- sbilanciamoci -
Con la crisi, i rapporti tra capitalismo industriale e finanziario sono mutati. Rimane la necessità di abbandonare il neoliberismo, con riforme radicali e cooperazione internazionale
1. Premessa
Da circa cinque anni i paesi occidentali sono immersi in una crisi che ha prodotto un livello di disoccupazione inaccettabile e che sta determinando l’impoverimento di vasti strati della classe media, mettendo a rischio la tenuta democratica. Questo periodo, diversamente dal precedente ciclo di crescita, ancora non è stato adeguatamente studiato nelle sue dinamiche e dal punto di vista teorico. Il modello neoliberista basato sulle privatizzazioni e sulla deregolamentazione finanziaria continua ad essere dominante nonostante i massicci interventi pubblici che sono stati attuati da quando è scoppiata la crisi nel 2007/2008. Però, in questa fase si ha la sensazione che gli obiettivi della finanza non siano più funzionali a quelli dell’economia reale come era accaduto nel periodo precedente, dove l’espansione materiale si era associata a quella finanziaria. Sembra che la finanza abbia smesso di puntare sulla crescita scommettendo invece su una depressione prolungata delle economie occidentali con conseguenze che potrebbero essere distruttive per lo stesso capitalismo finanziario.
2. Il ciclo di crescita neoliberista e lo scoppio della crisi
Dai primi anni ’80 fino all’estate del 2007 l’interazione virtuosa tra crescita dell’economia reale, espansione dell’indebitamento privato, inflazione finanziaria (azionaria e immobiliare) e creazione di moneta endogena aveva funzionato, nonostante il ristagno dei salari e il fortissimo aumento del divario nella distribuzione del reddito, generando ricchezza e occupazione per l’intero pianeta. Nel 2007/2008 questo meccanismo si è inceppato rendendo il debito privato insostenibile, provocando una deflazione delle quotazioni azionarie e dei valori immobiliari, distruggendo una grossa fetta della moneta endogena creata dal mercato fino a determinare il crollo della domanda, della produzione e dell’occupazione nei Paesi più avanzati del Pianeta.
3. Gli interventi per fronteggiare la crisi
Per evitare una profonda depressione dell’economia si è ricorsi ad un fortissimo intervento pubblico sotto forma di espansione del debito e dell’offerta di base monetaria. Così nella fase iniziale della crisi non solo l’economia reale ma anche i mercati finanziari si sono ritrovati completamente dipendenti dall’intervento pubblico, che è riuscito a scongiurare l’innesco di fallimenti a catena delle imprese industriali, delle banche e delle istituzioni finanziarie. Questo intervento si è concentrato non a valle del sistema e cioè sostenendo gli investimenti pubblici, l’occupazione, i redditi bassi e i consumi, bensì a monte iniettando denaro nelle banche che sono state ritenute, a torto, come il principale motore della crescita. Si è pensato che fosse di primaria importanza ricapitalizzare le banche e si è sottovalutato il fatto che, se la moneta bancaria dipende dalla fiducia nella capacità di rispettare gli impegni di pagamento e la fiducia a sua volta si regge sulle aspettative di crescita dell’economia, la liquidità delle banche è in stretta relazione con il ciclo economico e cioè con la crescita della domanda aggregata, della produzione, degli investimenti e dell’occupazione.
4. La ripresa del processo di finanziarizzazione
Superata questa fase, si è iniziato a prendere coscienza che il debito pubblico aveva raggiunto livelli di guardia[1] senza che si fosse messo in moto un ciclo di crescita in grado di autosostenersi e senza che fosse comparso un nuovo consumatore in grado di sostituire il consumatore americano iper-indebitato. E, in conseguenza del ristagno della domanda aggregata che non sta generando convenienti opportunità di investimento dei capitali nel settore reale, ha ripreso vigore il processo di finanziarizzazione[2], che è stato alimentato anche dai generosi interventi delle Banche centrali a favore delle banche private.
