce dell’idiotismo della comunità ristretta. Dove la città è organizzata in quartieri (ciascuno espressione spaziale di una comunità più piccola dell’intera città), ogni quartiere ha la sua piazza, ma sono tutti satelliti della piazza più grande, della piazza (o del sistema di piazze) cittadine. Le piazze, gli edifici pubblici che su di esse si affacciavano e le strade che le connettevano costituivano l’ossatura della città. Le abitazioni e le botteghe ne costituivano il tessuto. Una città senza le sue piazze e i suoi palazzi destinati ai consumi e ai servizi comuni era inconcepibile, come un corpo umano senza scheletro. Gli spazi comuni della città sono il luogo della socializzazione di tutti i cittadini. Più tardi, nella città del capitalismo, le fabbriche diventano i luoghi della socializzazione dei lavoratori. Gli spazi comuni della città restano il luogo della socializzazione di tutti, ma si accentua fortemente la specializzazione sociale delle varie parti della città. Qui i quartieri e il luogo del comando, della ricchezza, dei valori (economici, politici, religiosi) della città, là i quartieri via via più estesi, e gli spazi comuni via via più angusti, dei proletari. La città si frammenta in “zone”, caratterizzate da valori economici, da qualità urbana, da condizioni sociali fortemente differenziate. Poco più tardi, nel XIX e XX secolo, dalla solidarietà di fabbrica nasce il movimento di emancipazione del lavoro, che via via si estende a tutta la città. Il governo della città non è più solo dei padroni dei mezzi di produzione: cresce la dialettica tra lavoro e capitale, nasce il welfare state. I luoghi del consumo comune si arricchiscono di nuove componenti: le scuole, gli ambulatori e gli ospedali, gli asili nido, gli impianti sportivi, i mercati di quartiere sono il frutto di lotte accanite, tenaci, nelle quali le organizzazioni della classe operaia gettano il loro peso. L’emancipazione femminile accresce ancora il ruolo degli spazi pubblici destinati ad alleggerire il lavoro casalingo delle donne. Al consistente ingresso delle donne nel mondo del lavoro della fabbrica e dell’ufficio, nasce una forte e vittoriosa tensione per ottenere spazi in quantità adeguate per le esigenze sociali dei cittadini Nella città moderna anche l’abitazione - anche le parti della città destinate all’uso privato - diventa un problema che non può essere abbandonato alle soluzioni individuali. C’è (c’è sempre stata) l’esigenza di assicurare all’insieme degli interventi individuali e privati un disegno complessivo, delle regole certe, che contribuiscano a rendere la città qualcosa di diverso da un’accozzaglia di elementi dissonanti: a questo serve la regolamentazione urbanistica ed edilizia. Ma questo non basta. Il prezzo dei terreni edificabili cresce senza tregua man mano che la città si estende, che aumentano le sue dotazioni di infrastrutture e servizi. L’aumento del valore dei suoli dipende dalle decisioni e dagli investimenti della collettività, ma in quasi tutti gli stati capitalisti esso (la rendita) va nelle tasche dei proprietari. Questo incide pesantemente sui prezzi delle costruzioni, in particolare delle abitazioni. Nasce la necessità di governare il mercato delle abitazioni con interventi dello stato: case ad affitti moderati per i ceti meno ricchi, regolamentazione anche del mercato privato. Nascono vertenze nelle quali risuona lo slogan “la casa come servizio sociale”. Con questa parola d’ordine non si chiede che l’abitazione venga offerta gratuitamente a tutti i cittadini, ma che la questione delle abitazioni sia regolata da attori diversi dal mercato, incidendo sulla rendita e garantendo un equilibrio tra prezzo dell’alloggio e redditi delle famiglie. La città del welfare in Italia Gli storici cominciano a riflettere sui decenni 60 e 70 del XX secolo. In Italia ebbero, per più d’un aspetto, un carattere diverso che altrove. Furono anni di notevoli cambiamenti e di grandi progressi, e anche di fortissime tensioni. Dal punto di vista di un urbanista devo dire che in quegli anni si raggiunsero traguardi insospettabili, non solo sul terreno delle conquiste legislative. Con la “legge ponte” urbanistica del 1967 e con i successivi decreti del 1968 si ottenne in Italia quello che già era consolidato