Ricchezza e tecnologia per pochi e povertà e insicurezze per moltissimi, distruzione dell’ecosistema e crescita della delinquenza: questi, e troppi altri, gli effetti del neoliberismo globale che i padroni del mercato perpetrano a tutti i costi (altrui).
di Giorgio Bocca, da MicroMega
Nessuno sa quale sarà il futuro del mondialismo neoliberista, quali effetti sociali e politici avrà nei prossimi decenni. Ma nel presente alcune sue connotazioni sono di una feroce chiarezza. La prima è quella della forbice fra ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri, che vale sia per i paesi avanzati che per il Terzo Mondo. La mitica marea del progresso che doveva sollevare tutte le barche non ha funzionato neppure nei dieci più ricchi paesi del pianeta. Negli ultimi quindici anni i profitti del capitale in questa area privilegiata sono aumentati del 300 e passa per cento, ma i salari dei lavoratori sono rimasti stazionari, solo perché le donne sono entrate in massa nella produzione. E si sono allargate le sacche di povertà: nella florida Francia, Secours Catholique assiste 800 mila famiglie, 600 mila persone sono senza casa, e a Milano – la più ricca città italiana, con una popolazione di un milione e mezzo di persone – 300 mila sono sulla soglia della povertà. Fra paesi ricchi e paesi poveri siamo a diversità abissali: il primato è toccato al rapporto Svizzera-Mozambico, passato in due secoli dal 5 al 400 a 1. Nell’America Latina e in Africa aumenta una povertà che si nasconde, che è quasi impossibile censire. Solo la metà del genere umano ha luce elettrica e telefono, un terzo ignora la tecnologia moderna, un miliardo di lavoratori ha paghe giornaliere inferiori alle 500 lire e anche nei paesi opulenti 160 milioni non superano le 2.000 lire.
Trentacinque disoccupati nel mondo povero, 8 in quello ricco, dove il paese più ricco, gli Stati Uniti, consuma 8 volte più energia che l’intera Africa.
Ricchi sempre più divisi dai poveri. Negli Stati Uniti ci sono 30 mila comunità blindate, circondate da muri e inferriate, guardate da uomini in armi. E quasi a misura della ricchezza aumentano la società penitenziaria e l’analfabetismo di ritorno. L’élite militare tecnologica progetta lo sbarco su Marte, ma i milioni del popolo basso corrono perennemente dietro le virtualità del nuovo mercato. È molto difficile definire il neoliberismo, che non si sa bene dove vada fra i successi dei pochi e le delusioni dei molti. Doveva ridurre il tempo del lavoro, ma nel più ricco Stato dell’Unione, la California, è aumentato rispetto a 15 anni fa di 5 ore la settimana. Lavorano ossessivamente anche quelli della società alta: orari e contabilità sono continuamente superati dalla corsa al profitto. Chi entra nella rete informatica deve essere raggiungibile in qualsiasi ora, il patriottismo aziendale non ammette eccezioni. Una tendenza costante della nuova società del profitto è di far ricadere sulla collettività spese e sprechi che sono della minoranza ricca. Non si contabilizzano l’aumento del lavoro e la diminuzione del salario dovuti alla flessibilità; in qualsiasi evento i profitti della pubblicità, che dipende dai padroni, sono enormemente più grandi di ciò che va alla comparsata. La trasmissione il Grande fratello è stata la metafora del banchetto di una rete televisiva e delle briciole rimaste ai poveretti che pensavano di salire nell’Olimpo passeggiando in mutande in una finta casa.