A questo punto, specialmente in Europa dove non esiste una Banca centrale che sia prestatore di ultima istanza, i mercati finanziari hanno iniziato ad attaccare gli Stati più in difficoltà. Così questi mercati, che poi non sono entità metafisiche ma sono dominati da poche grandi concentrazioni di potere[3], dopo essere stati salvati dall’intervento pubblico si sono rivoltati contro di esso mettendo in ginocchio gli anelli più deboli della catena. E anche se sono stati colpiti singoli Paesi come la Grecia, il Portogallo e poi l’Italia e la Spagna, il risultato è stato quello di esercitare una spinta depressiva verso la domanda aggregata con effetti negativi che vanno ben aldilà dei Paesi appena menzionati. La situazione europea può essere ricondotta all’azione di una miscela esplosiva composta da ideologia liberista e nazionalismo tedesco che sta producendo effetti economici e sociali devastanti.
Il livello insufficiente della domanda aggregata si sta ripercuotendo sul settore privato dell’economia reale che è costretto a ridurre la produzione e non ha incentivi a investire i capitali nell’industria, nell’edilizia e nei servizi. Per questo sono assolutamente vitali delle politiche pubbliche espansive. Ma queste politiche, che richiederebbero tempi relativamente lunghi per dispiegare i loro effetti, non vengono sostenute dai mercati finanziari che tendono invece a “premiare” i paesi che adottano pesanti misure di austerità per risanare le finanze pubbliche. Eppure è evidente che se durante una recessione si fanno manovre restrittive si manda a picco l'economia con effetti depressivi che si propagheranno a livello globale.
Dunque, in questa fase di recessione, la maggior parte degli Stati occidentali è diventata ostaggio dei mercati finanziari che sono pronti a far fuoco non appena ci sono avvisaglie di ulteriori espansioni del rapporto tra debito pubblico e Pil. E lo scontro non coinvolge solo gli Stati ma riguarda anche il settore privato che ha una fortissima necessità di avere una maggiore domanda attraverso minori tasse e maggiori spese (checché ne dica la Banca centrale europea, anche la spesa pubblica sottoforma di stipendi, di servizi e di investimenti traina le attività delle imprese). L’impatto della recessione produce gli effetti più negativi sulle piccole e medie imprese in quanto le grandi imprese possono sfruttare il loro potere di mercato e tendono ad investire parte dei loro profitti nel settore finanziario dove si possono ottenere dei rendimenti superiori a quelli del settore reale.
In sintesi, i rapporti tra capitalismo finanziario e capitalismo industriale hanno registrato dei cambiamenti importanti da quando è scoppiata la crisi del 2007/2008. Nel lungo ciclo di crescita precedente alla crisi, la finanza, l’industria e gli Stati avevano raggiunto una coesistenza funzionale grazie alla continua espansione del debito privato che da un lato alimentava la finanziarizzazione dell’economia e dall’altro permetteva di sostenere i consumi, la produzione industriale e l’acquisto degli immobili. Nel contempo, questo meccanismo garantiva una crescita dell’economia reale che aveva effetti positivi sulle finanze pubbliche. La fine di questo ciclo di espansione materiale non è stata determinata tanto da un problema di sovraccumulazione e di spostamento dei capitali dal settore reale a quello finanziario[4], quanto dall’insostenibilità del debito privato che ha fatto crollare la domanda aggregata, la produzione e l’occupazione. Successivamente, gli obiettivi di brevissimo termine della finanza non si sono più dimostrati compatibili con quelli di medio termine delle imprese industriali e degli Stati, in quanto l’intervento pubblico non è riuscito a riavviare un ciclo di crescita in grado di autosostenersi e la finanza ha iniziato a scommettere su una depressione prolungata delle economie occidentali, a partire da quella europea[5].
5. Vie d’uscita dalla crisi
Come rompere questa spirale che ci sta facendo affondare? Come sconfiggere la dittatura dei mercati finanziari che con i loro obiettivi di brevissimo periodo penalizzano le finanze pubbliche, gli investimenti delle imprese e la coesione sociale? Come riportare la finanza al servizio dell’economia? Ovviamente facendo ripartire un nuovo ciclo di crescita, cioè rilanciando la domanda finale e quindi la produzione e l’occupazione. Così si potrebbero creare nuove occasioni di investimento nell’economia reale e i capitali potrebbero tornare a finanziare le iniziative industriali.
