Autore: Ravaioli, Carla Fonte: Eddyburg.it
Il pensiero di un economista, libero dal pensiero mainstream, ma rigoroso come è necessario essere quando ci si propone obiettivi all’altezza della crisi.
Il pensiero di un economista, libero dal pensiero mainstream, ma rigoroso come è necessario essere quando ci si propone obiettivi all’altezza della crisi.
Il manifesto, 28 ottobre 2010
Decrescita o diverso modello di sviluppo?
Decrescita o diverso modello di sviluppo?
Le contraddizioni del capitalismo, i ritardi della sinistra sulla questione ambientale, l'assuefazione a considerarci tutti consumatori.
E le lungimiranti analisi dell'economista Georgescu-Rogen che già negli anni '70 rifletteva su guerra, demografia, stili di vita La crescita del prodotto è lo strumento perseguito per il superamento della crisi. Una politica criticata dall' ambientalismo più qualificato.
Tu che ne pensi?
Credo che come valore principale si dovrebbe pensare non tanto alla crescita, quanto a un diverso modello di sviluppo economico, rispettoso della natura. Tuttavia diffido della parola "decrescita", mi pare sia un errore dei sostenitori di questa tesi, peraltro preparati, agguerriti, intelligenti ... Non si tratta di decrescita, ma di adottare stili di vita diversi.
Se ciò fosse tecnicamente concepibile, bisognerebbe però vedere se l'umanità è disposta ad aderire a un modello di questo genere: e questo è un problema politico.
Già, la gente ha assunto la crescita ormai come norma di vita.
Certo. Bisogna però ricordare che, per tutta la prima fase del capitalismo, la crescita è stata provvidenziale; e lo è ancora nei paesi poveri. Il superamento delle condizioni di miseria del primo capitalismo, durato in pratica tutto l'800, è stato un fatto straordinario.
Quanto poi alla capacità di crescita attuale va detto che non tutto il mondo ne è capace. Alcuni paesi - Cina, India, Brasile - lo sono, e ovviamente aggravano le condizioni ambientali.
Ma nel resto del mondo, il capitalismo non è nemmeno più capace di crescita.
Infatti. C'è questo doppio problema. La crescita - a parte la sua ricaduta negativa sull'ecosistema - sembra non funzionare più...
Una delle ragioni per le quali non funziona più è che negli ultimi trent'anni le modalità della crescita capitalistica hanno generato disoccupazione e disuguaglianze: i ricchi sono diventati più ricchi, i poveri più poveri ...
E questo ha provocato la crisi attuale: se i redditi da lavoro sono bassi, è bassa la domanda effettiva, l'economia non cresce e i capitali si spostano sulla finanza, con i risultati che abbiamo visto.
Il capitalismo non tiene più ?
Credo proprio che lo si possa dire: lo si vede. E al fondo credo ci sia una questione su cui era stato molto chiaro Marx, quando scrive, nelle ultime pagine del III libro del Capitale, che il «processo lavorativo è soltanto un processo tra l'uomo e la natura».
Se ci si riflette, qualsiasi processo produttivo, per quanto complesso, mediato da macchine, ecc., alla fine è un rapporto tra uomo e natura.
Da tempo mi domando come sia possibile che grandi economisti, imprenditori, politici (a Davos, Cernobbio, Capri...) discutano del futuro del mondo senza nemmeno nominare l'ambiente.
Come se le merci che producono non fossero fatte di natura...
Un fatto che qualsiasi persona di buon senso dovrebbe considerare ... Nelle forme primitive di economia il rapporto tra uomo e natura attraverso il lavoro era immediato ed evidente; ma anche il lavoro moderno, tecnicamente più complesso, alla fine risulta essere un rapporto, seppure mediato, tra uomo e natura.
Allora si può dire che tendenzialmente si genera un conflitto tra lo sviluppo materiale della produzione e la sua forma sociale; e che così come ci sono dei limiti al saggio di sfruttamento del lavoro, oltre il quale si danno crisi economiche, così esiste un limite al saggio di sfruttamento della natura, oltre il quale si danno crisi della stessa natura.