Alla supersocietà il bene collettivo interessa poco o niente. Nessuna azienda tiene il conto di quanto è costato il saccheggio privato del suolo e del sottosuolo, dell’aria come dell’acqua. Appena arrivato al potere il suo capofila George Bush ha deciso che i ricchi hanno il diritto di ignorare la difesa dell’ambiente, di trivellare pozzi di petrolio non solo nell’incontaminata Alaska, ma anche nei parchi nazionali, e da noi gli hanno fatto eco il nuovo presidente del Consiglio e il suo ministro dell’Ambiente, Matteoli. La caduta del Muro di Berlino e la rivincita del capitalismo anarcoide hanno accelerato la tendenza, si direbbe quasi il destino di questa privata avidità che trasforma con perversa genialità ogni ostacolo in un vantaggio, ogni danno sociale in un merito. Non c’è un problema creato dalla pubblica amministrazione – persino la crescita dei devianti, dei delinquenti – che non si trasformi in una campagna a spese dello Stato e a vantaggio dei ricchi.
Il sociologo Alexander Zinov’ev sostiene che il nuovo imperialismo non è l’opera di uno Stato dominante, ma di una supersocietà composta da 50 o 60 milioni di individui, in essa cooptati, che dominano il mondo non più separati dai confini e dalle classi, ma padroni della conoscenza e – fatto mai avvenuto nella storia – con il monopolio dell’informazione. Può darsi che questa idea della supersocietà, come quella brigatista dello Stato imperialista delle multinazionali, sia schematica, uscita da una fantasia letteraria che trova forme compiute anche nel caos del mondo. Ma un nuovo potere non istituzionalizzato che sta al centro del globalismo, che è la sostanza del globalismo, è sempre più avvertibile e onnipresente.
Eccone alcune manifestazioni rivelatrici. Il neoliberismo mondializzato ignora e disprezza le vecchie ideologie utopiche, ma è esso stesso alta politica e alta utopia che procede per dogmi e ignora ciò che lo ostacola. In tutti i convegni del nuovo potere dove arrivano scienziati, imprenditori, finanzieri, uomini di governo, sono di prammatica i discorsi sull’efficienza, soprattutto quello sulla flessibilità – che come ognuno sa tende ad abolire il lavoro garantito, legato al territorio, per sostituirlo con lavori a tempo, in continuo mutamento, sottratti ad ogni difesa sindacale. Il 65 per cento di questi nuovi posti, come li chiamano, sono nei servizi, ma servizi di nuovo tipo: non per la collettività, ma per le minoranze ricche che li usano per risparmiare tempo o per procurarsi comodi. Lavori che, nel loro complesso, tendono ad annullare le classi, la loro mobilitazione, la loro partecipazione a lotte sociali, per formare un amorfo esercito di servitori e di clienti: una società servile, simile a quella delle civiltà contadine, ma più fluida e più impotente, legata alla diversità e all’innocuità sociale del suo servile contributo.
La sociologa Saskia Sassen ha descritto questa nuova umanità del lavoro sottomesso ed elastico, pronta a basso costo a tutte le richieste. I risultati politici di questa trasformazione sociale sono sotto gli occhi di tutti: la progressiva scomparsa degli operai o almeno della loro coscienza di classe, la loro indifferenza politica, il voto moderato anche nelle province rosse. Ma c’è un segno anche più impressionante della nuova ideologia dominante: in tutti i convegni della nuova ricchezza il discorso sull’efficienza e sull’innovazione si blocca improvvisamente quando si dovrebbe discutere dei loro effetti sociali. Nessuno, neppure per sbaglio o distrazione, si permette di affrontarli, si vorrebbe dire di rievocarli. Non sono «politicamente corretti», non rispettano la regola del parlar d’altro come fecero i padroni della rivoluzione industriale inglese: quando si incontravano in società parlavano del tempo, del paesaggio, dei cavalli, ma non della drammatica mutazione che fece milioni di morti.