patrimonio amministrativo in altri stati europei, cioè la generalizzazione della pianificazione urbanistica, il primato delle decisioni pubbliche nelle trasformazioni del territorio, l’obbligo a vincolare determinate quantità di aree per servizi e spazi pubblici. Con le leggi per la casa del 1962, 1967, 1971, 1977 e 1978 si ottenne la possibilità di controllare tutti i segmenti dello stock abitativo, di realizzare quartieri residenziali dotati di tutti gli elementi che rendono civile una città, di ridurre il prezzo degli alloggi in una parte molto ampia del patrimonio edilizio. Questi risultati furono raggiunti per il concorrere di molti attori. Un ruolo rilevante svolse il movimento di emancipazione delle donne (in particolare l’azione dell’Unione Donne Italiane), che pose al centro dell’attenzione della politica e della cultura l’esigenza di arricchire la città di dotazioni che consentissero di alleggerire il lavoro casalingo. Un ruolo decisivo svolsero le organizzazioni economiche e politiche delle classi lavoratrici. Grazie al movimento sindacale, e al congiungersi delle lotte operaie e di quelle studentesche negli anni 1968 e 1969, si ottennero i notevoli successi in merito alla casa e alle espropriazioni per pubblica utilità; e grazie alla sostanziale collaborazione tra le sinistre (comunista, socialista e democristiana) al di là delle divisioni parlamentari, si dovettero i principali risultati sul terreno legislativo e su quello di molte amministrazioni locali – come del resto si ottennero l’istituzione delle regioni e i primi episodi di decentramento amministrativo. Queste conquiste si collocarono in un quadro più ampio di progressi sul terreno sociale ed economico: il riconoscimento del diritto al divorzio e all’aborto, lo statuto dei diritti dei lavoratori, l’istituzione del servizio sanitario nazionale e l’abolizione delle strutture manicomiali, l’introduzione del tempo pieno nella scuola elementare, l’istituzione della scuola materna statale, l’estensione del voto ai diciotto anni. Ma esse provocarono anche fortissimi contrasti: una reazione che si scatenò subito, agli albori degli anni 70, con la “strategia della tensione” e con gli attentati bombaroli, che proseguirono fino all’assassinio di Aldo Moro. Gli anni 80 del XIX secolo sono quelli che gli storici dell’Italia dei nostri anni (e quelli che cercano di viverli con gli occhi aperti) indicano come gli anni della svolta, del regresso, dell’inizio del declino che ancora oggi caratterizza il nostro paese. Ma concordo con quanti ne vedono il germe già nei decenni precedenti: decenni nei quali probabilmente si intrecciarono le pulsioni verso il rinnovamento civile del nostro paese e quelle verso una utilizzazione meramente egoistica e individualistica dei successi economico ottenuti dal boom degli anni 50, chiudendo gli occhi di fronte ai danni provocati dalle pratiche insieme liberiste e assistenzialistiche adottate in quegli anni. La svolta Si discute sul perché la svolta sia avvenuta, ma il consenso è abbastanza ampio sul quando. Credo che, almeno per quanto riguarda l’Italia, si possa collocare nella metà degli anni Ottanta il suo momento principale, perfettamente correlata alla più ampia trasformazione a livello internazionale. Nel 1983 era nato il governo a guida socialista, premier Bettino Craxi. Negli stessi anni i poteri di Ronald Reagan e Margaret Thatcher erano stati pienamente confermati nei rispettivi paesi. Nel 1984 in Italia un decreto del governo Craxi aveva aperto l’attacco alla scala mobile (al meccanismo, conquistato per tutti i lavoratori nel 1975, che legava le variazioni del salario a quelle del potere d’acquisto) e nell’anno successivo era fallito il referendum indetto dal PCI per difenderlo. Siamo negli anni del trionfo della visione craxiana della società: nuovi valori divengono vincenti nel pensiero comune. Tutto viene declamato in termini di efficienza, di conquista della "modernità", di celebrazione del "Made in Italy", di enfatizzazione della grande rincorsa dello sviluppo che appare ormai inarrestabile e che fa sentire proiettati verso i vertici massimi della scala mondiale. Benessere e crescita economica erano traguardi raggiunti. Eppure, come osserva Paul Ginsborg “crescita economica e sviluppo umano non sono