Per rilanciare la domanda senza creare nuovo debito bisognerebbe attuare una gigantesca redistribuzione del reddito dai ricchi verso le fasce sociali medio-basse, un gioco a “somma zero” come direbbe Lester Thurow. Ma come fare se in una fase di elevata di disoccupazione le fasce sociali medio-basse sono molto deboli e non hanno un adeguato peso politico in grado di portare avanti le proprie rivendicazioni? Forse solo un ulteriore peggioramento della situazione potrà creare le condizioni per fuoriuscire dal modello neoliberista che ha tra i suoi pilastri il divario sempre più marcato della distribuzione della ricchezza e la supremazia della finanza sull’economia reale. Altrimenti, qui in Europa andrebbero emessi gli Eurobond associati con una tassa sulle transazioni finanziarie per pagarne le spese sugli interessi e bisognerebbe cambiare lo statuto della Banca centrale europea affidandole anche il compito di comprare i titoli pubblici dei paesi in difficoltà (questo compito è stato delegato alle banche private e sta producendo risultati molto deludenti in quanto non è credibile e non riesce a far diminuire in modo consistente i tassi di interesse, indebolisce le banche che si ritrovano in pancia titoli pubblici considerati ad alto rischio e sottrae risorse che dovrebbero andare verso l’economia reale). Eurobond e nuovo ruolo della BCE sono le proposte rilanciate dal nuovo Presidente della Repubblica di Francia Hollande a cui dovrebbero immediatamente associarsi la Spagna e l’Italia, i due grandi paesi europei in recessione. Un’altra strada consiste nella nazionalizzazione di alcune grandi banche per portarle fuori dalla speculazione di borsa ed utilizzarle come strumento pubblico per finanziare gli investimenti delle piccole e medie imprese e i consumi delle famiglie.
In conclusione, per superare veramente il neoliberismo saranno necessarie riforme radicali e interventi coraggiosi, assolutamente non ortodossi, insieme ad un grande sforzo di cooperazione internazionale. Altrimenti, è sempre pronta la vecchia strada che in Europa conosciamo molto bene essendoci passati già due volte nel secolo scorso.
[1]Stavolta Germania batte Italia. Nel debito pubblico, Marco Fortis, Sole24Ore, 27 aprile 2011 http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2011-04-27/stavolta-germania-batte-italia-081952.shtml?uuid=AaTx6FSD
[2] I derivati finanziari Over the counter (Otc), cioè quelli negoziati fuori dai mercati regolamentati e tenuti fuori bilancio, nel primo semestre del 2011 sono aumentati in modo stratosferico. Il valore nozionale totale ha raggiunto 708 trilioni di dollari con un aumento del 18% rispetto ai livelli calcolati a fine dicembre 2010 (601 trilioni di $). Alla vigilia della grande crisi (giugno 2008), il totale Otc aveva raggiunto la vetta di 673 trilioni di dollari.
[3] Se nel 2009 le cinque maggiori banche americane detenevano l'80% di tutti i derivati emessi negli Usa, oggi 4 banche (JP Morgan Chase, Citigroup, Bank of America e Goldman Sachs) ne detengono il 94% del totale.
[4] Cfr. G. Arrighi, Capitalismo e (dis)ordine mondiale, Cap 4, Manifestolibri, a cura di G. Cesarale e M. Pianta, 2010.
[5] Secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali l'esplosione dei contratti Otc è determinata quasi totalmente dalla crescita dei derivati accesi sul rischio dei tassi di interesse. Da soli, essi coprono 554 trilioni di $.Un altro aspetto preoccupante è che la maggior parte dei contratti ha una scadenza sempre più breve. Quelli con scadenza oltre i 5 anni si sono ridotti del 6%, assestandosi intorno a 130 trilioni di dollari, mentre quelli con scadenza a meno di un anno sono aumentati del 30% raggiungendo i 247 trilioni di dollari.
Da circa cinque anni i paesi occidentali sono immersi in una crisi che ha prodotto un livello di disoccupazione inaccettabile e che sta determinando l’impoverimento di vasti strati della classe media, mettendo a rischio la tenuta democratica. Questo periodo, diversamente dal precedente ciclo di crescita, ancora non è stato adeguatamente studiato nelle sue dinamiche e dal punto di vista teorico. Il modello neoliberista basato sulle privatizzazioni e sulla deregolamentazione finanziaria continua ad essere dominante nonostante i massicci interventi pubblici che sono stati attuati da quando è scoppiata la crisi nel 2007/2008. Però, in questa fase si ha la sensazione che gli obiettivi della finanza non siano più funzionali a quelli dell’economia reale come era accaduto nel periodo precedente, dove l’espansione materiale si era associata a quella finanziaria. Sembra che la finanza abbia smesso di puntare sulla crescita scommettendo invece su una depressione prolungata delle economie occidentali con conseguenze che potrebbero essere distruttive per lo stesso capitalismo finanziario.