Non si parla degli effetti sociali neppure quando si parla di mutazioni tecniche e produttive che certamente ne avranno di enormi. Per anni i tecnici della supersocietà hanno rifiutato contro l’evidenza di ammettere una verità lapalissiana: che macchine ideate per risparmiare il tempo del lavoro e l’intervento umano avrebbero non solo aumentato la disoccupazione, ma anche mutato i valori del lavoro. La stessa propaganda che provocò la fuga quasi panica dalle campagne negli anni Cinquanta ha avuto la sua notevole parte nella fuga dalle fabbriche e nella distruzione del mito operaio. Fra le tante favole messe in giro dalla nuova ideologia pare si stia rinunciando alla più favolosa, quella del tempo libero, annunciato come il tempo della libertà e della creatività. Ora tutti coloro che inseguono il lavoro che non c’è o che non è più identificazione sanno che cosa è questo tempo libero: un vuoto umiliante, la giornata passata a guardar la televisione – la grande scuola dell’analfabetismo di ritorno dell’italiano medio che ripete dei luoghi comuni pubblicitari e non sa più neppure cosa è il paese in cui è nato.
Un altro segno della supersocietà in cui milioni di persone sono educate a perseguire il profitto, ignorando o disprezzando tutti gli altri impegni civili, viene dal lusso di massa ostentato. Se l’unico valore sociale oggi esistente è fare soldi, entrare nelle schiere dei ricchi, la sua ostentazione a mezzo di status symbol diventa una delle occupazioni più cercate. C’è un solo guaio, che le fabbriche di automobili di lusso e i cantieri navali non riescono a tener dietro alla domanda: si fa la fila per mesi prima di avere una Ferrari o un quindici metri, ci si batte a suon di miliardi per i nuovi circenses, campionati di calcio o di Formula Uno, corrono stipendi faraonici da scopritori di galeoni d’oro nel Mar dei Sargassi, da antiquari, da prime donne. Investimenti opportunamente legati a evasioni fiscali, come lo è in gran parte la beneficenza miliardaria e impudica che segue le sfilate di moda o le partite fra cantanti e attori. Il tempo in cui gli Agnelli vestivano alla marinara e si chiudevano nella loro villa in Versilia o nel Levante ligure è finito. Ora è il tempo dei nuovi ricchi, che sostituiscono i Vanderbilt o i Rothschild nella Coppa America.
(26 dicembre 2011)
di Giorgio Bocca, da MicroMega
Nessuno sa quale sarà il futuro del mondialismo neoliberista, quali effetti sociali e politici avrà nei prossimi decenni. Ma nel presente alcune sue connotazioni sono di una feroce chiarezza. La prima è quella della forbice fra ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri, che vale sia per i paesi avanzati che per il Terzo Mondo. La mitica marea del progresso che doveva sollevare tutte le barche non ha funzionato neppure nei dieci più ricchi paesi del pianeta. Negli ultimi quindici anni i profitti del capitale in questa area privilegiata sono aumentati del 300 e passa per cento, ma i salari dei lavoratori sono rimasti stazionari, solo perché le donne sono entrate in massa nella produzione. E si sono allargate le sacche di povertà: nella florida Francia, Secours Catholique assiste 800 mila famiglie, 600 mila persone sono senza casa, e a Milano – la più ricca città italiana, con una popolazione di un milione e mezzo di persone – 300 mila sono sulla soglia della povertà. Fra paesi ricchi e paesi poveri siamo a diversità abissali: il primato è toccato al rapporto Svizzera-Mozambico, passato in due secoli dal 5 al 400 a 1. Nell’America Latina e in Africa aumenta una povertà che si nasconde, che è quasi impossibile censire. Solo la metà del genere umano ha luce elettrica e telefono, un terzo ignora la tecnologia moderna, un miliardo di lavoratori ha paghe giornaliere inferiori alle 500 lire e anche nei paesi opulenti 160 milioni non superano le 2.000 lire.
Trentacinque disoccupati nel mondo povero, 8 in quello ricco, dove il paese più ricco, gli Stati Uniti, consuma 8 volte più energia che l’intera Africa.