affatto la stessa cosa, e con l’avvicinarsi della fine del secolo la prima giunse a costituire sempre più una minaccia per il secondo. Gli italiani tacevano parte di quel quarto della popolazione mondiale che consumava ogni anno i tre quarti delle risorse e che produceva la maggior parte dell’inquinamento e dei rifiuti” (Ginsborg, 2007). La ricchezza aumenta, ma le diseguaglianze aumentano al pari dei privilegi. I principi morali si affievoliscono, il successo individuale è l’obiettivo primario al quale tutto il resto può essere sacrificato. Raggiunge il massimo della sua esplicazione quel “declino dell’uomo pubblico” del quale Richard Sennett individua le antiche matrici e le attuali configurazioni. Tutto ciò non poteva mancar di trovare la sua espressione nel destino della città e del suo governo. La città oggi Certo è che oggi la situazione della città e l’orientamento delle politiche urbane sono radicalmente diverse da quelle che la storia delle nostre città ci suggerisce, sia che le osserviamo alla luce del lungo periodo che se ci riferiamo ai secoli più vicini. Il carattere pubblico della città è profondamente in crisi: è negato in tutti i suoi elementi. A cominciare dal suo fondamento: la possibilità della collettività di decidere gli usi del suolo, attraverso lo strumento patrimoniale (proprietà pubblica dei suoli urbanizzabili o appartenenza pubblica del diritto a costruire), e attraverso quello di una pianificazione urbanistica efficace, autorevole, condivisa da chi esercita il governo in nome degli interessi generali. Oggi moltissimi, anche nell’area “riformista”, non si vergognano di parlare di “vocazione edificatoria” dei suoli, e di considerare perverso “vincolo” ogni destinazione del terreno che non sia quella edilizia. Oggi si sostituisce la pianificazione pubblica con la contrattazione delle decisioni sulla città con la proprietà immobiliare: non vi è città che non prfesenti testimonianze molteplici di questa nuiova pratti di “urbanistica contrattata”. Si arriva addirittura a voler decretare che il diritto di edificare appartiene strutturalmente alla proprietà del suolo. Ma l’aspetto più emblematico è la progressiva mistificazione dello spazio pubblico. Nel rapido exursus storico abbiamo visto come gli spazi pubblici siano l’anima della città e la ragione essenziale della sua invenzione. Essi sono il luogo nel quale nella quale società e città s’incontrano, il luogo nel quale il privato diventa pubblico e il pubblico si apre al privato. Appunto per questo, mi sembra che uno dei segni più gravi della crisi attuale è nel fatto che gli spazi pubblici sono oggi a rischio, minacciati da mille tentativi di privatizzazione e mercificazione. Il rischio per lo spazio pubblico della città e il suo indebolimento nella vita della società urbana non nascono da oggi. Lo testimonia il tentativo, in corso ormai trionfalmente da qualche decennio, di sostituire agli spazi pubblici i “non luoghi”, caratterizzati dalla ricerca dei requisiti opposti a quelli che rendono pubblica una piazza (lo spazio pubblico per antonomasia): la recinzione mentre la piazza è aperta, la sicurezza mentre la piazza è avventura, l’omologazione mentre la piazza è differenza e identità, la natura delle persone che la abitano, clienti anziché di cittadini, la distanza dalla vita quotidiana anziché la sua prossimità. E lo testimonia, da tempi ancora più lontani, l’assenza degli spazi pubblici da grandissima parte delle periferie che da molti decenni circondano e affogano la città, costituendone la componente quantitativamente più importante. Quando parlo di spazio pubblico della città non mi riferisco solo ai luoghi fisici dedicati alle funzioni collettive. Non mi riferisco solo alle piazze e alle scuole, ai municipi e ai mercati, alle chiese e alle biblioteche, ai parchi pubblici e alle palestre. Mi riferisco anche all’uso che di questi luoghi viene promosso e garantito. Si pone qui una questione che non è solo di equità (la possibilità per tutti di avvalersi delle diverse funzioni collettive cui gli spazi pubblici sono adibiti), non è solo di accessibilità (la possibilità per tutti, anche i più deboli, di raggiungere agevolmente e comodamente i luoghi necessari alla vità urbana), ma anche una questione di agibilità politica. Quando