Goffredo Adinolfi* Fonte: ilmanifesto
Uno per cento, 1%. Cosa fa di questa percentuale, apparentemente tanto insignificante, una cifra moralmente ed eticamente inaccettabile? Semplice, il suo omologo portoghese: 4%.
Ricapitoliamo: la Bce, tanto restia a prestare soldi al pubblico, cioè agli stati, presta ai privati, le banche, a tassi prossimi allo 0. Anzi, di più, per statuto non può nemmeno comprare obbligazioni statali sul mercato primario. Ci sono poi altri due numeri che restituiscono la dimensione di uno squilibrio tutto ideologico: uno piccolo, 78 miliardi di euro, e l'altro grande, 489 miliardi. Questa volta le parti sono invertite, quello piccolo, frutto di uno sforzo «epico» da parte di Unione europea e Fondo monetario, è la cifra prestata a carissimo prezzo al Portogallo per salvarsi dal default, la seconda è la cifra prestata alle banche, sostanzialmente senza condizioni, per salvarsi anch'esse dal default.
35 sono i miliardi che secondo dati del ministero delle finanze, e divulgati dal Jornal de Negocios, i portoghesi dovranno pagare di interessi sul prestito della Troika (3500 euro a persona per l'esattezza). Così, per restituire una somma tanto ingente, soprattutto per un paese fallito, il governo di José Passos Coelho sta cancellando tutte le tutele conquistate in anni di lotta.
Se il tasso applicato da un organismo pubblico, la Bce, a uno stato, fosse stato uguale a quello applicato a organismi privati, le banche, il costo che i portoghesi avrebbero dovuto sostenere in cambio del prestito si sarebbe ridotto di quattro volte, per le tranches ricevute dalla Bce, e di cinque per quelle ricevute dall'Fmi, cioè da 35 miliardi a 7 circa. Invece da quattro anni tutto è considerato lecito pur di salvare le morenti banche europee, anche il ridurre sul lastrico interi strati di popolazione. Sacrifici considerati come un male necessario affinché si possa sperare in un futuro, non si sa esattamente se prossimo o remoto, di nuove prosperità. In Portogallo, ricordiamolo, il debito che ha determinato il default non era quello pubblico, tutto sommato abbastanza contenuto, ma quello delle banche, verso cui buona parte dei 78 miliardi ricevuti dalla Troika sono stati indirizzati.
La più grande truffa mai operata ai danni dei cittadini si sta svolgendo nella colpevole complicità di parte degli stessi cittadini europei che, istigati dal vento populista di giornali come il tedesco Die Bild, spronano i propri governanti a tenere la mano dura contro i fannulloni del sud Europa. È il paradosso di questa crisi: gli spagnoli e i portoghesi che, non sentendosi rappresentati dalle sinistre, decidono di non andare a votare, regalando, in modo più o meno consapevole, la maggioranza assoluta a quei partiti conservatori che sono oggi i veri pasdaran del non intervento dello stato nell'economia. Una opinione pubblica come quella italiana che, invece di canalizzare la propria rabbia verso qualche cosa di costruttivo e utile per il proprio benessere, la sfoga contro rom e senegalesi che altra colpa non hanno se non quella di essere appena in un gradino più basso nella scala sociale rispetto ai loro aggressori.
È lo spirito del tempo direbbe Benedetto Croce, e lo spirito del tempo nel quale viviamo fa sì che le banche creino le crisi e i cittadini le debbano pagare, che le banche abbiano diritto a ricevere appoggio incondizionato e gli stati siano considerati alla stessa stregua del fannullone di deandreiana memoria. Possibile che tutto ciò debba ricevere la riprovazione di una fetta tutto sommato minoritaria della popolazione? Possibile che tutto possa essere fatto senza che ci sia una corposa reazione di profondo sdegno? Sì, perché se ipoteticamente le banche investissero tutti i 489 miliardi di euro in titoli del debito pubblico italiano, tanto per fare un esempio tra il teorico e il concreto, ci guadagnerebbero netti il 5% circa (la differenza tra il costo imposto dalla Bce, l'1%, e i tassi di interesse dei titoli di stato, il 6%), cioè 24 miliardi. Quei 24 miliardi di Euro non sono soldi astratti ma intere fette delle nostre pensioni, dei nostri ospedali, insomma del nostro welfare state, sono soldi che dai circuiti pubblici vengono deviati verso circuiti privati. Quanto alla bontà di queste misure mi si dovrebbe rispondere perché, a fronte degli elevati rendimenti dei titoli pubblici, le banche dovrebbero prestare soldi, rischiando molto di più, alle imprese? Oppure perché, se si vogliono difendere gli stati dalla speculazione dei mercati, non vengano prestati loro direttamente i 489 miliardi?
Si salvano le banche con soldi pubblici ma non le si nazionalizzano. Si dice che hanno importanza sistemica, ma allora, se da un loro fallimento rischiamo di rimetterci tutti perché il pubblico non ha diritto di controllo? Sì perché se qualche cosa è fondamentale per la sopravvivenza di tutti, questa cosa deve essere posta sotto il controllo di tutti.
Quest'anno a Lisbona le illuminazioni natalizie sono davvero poche, come poca è la voglia di festeggiare. Qui non si parla più di crisi, cioè di eccezione, si dice invece sempre più apertamente che le misure sin qui adottate non sono provvisorie ma definitive, volte cioè ad adattare il sistema ad una situazione reale nella quale i soldi necessari sono molto di meno di quelli disponibili e che quindi da oggi in avanti la vita sarà ben più grama che in passato.