D'altronde questa sproporzione tra disponibilità di natura e uso della medesima è un fatto recente, che appartiene al capitalismo, ma è enormemente aumentata nel dopoguerra, con la società dei consumi.
Certamente. E su questo credo si debba riflettere partendo dal pensiero di Georgescu-Roegen, un grande economista poco noto; il quale ci ricorda che anche il processo produttivo è regolato dalle leggi della termodinamica, e che per la legge dell'entropia la materia è soggetta a una dissipazione irreversibile.
Ciò significa che nel lungo periodo, ma non tanto lungo, la decrescita non sarà una scelta, ma un fatto di natura: la legge della termodinamica funziona per tutti. Da ciò Georgescu non trae però conclusioni catastrofiche.
Sì domanda invece: si potrebbe fare qualcosa?
La sua risposta è sì: e si articola in un programma bioeconomico minimale, formulato in otto punti.
Il primo afferma che dovrebbe essere proibita non solo la guerra, ma anche la produzione di ogni strumento bellico. E non solo per ragioni morali, ma perché le forze produttive così liberate potrebbero essere impiegate al fine di consentire ai paesi sottosviluppati di raggiungere rapidamente gli standard di una vita buona.
Perché un progetto di diverso sviluppo deve essere condiviso a livello universale, altrimenti non può funzionare. Inoltre - afferma Georgescu - la popolazione mondiale dovrebbe ridursi fino a renderne possibile la nutrizione mediante la sola agricoltura organica.
Ma oggi la questione demografica non viene nemmeno posta ... Anzi, si lamenta la denatalità, e quindi la caduta di consumi come carrozzelle, pannolini , ecc.
Ormai dell'umanità, di tutti noi, si parla non più come di lavoratori, ma solo come di consumatori. E anche a questo proposito bisogna tenere presente che anche quando (se mai giorno verrà) le energie rinnovabili saranno davvero convenienti e sicure, i risparmi che ne avremo saranno molto minori di quanto ci si promette.
Ogni spreco di energia deve dunque essere evitato: mentre normalmente noi viviamo troppo al caldo d'inverno, troppo al freddo d'estate, spingiamo l'automobile a troppa velocità, usiamo troppe lampadine ...
Il programma di Georgescu dice poi molto altro: dovremmo rinunciare ai troppi prodotti inutili; liberarci dalla moda di sostituire abiti, mobili, elettrodomestici, e quanto è ancora utile; i beni durevoli devono essere ancor più durevoli e perciò riparabili.
L'ultimo punto è che dobbiamo liberarci dalla frenesia del fare, e capire che requisito importante per una buona vita è l'ozio.
Ozio - aggiungo io - inteso come tempo libero liberato dall'ansia e impiegato in maniera intelligente. E su questo credo non si possa non convenire, per rinviare il momento del disordine e nel frattempo vivere una vita migliore.
Però, domanda politica: siamo pronti, noi per primi, ma soprattutto i potenti della terra, a fare nostro il programma di Georgescu?
Questa era la domanda che ti volevo porre. Anche perché Georgescu-Roegen scriveva negli anni '70, quando ancora il consumo non si era ancora imposto come fattore primo di definizione della vita ...
Infatti. E la cosa interessante è che il programma di Georgescu richiama un famoso scritto di Keynes (del 1930): Le prospettive economiche per i nostri nipoti. Molti di questi punti lì c'erano già: guerra, problema demografico, stili di vita, tempo libero ...
Due autori di grande statura che avevano precocemente colto il punto, insistendo sulla desiderabilità di altri stili di vita...
Anche se Georgescu ragiona in maniera più direttamente funzionale alla difesa della natura. Rimane comunque la domanda: siamo pronti?
Nessuno è pronto, temo. Ma, passando a un altro argomento: le sinistre sono sempre state assenti riguardo al tema ambiente, e talora su posizioni nettamente ostili. In ciò contraddicendo la loro stessa funzione, perché per lo più sono i poveri a pagare inquinamento, alluvioni, desertificazioni, tossicità diffusa ...
Eppoi perché, insomma, le sinistre sono nate contro il capitalismo: non toccherebbe a loro per prime occuparsi di un problema che proprio dal capitalismo deriva?
