di Tonino Bucci Fonte: esserecomunisti
su Liberazione del 28/10/2010
Intervista a Guido Viale economista, esperto di politiche ambientali
La Fiat è incapace di competere con gli altri marchi automobilistici?
Marchionne, da imprenditore (ottocentesco), se la prende con la scarsa produttività degli operai italiani. Troppi diritti, troppe pause fisiologiche durante l'orario di lavoro in fabbrica, dice. Non una parola sul fatto che la sua Fiat non tira fuori un'idea innovativa da anni. Detto questo, fino a che punto però l'innovazione di qualità può rilanciare un settore maturo come quello dell'auto? Il pianeta e le nostre città non sono ormai sature di veicoli? Si può far finta di nulla e continuare a sfornare milioni di macchine? Ne parliamo con Guido Viale, economista e autore di saggi come Vita e morte dell'automobile (pubblicato nel 2007 da Bollati Boringhieri).
Continuare a contrapporre "produttivismo" ad "ambientalismo" non può generare equivoci? Perché mai un ambientalista non dovrebbe avere in testa un modello alternativo su come organizzare la produzione?
E' una pigrizia del nostro lessico. Io non uso il termine ambientale, preferisco parlare di un problema di vivibilità e sostenibilità, sia nel presente, sia nell'avvenire e in nome delle prossime generazioni. Dentro questo problema non c'è solo la "questione ambientale", ma anche l'occupazione e il reddito delle persone, la vivibilità e le condizioni entro cui si svolge la nostra vita. La rivolta di Tersigno contro la discarica ha dimostrato come questo problema sia ben presente nel comportamento delle persone. E' sì una questione ambientale perché la discarica è un impianto altamente inquinante. Ma lì c'è una lotta per tutelare la propria vita e la propria sopravvivenza come comunità locale. Nei paesi del sud del mondo, dall'India all'Africa al Sudamerica, non c'è neppure il problema di distinguere la tutela dell'ambiente dalla salvaguardia delle condizioni di vita. Sono tutt'uno.
Uno dei limiti che si imputano all'ambientalismo è di essere un pensiero critico sprovvisto di gambe. Dove sono le forze sociali disposte a farsene carico? Come si fa a parlare di ambiente a chi non arriva a fine mese?
Per anni si è detto che l'ambientalismo era una roba da snob, per privilegiati che non hanno problemi di sopravvivenza. In realtà c'è una fascia estesa di popolazione, sia a livello nazionale che planetario, che non ha una conoscenza chiara del problema ambientale ma solo perché ha un minore accesso all'istruzione e all'informazione, a differenza delle classi privilegiate. Questo porta a ignorare le cause del proprio malessere. E' da tempo che il problema della sopravvivenza e delle condizioni di vita di intere popolazioni ha direttamente a che fare con la salvaguardia dell'ambiente fisico e naturale, senza il quale non può svolgersi né una vita né un'attività produttiva.
Una diversa economia sostenibile si può realizzare in un capitalismo "ben regolato" oppure trascende i limiti dell'attuale sistema economico?
Rischia di essere solo una questione lessicale. Avrebbe senso se ci fosse, da un lato, un modello di capitalismo unico e immodificabile e dall'altro un'alternativa che si chiama socialismo o comunismo, anch'essa predefinita. In realtà, il mondo in cui ci troviamo a operare è un solo mondo. Il problema è affrontare negli attuali rapporti di forza le questioni che più incidono sulle condizioni di vita.
Il movimento è tutto, si diceva una volta. Quel che conta è la trasformazione, no?
Non vedo altra soluzione, altrimenti si finisce col discettare dei massimi sistemi. Bisogna individuare le leve di un cambiamento possibile che risiedono sempre, in ultima analisi, nelle fasce sociali più colpite dalla crisi, cioè nei soggetti reali e nel loro grado di consapevolezza e informazione.
Si è acceso un dibattito sul futuro dell'auto. Manca l'innovazione, si dice. Ma ha ancora senso sfornare milioni di veicoli? Le nostre città non sono già abbastanza intasate?