2. Il ciclo di crescita neoliberista e lo scoppio della crisi
Dai primi anni ’80 fino all’estate del 2007 l’interazione virtuosa tra crescita dell’economia reale, espansione dell’indebitamento privato, inflazione finanziaria (azionaria e immobiliare) e creazione di moneta endogena aveva funzionato, nonostante il ristagno dei salari e il fortissimo aumento del divario nella distribuzione del reddito, generando ricchezza e occupazione per l’intero pianeta. Nel 2007/2008 questo meccanismo si è inceppato rendendo il debito privato insostenibile, provocando una deflazione delle quotazioni azionarie e dei valori immobiliari, distruggendo una grossa fetta della moneta endogena creata dal mercato fino a determinare il crollo della domanda, della produzione e dell’occupazione nei Paesi più avanzati del Pianeta.
3. Gli interventi per fronteggiare la crisi
Per evitare una profonda depressione dell’economia si è ricorsi ad un fortissimo intervento pubblico sotto forma di espansione del debito e dell’offerta di base monetaria. Così nella fase iniziale della crisi non solo l’economia reale ma anche i mercati finanziari si sono ritrovati completamente dipendenti dall’intervento pubblico, che è riuscito a scongiurare l’innesco di fallimenti a catena delle imprese industriali, delle banche e delle istituzioni finanziarie. Questo intervento si è concentrato non a valle del sistema e cioè sostenendo gli investimenti pubblici, l’occupazione, i redditi bassi e i consumi, bensì a monte iniettando denaro nelle banche che sono state ritenute, a torto, come il principale motore della crescita. Si è pensato che fosse di primaria importanza ricapitalizzare le banche e si è sottovalutato il fatto che, se la moneta bancaria dipende dalla fiducia nella capacità di rispettare gli impegni di pagamento e la fiducia a sua volta si regge sulle aspettative di crescita dell’economia, la liquidità delle banche è in stretta relazione con il ciclo economico e cioè con la crescita della domanda aggregata, della produzione, degli investimenti e dell’occupazione.
4. La ripresa del processo di finanziarizzazione
Superata questa fase, si è iniziato a prendere coscienza che il debito pubblico aveva raggiunto livelli di guardia[1] senza che si fosse messo in moto un ciclo di crescita in grado di autosostenersi e senza che fosse comparso un nuovo consumatore in grado di sostituire il consumatore americano iper-indebitato. E, in conseguenza del ristagno della domanda aggregata che non sta generando convenienti opportunità di investimento dei capitali nel settore reale, ha ripreso vigore il processo di finanziarizzazione[2], che è stato alimentato anche dai generosi interventi delle Banche centrali a favore delle banche private.
A questo punto, specialmente in Europa dove non esiste una Banca centrale che sia prestatore di ultima istanza, i mercati finanziari hanno iniziato ad attaccare gli Stati più in difficoltà. Così questi mercati, che poi non sono entità metafisiche ma sono dominati da poche grandi concentrazioni di potere[3], dopo essere stati salvati dall’intervento pubblico si sono rivoltati contro di esso mettendo in ginocchio gli anelli più deboli della catena. E anche se sono stati colpiti singoli Paesi come la Grecia, il Portogallo e poi l’Italia e la Spagna, il risultato è stato quello di esercitare una spinta depressiva verso la domanda aggregata con effetti negativi che vanno ben aldilà dei Paesi appena menzionati. La situazione europea può essere ricondotta all’azione di una miscela esplosiva composta da ideologia liberista e nazionalismo tedesco che sta producendo effetti economici e sociali devastanti.
Il livello insufficiente della domanda aggregata si sta ripercuotendo sul settore privato dell’economia reale che è costretto a ridurre la produzione e non ha incentivi a investire i capitali nell’industria, nell’edilizia e nei servizi. Per questo sono assolutamente vitali delle politiche pubbliche espansive. Ma queste politiche, che richiederebbero tempi relativamente lunghi per dispiegare i loro effetti, non vengono sostenute dai mercati finanziari che tendono invece a “premiare” i paesi che adottano pesanti misure di austerità per risanare le finanze pubbliche. Eppure è evidente che se durante una recessione si fanno manovre restrittive si manda a picco l'economia con effetti depressivi che si propagheranno a livello globale.