Questa tradizione non ambientalista delle sinistre è dipesa anche da uno scarso approfondimento di questi temi. Mentre curiosamente l' hanno fatto un paio di capitalisti illuminati.
Io di solito diffido della definizione di "capitalisti illuminati", tuttavia due debbo ricordarli.
Uno, il senatore Giovanni Agnelli, che nei primi anni trenta sosteneva la necessità di una riduzione dell'orario di lavoro, in dura polemica con un preoccupatissimo Luigi Einaudi.
L'altro, Henry Ford con la sua politica di alti salari (che molto interessò Antonio Gramsci): i lavoratori devono essere ben pagati, affinché possano comperare le merci che essi stessi producono.
Un'iniziativa che in sintesi già prefigurava la società dei consumi...
Certamente. Ma la cosa interessante è che Kojève, il grande intellettuale studioso di Hegel, russo d'origine poi approdato in Francia, diceva che Ford era il Marx del XX secolo: per aver colto la contraddizione e il rischio di lavoratori che non potevano comperare ciò che essi stessi producevano. Un tema caro anche a Claudio Napoleoni, quando diceva che il lavoratore si trova davanti, come nemico, ciò che egli stesso ha prodotto.
Ford non era mica un sant'uomo, era durissimo coi sindacati, ma da un punto di vista strettamente economico aveva colto il problema.
D'altronde nemmeno Keynes voleva abbattere il capitalismo: voleva farlo funzionare meglio, anzi salvarlo, come dichiarava esplicitamente. Mentre molti parlavano di lui come di un bolscevico, a cominciare proprio da Einaudi.
Ma per tornare alla tua domanda circa le sinistre di oggi, la mia risposta è in interrogativo: dove sono oggi le sinistre?
Queste tante piazze piene di gente, di giovani soprattutto, queste manifestazioni sempre più frequenti, molto spesso centrate proprio su problemi ecologici: acqua, nucleare, rifiuti, distruzione di parchi, cementificazione di litorali ....
Non significa nulla tutto questo? Se ci pensi, questi tanti conflitti "minori", diciamo, sono tutti riconducibili alla radice capitalista. Un'analisi in qualche misura approfondita scopre che la radice è sempre l'impianto capitalistico.
Queste sinistre, possibile che non se ne accorgano? Che non vedano che questa potrebbe essere una base da cui partire?
Tutto questo è però molto frammentato, manca la sintesi, quindi manca quella che potrebbe essere la base concettuale e ideale di un progetto di sinistra ...
Certo, questo dovrebbe essere il compito della sinistra: portare a sintesi tutte le istanze nobili e progressiste ... Ma questa è una sensibilità che mi pare manchi alle sinistre ...
L'unico che aveva provato a ragionare di queste cose, era stato Berlinguer con il suo discorso sull'austerità.
Era un discorso molto alto, che toccava proprio i temi di cui abbiamo parlato; tanto alto che non era stato capito, e letto addirittura come un invito ai compagni a tirare la cinghia.
GIORGIO LUNGHINI Laureato all'università Bocconi di Milano, Giorgio Lunghini ha diretto per un decennio l'Istituto di economia e in seguito il Dipartimento di economia politica e metodi quantitativi all'università di Pavia, dove inoltre ha fondato il Dottorato di economia politica. Lunghini è membro direttivo del periodico "Economia Politica" e della "Rivista di storia economica". È stato membro del consiglio degli esperti economici della Presidenza del consiglio durante il governo D'Alema, e vicepresidente della Società italiana degli economisti per il triennio 2001/2004. I suoi campi di interesse riguardano la teoria del valore, del capitale e della distribuzione, della critica dell'economia politica, come anche della teoria della crescita e dell'occupazione. Tra le sue pubblicazioni citiamo "Valori e prezzi" (1993); "L'età dello spreco. Disoccupazione e bisogni sociali" (1995); "Riproduzione, distribuzione e crisi (1996); "Sul capitalismo contemporaneo: i nuovi compiti dello stato", scritto con M. Aglietta (2001)
Nessun commento:
Posta un commento