Non penso che si possa continuare così. Quello che per Marchionne è un problema di produttività, in realtà è un problema di saturazione, dei mercati ma soprattutto dei territori. Non ci sono più gli spazi fisici per immettere ulteriormente automobili. Non c'è più atmosfera sufficiente per le emissioni che le auto provocano, stimate al quattordici per cento delle intere emissioni dei gas serra nel pianeta, alle quali vanno aggiunte le emissioni causate dalla produzione dei veicoli. E poi c'è l'impatto delle infrastrutture, strade, gallerie, ponti, per non parlare dello sprawling urbano. Non è possibile continuare ad asfaltare territorio sottraendolo a usi produttivi e naturalistici. Infine, c'è un problema di utilizzo scriteriato di risorse. L'automobile è il mezzo meno efficiente, per trasportare una persona deve muovere una tonnellata di materiale. Il problema che Marchionne, da imprenditore, individua nella produttività dipende solo in minima parte dall'efficienza degli stabilimenti. Se altri marchi automobilistici risultano più competitivi dipende dal fatto che hanno impiegato le risorse dello Stato ben oltre quello che la Fiat ha fatto negli ultimi tempi. Questa è una competizione anche tra Stati oltre che tra gruppi industriali e operai di paesi diversi.
Perché non mettere al centro della discussione l'idea del controllo pubblico sulla produzione? Non è tempo di intervenire nelle decisioni su cosa, come e in nome di quali interessi produrre?
E' una vecchia diatriba tra pianificazione e mercato. Per anni si è contrapposto il socialismo che pianificava al capitalismo che operava attraverso regole di mercato. Pianificare non significa decidere quante tonnellate di acciaio produrre, ma prendere decisioni collettive su cosa produrre. Impianti fotovoltaici o automobili? Burro o cannoni? Vivibilità urbana o autostrade? Queste sono scelte di pianificazione di interesse pubblico, sulle quali tutti possono intervenire senza dover essere economisti o specialisti.
Ma la proprietà statale, da sola, è sufficiente a garantire il carattere "pubblico" di queste decisioni?
Non è una questione di proprietà statale, ma di partecipazione dei cittadini alle scelte fondamentali che caratterizzano l'assetto del territorio e dell'organizzazione sociale in cui vivono. E del futuro. Questa è la base della democrazia e di una possibile pianificazione in termini di beni d'uso e non di semplici quantità economiche. Pianificare significherebbe poi anche decidere in ogni singola unità produttiva, in ogni singolo territorio, quali tecnologie utilizzare, quale organizzazione del lavoro, quali materiali. Certo, man mano che si scende nel dettaglio diventa importante la partecipazione di personale tecnico, ma viste le conseguenze sociali di queste scelte, è bene che tutti possano pronunciarsi.
su Liberazione del 28/10/2010
Intervista a Guido Viale economista, esperto di politiche ambientali
La Fiat è incapace di competere con gli altri marchi automobilistici?
Marchionne, da imprenditore (ottocentesco), se la prende con la scarsa produttività degli operai italiani. Troppi diritti, troppe pause fisiologiche durante l'orario di lavoro in fabbrica, dice. Non una parola sul fatto che la sua Fiat non tira fuori un'idea innovativa da anni. Detto questo, fino a che punto però l'innovazione di qualità può rilanciare un settore maturo come quello dell'auto? Il pianeta e le nostre città non sono ormai sature di veicoli? Si può far finta di nulla e continuare a sfornare milioni di macchine? Ne parliamo con Guido Viale, economista e autore di saggi come Vita e morte dell'automobile (pubblicato nel 2007 da Bollati Boringhieri).
Continuare a contrapporre "produttivismo" ad "ambientalismo" non può generare equivoci? Perché mai un ambientalista non dovrebbe avere in testa un modello alternativo su come organizzare la produzione?
E' una pigrizia del nostro lessico. Io non uso il termine ambientale, preferisco parlare di un problema di vivibilità e sostenibilità, sia nel presente, sia nell'avvenire e in nome delle prossime generazioni. Dentro questo problema non c'è solo la "questione ambientale", ma anche l'occupazione e il reddito delle persone, la vivibilità e le condizioni entro cui si svolge la nostra vita. La rivolta di Tersigno contro la discarica ha dimostrato come questo problema sia ben presente nel comportamento delle persone. E' sì una questione ambientale perché la discarica è un impianto altamente inquinante. Ma lì c'è una lotta per tutelare la propria vita e la propria sopravvivenza come comunità locale. Nei paesi del sud del mondo, dall'India all'Africa al Sudamerica, non c'è neppure il problema di distinguere la tutela dell'ambiente dalla salvaguardia delle condizioni di vita. Sono tutt'uno.
Uno dei limiti che si imputano all'ambientalismo è di essere un pensiero critico sprovvisto di gambe. Dove sono le forze sociali disposte a farsene carico? Come si fa a parlare di ambiente a chi non arriva a fine mese?