Ricchi sempre più divisi dai poveri. Negli Stati Uniti ci sono 30 mila comunità blindate, circondate da muri e inferriate, guardate da uomini in armi. E quasi a misura della ricchezza aumentano la società penitenziaria e l’analfabetismo di ritorno. L’élite militare tecnologica progetta lo sbarco su Marte, ma i milioni del popolo basso corrono perennemente dietro le virtualità del nuovo mercato. È molto difficile definire il neoliberismo, che non si sa bene dove vada fra i successi dei pochi e le delusioni dei molti. Doveva ridurre il tempo del lavoro, ma nel più ricco Stato dell’Unione, la California, è aumentato rispetto a 15 anni fa di 5 ore la settimana. Lavorano ossessivamente anche quelli della società alta: orari e contabilità sono continuamente superati dalla corsa al profitto. Chi entra nella rete informatica deve essere raggiungibile in qualsiasi ora, il patriottismo aziendale non ammette eccezioni. Una tendenza costante della nuova società del profitto è di far ricadere sulla collettività spese e sprechi che sono della minoranza ricca. Non si contabilizzano l’aumento del lavoro e la diminuzione del salario dovuti alla flessibilità; in qualsiasi evento i profitti della pubblicità, che dipende dai padroni, sono enormemente più grandi di ciò che va alla comparsata. La trasmissione il Grande fratello è stata la metafora del banchetto di una rete televisiva e delle briciole rimaste ai poveretti che pensavano di salire nell’Olimpo passeggiando in mutande in una finta casa.
Alla supersocietà il bene collettivo interessa poco o niente. Nessuna azienda tiene il conto di quanto è costato il saccheggio privato del suolo e del sottosuolo, dell’aria come dell’acqua. Appena arrivato al potere il suo capofila George Bush ha deciso che i ricchi hanno il diritto di ignorare la difesa dell’ambiente, di trivellare pozzi di petrolio non solo nell’incontaminata Alaska, ma anche nei parchi nazionali, e da noi gli hanno fatto eco il nuovo presidente del Consiglio e il suo ministro dell’Ambiente, Matteoli. La caduta del Muro di Berlino e la rivincita del capitalismo anarcoide hanno accelerato la tendenza, si direbbe quasi il destino di questa privata avidità che trasforma con perversa genialità ogni ostacolo in un vantaggio, ogni danno sociale in un merito. Non c’è un problema creato dalla pubblica amministrazione – persino la crescita dei devianti, dei delinquenti – che non si trasformi in una campagna a spese dello Stato e a vantaggio dei ricchi.
Il sociologo Alexander Zinov’ev sostiene che il nuovo imperialismo non è l’opera di uno Stato dominante, ma di una supersocietà composta da 50 o 60 milioni di individui, in essa cooptati, che dominano il mondo non più separati dai confini e dalle classi, ma padroni della conoscenza e – fatto mai avvenuto nella storia – con il monopolio dell’informazione. Può darsi che questa idea della supersocietà, come quella brigatista dello Stato imperialista delle multinazionali, sia schematica, uscita da una fantasia letteraria che trova forme compiute anche nel caos del mondo. Ma un nuovo potere non istituzionalizzato che sta al centro del globalismo, che è la sostanza del globalismo, è sempre più avvertibile e onnipresente.
Eccone alcune manifestazioni rivelatrici. Il neoliberismo mondializzato ignora e disprezza le vecchie ideologie utopiche, ma è esso stesso alta politica e alta utopia che procede per dogmi e ignora ciò che lo ostacola. In tutti i convegni del nuovo potere dove arrivano scienziati, imprenditori, finanzieri, uomini di governo, sono di prammatica i discorsi sull’efficienza, soprattutto quello sulla flessibilità – che come ognuno sa tende ad abolire il lavoro garantito, legato al territorio, per sostituirlo con lavori a tempo, in continuo mutamento, sottratti ad ogni difesa sindacale. Il 65 per cento di questi nuovi posti, come li chiamano, sono nei servizi, ma servizi di nuovo tipo: non per la collettività, ma per le minoranze ricche che li usano per risparmiare tempo o per procurarsi comodi. Lavori che, nel loro complesso, tendono ad annullare le classi, la loro mobilitazione, la loro partecipazione a lotte sociali, per formare un amorfo esercito di servitori e di clienti: una società servile, simile a quella delle civiltà contadine, ma più fluida e più impotente, legata alla diversità e all’innocuità sociale del suo servile contributo.