vedo sindaci che emettono ordinanze che chiudono certe piazze alle manifestazioni di dissenso, che con il pretesto dell’ordine pubblico impediscono l’accesso di cortei o altre espressioni di presenze culturali o politiche, non vedo solo una minaccia per la democrazia, ma un attentato alla stessa natura della città. Città e democrazia La storia lega indissolubilmente città e democrazia. Non è un caso che – come ho ricordato - “polis” sia il nome della città primigenia e che l’”agorà”, il luogo del dibattito e della decisione, fosse il suo centro. Non è un caso se ho iniziato questo intervento ricordando come Carlo Cattaneo definisse “non città”, ma “pompose Babilonie” gli insediamenti delle tirannidi asiatiche. Non è un caso se il grande risveglio che ha ingioiellato di città storiche tutte le nostre regioni è associato alla lotta per l’autonomia dei “borghi” dai domini dei Signori. E non è un caso se la responsabilità della pianificazione urbanistica è, negli stati moderni, affidata alle mani delle istituzioni della democrazia. Sia l’una che l’altra, città e democrazia, mutano nel tempo. Dalla democrazia oligarchica, la democrazia dei pochi, siamo giunti, attraverso un percorso faticoso e ancora incompiuto alla democrazia di tutti. Oggi tutti i cittadini hanno diritto a eleggere i propri rappresentanti nei luoghi ove si decide. Nella nostra democrazia le decisioni le prende chi rappresenta la maggioranza. Una maggioranza che può avere varie ampiezze: può essere unanime, assoluta, relativa. In quest’ultimo caso essa è costituita dalla porzione dei cittadini più ampia tra quelle nelle quali si è suddiviso il corpo elettorale. É il caso della maggioranza di oggi: il raggruppamento che fa capo all’attuale premier rappresenta il 47 % dei voti validi e il 34 % degli elettori: meno della metà dei primi, un terzo del “popolo”. Il maggiore contributo alla democrazia dei nostri tempi lo ha dato il pensiero liberale, un paio di secoli fa. I pensatori che hanno costruito le basi e i principi della democrazia hanno compreso subito che in essa il principio della maggioranza poteva condurre a effetti letali. L’influenza di un eletto o i suoi poteri occulti potevano trasformarlo in demagogo, capace di conquistare i cittadini sulla base non della ragione ma dell’emozione, magari sollecitata dall’istigazione ai sentimenti più bassi. Dalla democrazia alla tirannide il passo non è lungo: “La democrazia finisce subito se cade sotto la tirannia della maggioranza” ha scritto Alexander Hamilton, un politico ed economista statunitense vissuto alla fine del XVIII secolo. E della democrazia fa parte integrante il principio della possibilità di ricambio dei gruppi dirigenti: questo è impedito se la maggioranza spegne le voci alternative o impedisce loro di raggiungere le orecchie di tutti. Proprio per queste ragioni la nostra democrazia (nella quale da noi si ha tanta fiducia da pensare di esportarla con le armi) è stata costruita con un attento sistema di contrappesi, che bilanciano quello della maggioranza con altri principi. Frenano la tendenza alla “tirannia della maggioranza” due principi: il diritto delle minoranze e la separazione dei poteri. Il primo comporta la garanzia che ogni gruppo d’interesse (sociale, economico, culturale) abbia la possibilità di essere rappresentato là dove si conosce e si dibatte per decidere, potendosi esprimere con la stessa libertà consentita alla maggioranza. Il secondo principio consiste nella rigorosa autonomia di ciascuno dei tre poteri fondamentali: legiferare(parlamento), applicare le leggi (governo), giudicare (magistratura). Ciascuna di queste tre istanze ha eguale autorità rispetto alle altre. Sostenere che una di esse primeggia significa proporre una tesi eversiva della democrazia. Eppure, è quello che è avvenuto negli ultimi tempi, quando gran parte dei politici, e degli stessi giornalisti, che hanno scritto o parlato sul “conflitto” tra capo del governo e massima istanza della magistratura, hanno accreditato la tesi che solo chi è direttamente eletto dal popolo ha il potere di decidere, e se gli altri ostacolano la sua decisione sono rei di tradimento e vanno ricondotti all’ordine. Un urbanista non avrebbe il compito di richiamare questi concetti, ad altri spetterebbe di