*Centro de Investigação e Estudos de Sociologia - CIES Instituto Universitário de Lisboa - IUL
Uno per cento, 1%. Cosa fa di questa percentuale, apparentemente tanto insignificante, una cifra moralmente ed eticamente inaccettabile? Semplice, il suo omologo portoghese: 4%.
Ricapitoliamo: la Bce, tanto restia a prestare soldi al pubblico, cioè agli stati, presta ai privati, le banche, a tassi prossimi allo 0. Anzi, di più, per statuto non può nemmeno comprare obbligazioni statali sul mercato primario. Ci sono poi altri due numeri che restituiscono la dimensione di uno squilibrio tutto ideologico: uno piccolo, 78 miliardi di euro, e l'altro grande, 489 miliardi. Questa volta le parti sono invertite, quello piccolo, frutto di uno sforzo «epico» da parte di Unione europea e Fondo monetario, è la cifra prestata a carissimo prezzo al Portogallo per salvarsi dal default, la seconda è la cifra prestata alle banche, sostanzialmente senza condizioni, per salvarsi anch'esse dal default.
35 sono i miliardi che secondo dati del ministero delle finanze, e divulgati dal Jornal de Negocios, i portoghesi dovranno pagare di interessi sul prestito della Troika (3500 euro a persona per l'esattezza). Così, per restituire una somma tanto ingente, soprattutto per un paese fallito, il governo di José Passos Coelho sta cancellando tutte le tutele conquistate in anni di lotta.
Se il tasso applicato da un organismo pubblico, la Bce, a uno stato, fosse stato uguale a quello applicato a organismi privati, le banche, il costo che i portoghesi avrebbero dovuto sostenere in cambio del prestito si sarebbe ridotto di quattro volte, per le tranches ricevute dalla Bce, e di cinque per quelle ricevute dall'Fmi, cioè da 35 miliardi a 7 circa. Invece da quattro anni tutto è considerato lecito pur di salvare le morenti banche europee, anche il ridurre sul lastrico interi strati di popolazione. Sacrifici considerati come un male necessario affinché si possa sperare in un futuro, non si sa esattamente se prossimo o remoto, di nuove prosperità. In Portogallo, ricordiamolo, il debito che ha determinato il default non era quello pubblico, tutto sommato abbastanza contenuto, ma quello delle banche, verso cui buona parte dei 78 miliardi ricevuti dalla Troika sono stati indirizzati.
La più grande truffa mai operata ai danni dei cittadini si sta svolgendo nella colpevole complicità di parte degli stessi cittadini europei che, istigati dal vento populista di giornali come il tedesco Die Bild, spronano i propri governanti a tenere la mano dura contro i fannulloni del sud Europa. È il paradosso di questa crisi: gli spagnoli e i portoghesi che, non sentendosi rappresentati dalle sinistre, decidono di non andare a votare, regalando, in modo più o meno consapevole, la maggioranza assoluta a quei partiti conservatori che sono oggi i veri pasdaran del non intervento dello stato nell'economia. Una opinione pubblica come quella italiana che, invece di canalizzare la propria rabbia verso qualche cosa di costruttivo e utile per il proprio benessere, la sfoga contro rom e senegalesi che altra colpa non hanno se non quella di essere appena in un gradino più basso nella scala sociale rispetto ai loro aggressori.
È lo spirito del tempo direbbe Benedetto Croce, e lo spirito del tempo nel quale viviamo fa sì che le banche creino le crisi e i cittadini le debbano pagare, che le banche abbiano diritto a ricevere appoggio incondizionato e gli stati siano considerati alla stessa stregua del fannullone di deandreiana memoria. Possibile che tutto ciò debba ricevere la riprovazione di una fetta tutto sommato minoritaria della popolazione? Possibile che tutto possa essere fatto senza che ci sia una corposa reazione di profondo sdegno? Sì, perché se ipoteticamente le banche investissero tutti i 489 miliardi di euro in titoli del debito pubblico italiano, tanto per fare un esempio tra il teorico e il concreto, ci guadagnerebbero netti il 5% circa (la differenza tra il costo imposto dalla Bce, l'1%, e i tassi di interesse dei titoli di stato, il 6%), cioè 24 miliardi. Quei 24 miliardi di Euro non sono soldi astratti ma intere fette delle nostre pensioni, dei nostri ospedali, insomma del nostro welfare state, sono soldi che dai circuiti pubblici vengono deviati verso circuiti privati. Quanto alla bontà di queste misure mi si dovrebbe rispondere perché, a fronte degli elevati rendimenti dei titoli pubblici, le banche dovrebbero prestare soldi, rischiando molto di più, alle imprese? Oppure perché, se si vogliono difendere gli stati dalla speculazione dei mercati, non vengano prestati loro direttamente i 489 miliardi?
Si salvano le banche con soldi pubblici ma non le si nazionalizzano. Si dice che hanno importanza sistemica, ma allora, se da un loro fallimento rischiamo di rimetterci tutti perché il pubblico non ha diritto di controllo? Sì perché se qualche cosa è fondamentale per la sopravvivenza di tutti, questa cosa deve essere posta sotto il controllo di tutti.
Quest'anno a Lisbona le illuminazioni natalizie sono davvero poche, come poca è la voglia di festeggiare. Qui non si parla più di crisi, cioè di eccezione, si dice invece sempre più apertamente che le misure sin qui adottate non sono provvisorie ma definitive, volte cioè ad adattare il sistema ad una situazione reale nella quale i soldi necessari sono molto di meno di quelli disponibili e che quindi da oggi in avanti la vita sarà ben più grama che in passato.
*Centro de Investigação e Estudos de Sociologia - CIES Instituto Universitário de Lisboa - IUL
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