La sociologa Saskia Sassen ha descritto questa nuova umanità del lavoro sottomesso ed elastico, pronta a basso costo a tutte le richieste. I risultati politici di questa trasformazione sociale sono sotto gli occhi di tutti: la progressiva scomparsa degli operai o almeno della loro coscienza di classe, la loro indifferenza politica, il voto moderato anche nelle province rosse. Ma c’è un segno anche più impressionante della nuova ideologia dominante: in tutti i convegni della nuova ricchezza il discorso sull’efficienza e sull’innovazione si blocca improvvisamente quando si dovrebbe discutere dei loro effetti sociali. Nessuno, neppure per sbaglio o distrazione, si permette di affrontarli, si vorrebbe dire di rievocarli. Non sono «politicamente corretti», non rispettano la regola del parlar d’altro come fecero i padroni della rivoluzione industriale inglese: quando si incontravano in società parlavano del tempo, del paesaggio, dei cavalli, ma non della drammatica mutazione che fece milioni di morti.
Non si parla degli effetti sociali neppure quando si parla di mutazioni tecniche e produttive che certamente ne avranno di enormi. Per anni i tecnici della supersocietà hanno rifiutato contro l’evidenza di ammettere una verità lapalissiana: che macchine ideate per risparmiare il tempo del lavoro e l’intervento umano avrebbero non solo aumentato la disoccupazione, ma anche mutato i valori del lavoro. La stessa propaganda che provocò la fuga quasi panica dalle campagne negli anni Cinquanta ha avuto la sua notevole parte nella fuga dalle fabbriche e nella distruzione del mito operaio. Fra le tante favole messe in giro dalla nuova ideologia pare si stia rinunciando alla più favolosa, quella del tempo libero, annunciato come il tempo della libertà e della creatività. Ora tutti coloro che inseguono il lavoro che non c’è o che non è più identificazione sanno che cosa è questo tempo libero: un vuoto umiliante, la giornata passata a guardar la televisione – la grande scuola dell’analfabetismo di ritorno dell’italiano medio che ripete dei luoghi comuni pubblicitari e non sa più neppure cosa è il paese in cui è nato.
Un altro segno della supersocietà in cui milioni di persone sono educate a perseguire il profitto, ignorando o disprezzando tutti gli altri impegni civili, viene dal lusso di massa ostentato. Se l’unico valore sociale oggi esistente è fare soldi, entrare nelle schiere dei ricchi, la sua ostentazione a mezzo di status symbol diventa una delle occupazioni più cercate. C’è un solo guaio, che le fabbriche di automobili di lusso e i cantieri navali non riescono a tener dietro alla domanda: si fa la fila per mesi prima di avere una Ferrari o un quindici metri, ci si batte a suon di miliardi per i nuovi circenses, campionati di calcio o di Formula Uno, corrono stipendi faraonici da scopritori di galeoni d’oro nel Mar dei Sargassi, da antiquari, da prime donne. Investimenti opportunamente legati a evasioni fiscali, come lo è in gran parte la beneficenza miliardaria e impudica che segue le sfilate di moda o le partite fra cantanti e attori. Il tempo in cui gli Agnelli vestivano alla marinara e si chiudevano nella loro villa in Versilia o nel Levante ligure è finito. Ora è il tempo dei nuovi ricchi, che sostituiscono i Vanderbilt o i Rothschild nella Coppa America.
(26 dicembre 2011)
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