farlo. Ma un urbanista – come ogni cittadino consapevole – sa che se essi vengono travisati, e i principi che li esprimono violati, per la città, luogo della società, non c’è speranza. Crisi o morte della città? Per molti aspetti l’interrogativo dal quale siamo partiti (se si debba parlare di crisi della città, oppure della sua morte) si accosta decisamente a un altro: crisi o morte della democrazia. In entrambi casi credo che la risposta sia soltanto una, ed è una risposta terribilmente aperta. Usciremo dalla situazione attuale, assisteremo alla ripresa di una vera città (e di una vera società democratica), raggiungendo traguardi più avanzati di quelli che l’esperienza storica ha conosciuto, a seconda che noi – che la società di cui siamo parte – vorremo farlo , e se saremo in grado di farlo. Se vorremo farlo. Se le donne e gli uomini di questo XXI secolo riterranno che la vita nella città - in un habitat nel quale si vive insieme agli altri, si incontrano gli altri, si comunica con gli altri, si conoscono gli altri, si è solidali con gli altri, ci si aiuta con gli altri, ci si confronta e ci si misura con gli altri – e con altri diversi da ciò che noi stessi e i nostri congiunti sono, con altri portatori di altre storie, di altre culture, di altre credenze, di altre abitudini – se la maggioranza degli uomini e delle donne riterrà che è meglio vivere così che vivere da soli, chiusi nel proprio piccolo gruppo, spazio, orizzonte. E se saremo in grado di farlo. Se ci metteremo all’altezza degli sforzi che sono necessari per concorrere aall’uscita della crisi della città. Dove mettersi all’altezza significa in primo luogo comprendere qual è la posta in gioco (che cosa noi stessi, e la civiltà umana nel suo insieme, pagherebbe se della città non vivessimo la crisi ma celebrassimo la morte e la scomparsa – possibili così come sono state possibili la morte e la scomparsa di intere civiltà. Sento che mai come in questo momento la risposta, e il futuro, dipendano da noi: sebbene il percorso sia irto di difficoltà, sebbene la sua durata sia ignota e ugualmente ignoti siano i prezzi che dovremo pagare, non credo che siano possibili altre risposte. Come uscire dalla crisi Naturalmente, se alla domanda precedente si dà una risposta ottimista, se si tratta di crisi e di passaggio e non di declino e morte, bisogna domandarsi in che modo, partendo da quali inizi dalla crisi della città si possa cominciare a uscire. Credo che il punto di partenza (o almeno, un punto di partenza) possa esser visto in una parte del titolo che abbiamo dato l’anno scorso alla quinta edizione della Scuola di eddyburg: una piccola scuola estiva di pianificazione che stiamo organizzando con le risorse del sito eddyburg.it. Il titolo era “Spazio pubblico: declino, difesa, riconquista”. Sul declino dello spazio pubblico abbiamo già ragionato. Per concludere vorrei avviare il ragionamento sugli altri termini: difesa, riconquista. Avrete compreso che attribuisco all’espressione “spazio pubblico” un’accezione molto ampia. È spazio pubblico la piazza, sono spazio pubblico gli standard urbanistici, è spazio pubblico una politica sociale per la casa. Ma è spazio pubblico l’erogazione di servizi e attività aperti a tutti gli abitanti: dalla scuola alla salute, dalla ricreazione alla cultura, dall’apprendimento al lavoro. È spazio pubblico la possibilità di ogni cittadino di partecipare alla vita della città e delle sue istituzioni, è spazio pubblico la democrazia e il modo di praticarla al di là delle strettoie dell’attuale configurazione della democrazia rappresentativa. Ed è spazio pubblico la capacità della collettività di governare le trasformazioni urbane mediante i due strumenti essenziali: una politica del patrimonio immobiliare che restituisca alla collettività gli aumenti di valore che derivano dalle sue decisioni e dalle sue opere, e una politica di pianificazione del territorio, in tutte le sue componenti. In questa sua accezione la conquista dello spazio pubblico è stata, ed è tuttora, il risultato di un processo storico caratterizzato da faticose conquiste e sofferte sconfitte. Lo sarà anche in futuro. Per costruire un futuro accettabile è necessario collocarci nella storia: avere consapevolezza di ciò che è alle nostre spalle, comprendere