Per anni si è detto che l'ambientalismo era una roba da snob, per privilegiati che non hanno problemi di sopravvivenza. In realtà c'è una fascia estesa di popolazione, sia a livello nazionale che planetario, che non ha una conoscenza chiara del problema ambientale ma solo perché ha un minore accesso all'istruzione e all'informazione, a differenza delle classi privilegiate. Questo porta a ignorare le cause del proprio malessere. E' da tempo che il problema della sopravvivenza e delle condizioni di vita di intere popolazioni ha direttamente a che fare con la salvaguardia dell'ambiente fisico e naturale, senza il quale non può svolgersi né una vita né un'attività produttiva.
Una diversa economia sostenibile si può realizzare in un capitalismo "ben regolato" oppure trascende i limiti dell'attuale sistema economico?
Rischia di essere solo una questione lessicale. Avrebbe senso se ci fosse, da un lato, un modello di capitalismo unico e immodificabile e dall'altro un'alternativa che si chiama socialismo o comunismo, anch'essa predefinita. In realtà, il mondo in cui ci troviamo a operare è un solo mondo. Il problema è affrontare negli attuali rapporti di forza le questioni che più incidono sulle condizioni di vita.
Il movimento è tutto, si diceva una volta. Quel che conta è la trasformazione, no?
Non vedo altra soluzione, altrimenti si finisce col discettare dei massimi sistemi. Bisogna individuare le leve di un cambiamento possibile che risiedono sempre, in ultima analisi, nelle fasce sociali più colpite dalla crisi, cioè nei soggetti reali e nel loro grado di consapevolezza e informazione.
Si è acceso un dibattito sul futuro dell'auto. Manca l'innovazione, si dice. Ma ha ancora senso sfornare milioni di veicoli? Le nostre città non sono già abbastanza intasate?
Non penso che si possa continuare così. Quello che per Marchionne è un problema di produttività, in realtà è un problema di saturazione, dei mercati ma soprattutto dei territori. Non ci sono più gli spazi fisici per immettere ulteriormente automobili. Non c'è più atmosfera sufficiente per le emissioni che le auto provocano, stimate al quattordici per cento delle intere emissioni dei gas serra nel pianeta, alle quali vanno aggiunte le emissioni causate dalla produzione dei veicoli. E poi c'è l'impatto delle infrastrutture, strade, gallerie, ponti, per non parlare dello sprawling urbano. Non è possibile continuare ad asfaltare territorio sottraendolo a usi produttivi e naturalistici. Infine, c'è un problema di utilizzo scriteriato di risorse. L'automobile è il mezzo meno efficiente, per trasportare una persona deve muovere una tonnellata di materiale. Il problema che Marchionne, da imprenditore, individua nella produttività dipende solo in minima parte dall'efficienza degli stabilimenti. Se altri marchi automobilistici risultano più competitivi dipende dal fatto che hanno impiegato le risorse dello Stato ben oltre quello che la Fiat ha fatto negli ultimi tempi. Questa è una competizione anche tra Stati oltre che tra gruppi industriali e operai di paesi diversi.
Perché non mettere al centro della discussione l'idea del controllo pubblico sulla produzione? Non è tempo di intervenire nelle decisioni su cosa, come e in nome di quali interessi produrre?
E' una vecchia diatriba tra pianificazione e mercato. Per anni si è contrapposto il socialismo che pianificava al capitalismo che operava attraverso regole di mercato. Pianificare non significa decidere quante tonnellate di acciaio produrre, ma prendere decisioni collettive su cosa produrre. Impianti fotovoltaici o automobili? Burro o cannoni? Vivibilità urbana o autostrade? Queste sono scelte di pianificazione di interesse pubblico, sulle quali tutti possono intervenire senza dover essere economisti o specialisti.
Ma la proprietà statale, da sola, è sufficiente a garantire il carattere "pubblico" di queste decisioni?
Non è una questione di proprietà statale, ma di partecipazione dei cittadini alle scelte fondamentali che caratterizzano l'assetto del territorio e dell'organizzazione sociale in cui vivono. E del futuro. Questa è la base della democrazia e di una possibile pianificazione in termini di beni d'uso e non di semplici quantità economiche. Pianificare significherebbe poi anche decidere in ogni singola unità produttiva, in ogni singolo territorio, quali tecnologie utilizzare, quale organizzazione del lavoro, quali materiali. Certo, man mano che si scende nel dettaglio diventa importante la partecipazione di personale tecnico, ma viste le conseguenze sociali di queste scelte, è bene che tutti possano pronunciarsi.
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