la condizione che viviamo oggi e scoprire in essa i germi di un futuro possibile. Guai se pensassimo – come molti oggi pensano – che la storia è già scritta. La storia non è ancora scritta: siamo noi che la scriviamo. Se non abbiamo questa consapevolezza, della storia siamo inevitabilmente vittime passive e imbelli. Collocarci nella storia significa saper individuare le ragioni per cui lo spazio pubblico è oggi a rischio, e già largamente compromesso. La ragione ideologica è in quel declino dell’uomo pubblico che molti pensatori denunciano da tempo; un declino che ha la sua radice in quell’alienazione del lavoro, ossia nella finalizzazione dell’attività primaria dell’uomo sociale ad “altro da sé”, che costituisce l’essenza del sistema capitalistico. Ed è facile individuare la ragione strutturale nel dominio del diritto alla proprietà privata e individuale sopra ogni altro diritto, che costituisce il fondamento dei sistemi giuridici vigenti, in Italia e altrove, e che in questi devastanti anni italiani si tende ad accentuare oltre ogni limite, decretando che il diritto a edificare è connaturato alla proprietà fondiaria ed edilizia. A questi rischi bisogna opporsi. Per farlo è necessaria la paziente ricerca degli appigli cui aggrapparsi, delle forze su cui far leva, degli interessi da mobilitare, per avviare e proseguire una linea alternativa. Per dirla con Italo Calvino, per resistere all’inferno, dobbiamo “cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. Che cosa c’è nell’inferno “che non è inferno”? Per mezzo secolo ho lavorato attorno a questi temi come urbanista, spesso prestato alla politica. Chi ha avuto le esperienze che ho avuto io rivolge il suo sguardo in primo luogo alla politica. È alla politica – alla dialettica tra le parti che essa esprime – che spetterebbe configurare e proporre un “progetto di società”, e in relazione a questo un progetto di città e di territorio. Sono esistiti tempi in cui è stato così. Io li ho vissuti. Oggi non è più così. Oggi non credo che si possa fare affidamento alla politica dei partiti. Credo che nessuno dei partiti esistenti abbia le carte in regola. Certo, ci sono differenze, anche forti. Per esempio, tra - i partiti che esprimono con pienezza e arroganza gli interessi dei potentati economici e, in Italia, quelli delle componenti più parassitarie del mondo capitalistico, - i partiti che, pur non esprimendo direttamente quegli interessi, ne condividono l’ideologia di fondo: per esempio, credono ancora che il Prodotto interno lordo sia l’unità di misura del livello di civiltà raggiunto, o che il termine “sviluppo” coincida con quello di continuo aumento della produzione e del consumo di merci indipendentemente dalla loro utilità umana e sociale, oppure che la governabilità sia più importante della democrazia; - i partiti che, pur esprimendo l’esigenza di una critica radicale al sistema economico-sociale e all’ideologia del liberalismo, non riescono a formulare un’analisi adeguata, a costruire su di essa un progetto di società e a dare gambe sociali a un’azione politica. Oggi siamo orfani della politica. Io credo allora che, pur senza rassegnarci a questa precaria condizione, dobbiamo lavorare su due referenti, nei confronti di due recapiti. In primo luogo, i movimenti che affiorano dalla società, e che aspirano a un superamento delle condizioni date. Essi crescono mese per mese: sono fragili, discontinui, spesso abbarbicati al “locale” da cui sono nati. Eppure, nonostante la loro attuale fragilità, testimoniano una volontà di impegnarsi in prima persona per cambiare le cose, e sempre più spesso, riescono ad aggregarsi in reti più ampie, a inventare strumenti per consolidarsi e dare durata alla loro azione, a comprendere meglio le cause da cui nascono i guasti contro i quali si ribellano. L’altro interlocutore cui dobbiamo guardare sono le istituzioni: i comuni, le province, le regioni, il parlamento. Naturalmente con maggiore attenzione per i primi, perché più sensibile al “locale”, cioè al luogo ove finora si manifesta la maggior pressione dei movimenti, ma non dimenticando mai che occorre avere una visione multiscalare: dal locale al globale, attraverso tutte le scale intermedia. Una visione corrispondente alle molteplici “patrie” di cui ciascuno di noi è cittadino: dal paese e dal quartiere, alla città, alla regione e alla nazione, all’Europa e al mondo. Le nostre istituzioni sono sempre più degradate e indeboliti dal modo in cui la politica dei partiti le ha asservite. É disarmante vedere come le istituzioni si siano rivelate – e si rivelino ogni giorno – incapaci di reagire al processo di vera e propria loro castrazione che sta procedendo ogni giorno di più. Il percorso del loro degrado è forse cominciato con lo spostamento dei poteri dagli organismi collegiali a quelli monocratici (dai consigli alle giunte e ai governi, da questi ai presidenti e ai sindaci), quando si è privilegiata la governabilità sulla democrazia. Sta raggiungendo ora traguardi parossistici con l’estensione del potere dei commissari (Guido Bertolaso docet), esentati da ogni obbligo di trasparenza e correttezza, affrancati da ogni vigilanza e controllo, investiti direttamente di potere dai vertici massimi del potere. E tuttavia, le istituzioni non possono essere lasciate al loro degrado. É forse dalla loro riconquista che una nuova politica delle città, nelle città e nelle piazze, deve ripartire. Intervenire a Babilonia Un’ultima questione vorrei porre al dibattito. Mi sono riferito fino ad ora alla città dell’esperienza storica europea. Ma in questa città – che noi ci proponiamo di riscattare dall’attuale situazione di degrado fisico e sociale – vive una porzione modestissima della popolazione del pianeta Terra. Miliardi di persone – di nostri simili – vivono in città “senz'ordine municipale, senza diritto, senza dignità”: nelle moderne Babilonie. Una parte di questa realta appartiene alla “infrastruttura globale” analizzata da Saskia Sassen e raccontata da John Ballard: il ponte di comando del pianeta. É la parte di Babilonia (e della città europea) dove vive il potere globale, e i suoi servi più prossimi. Un’altra parte appartiene al “pianeta degli slum”, studiato da David Harvey e dalle scuole marxiste e terzomondiste molto presenti al di là dell’Atlantico, dove si registrano i tassi più alti di miseria e disagio sociale. É la parte dell’habitat dell’uomo al quale si dirigono le attenzioni delle agenzie internazionali e delle ONG, nonché quelle delle forme contemporanee del colonialismo. Un’altra parte, intermedia fra le due, è l’habitat di quei ceti sempre più sospinti verso la povertà e l’emarginazione ma ancora affascinati dal sogno del possibile approdo alla ricchezza dei consumi opulenti. É forse il mondo sempre più popolato dagli “uomini vuoti gli uomini impagliati, che appoggiano l'un l'altro La testa piena di paglia”, cantati da Thomas Stearns Eliot [2]. La domanda su cui voglio chiudere questo intervento è questa: che cosa dobbiamo proporci di chiedere e di fare per queste moderne Babilonie, in che modo possiamo proporci di intervenire, secondo crfiteri che non siano né l’imposizione del nostro irripetibile “modello” né l’acritica accettazione della realtà di questi disperati paesaggi neo-urbani? Se è possibile nutrire ancora speranza nella capacità di riscatto e di progresso (progresso reale, non quello misurato dal PIL) del genere umano, forse è anche nell’universo delle nuove Babilonie che dobbiamo sforzarci di cogliere il germe di un futuro possibile: un futuro di una nuova civiltà urbana, che sia lo sviluppo di quella che abbiamo conosciuto ma non neghi – e anzi accolga e faccia germogliare – tutto ciò che di pienamente umano – e perciò anche pienamente sociale – lì si esprime e chiede ascolto e considerazione. Magari cominciando a concentrare la nostra attenzione sui brandelli di nuova Babilonia che sono già tra noi, ai margini e negli interstizi delle nostre orgogliose città della plurimillenaria tradizione europea [1]Carlo Cattaneo, La città considerata come principio ideale delle istorie italiane, in: Carlo Cattaneo, “La città come principio”, a cura di Manlio Brusatin, Marsilio Editori, 19853, p. 18. [2]Siamo gli uomini vuoti Siamo gli uomini impagliati Che appoggiano l'un l'altro La testa piena di paglia. Ahimè! Le nostre voci secche, quando noi Insieme mormoriamo Sono quiete e senza senso Come vento nell'erba rinsecchita O come zampe di topo sopra vetri infranti Nella nostra arida cantina
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