Dunque, in questa fase di recessione, la maggior parte degli Stati occidentali è diventata ostaggio dei mercati finanziari che sono pronti a far fuoco non appena ci sono avvisaglie di ulteriori espansioni del rapporto tra debito pubblico e Pil. E lo scontro non coinvolge solo gli Stati ma riguarda anche il settore privato che ha una fortissima necessità di avere una maggiore domanda attraverso minori tasse e maggiori spese (checché ne dica la Banca centrale europea, anche la spesa pubblica sottoforma di stipendi, di servizi e di investimenti traina le attività delle imprese). L’impatto della recessione produce gli effetti più negativi sulle piccole e medie imprese in quanto le grandi imprese possono sfruttare il loro potere di mercato e tendono ad investire parte dei loro profitti nel settore finanziario dove si possono ottenere dei rendimenti superiori a quelli del settore reale.
In sintesi, i rapporti tra capitalismo finanziario e capitalismo industriale hanno registrato dei cambiamenti importanti da quando è scoppiata la crisi del 2007/2008. Nel lungo ciclo di crescita precedente alla crisi, la finanza, l’industria e gli Stati avevano raggiunto una coesistenza funzionale grazie alla continua espansione del debito privato che da un lato alimentava la finanziarizzazione dell’economia e dall’altro permetteva di sostenere i consumi, la produzione industriale e l’acquisto degli immobili. Nel contempo, questo meccanismo garantiva una crescita dell’economia reale che aveva effetti positivi sulle finanze pubbliche. La fine di questo ciclo di espansione materiale non è stata determinata tanto da un problema di sovraccumulazione e di spostamento dei capitali dal settore reale a quello finanziario[4], quanto dall’insostenibilità del debito privato che ha fatto crollare la domanda aggregata, la produzione e l’occupazione. Successivamente, gli obiettivi di brevissimo termine della finanza non si sono più dimostrati compatibili con quelli di medio termine delle imprese industriali e degli Stati, in quanto l’intervento pubblico non è riuscito a riavviare un ciclo di crescita in grado di autosostenersi e la finanza ha iniziato a scommettere su una depressione prolungata delle economie occidentali, a partire da quella europea[5].
5. Vie d’uscita dalla crisi
Come rompere questa spirale che ci sta facendo affondare? Come sconfiggere la dittatura dei mercati finanziari che con i loro obiettivi di brevissimo periodo penalizzano le finanze pubbliche, gli investimenti delle imprese e la coesione sociale? Come riportare la finanza al servizio dell’economia? Ovviamente facendo ripartire un nuovo ciclo di crescita, cioè rilanciando la domanda finale e quindi la produzione e l’occupazione. Così si potrebbero creare nuove occasioni di investimento nell’economia reale e i capitali potrebbero tornare a finanziare le iniziative industriali.
Per rilanciare la domanda senza creare nuovo debito bisognerebbe attuare una gigantesca redistribuzione del reddito dai ricchi verso le fasce sociali medio-basse, un gioco a “somma zero” come direbbe Lester Thurow. Ma come fare se in una fase di elevata di disoccupazione le fasce sociali medio-basse sono molto deboli e non hanno un adeguato peso politico in grado di portare avanti le proprie rivendicazioni? Forse solo un ulteriore peggioramento della situazione potrà creare le condizioni per fuoriuscire dal modello neoliberista che ha tra i suoi pilastri il divario sempre più marcato della distribuzione della ricchezza e la supremazia della finanza sull’economia reale. Altrimenti, qui in Europa andrebbero emessi gli Eurobond associati con una tassa sulle transazioni finanziarie per pagarne le spese sugli interessi e bisognerebbe cambiare lo statuto della Banca centrale europea affidandole anche il compito di comprare i titoli pubblici dei paesi in difficoltà (questo compito è stato delegato alle banche private e sta producendo risultati molto deludenti in quanto non è credibile e non riesce a far diminuire in modo consistente i tassi di interesse, indebolisce le banche che si ritrovano in pancia titoli pubblici considerati ad alto rischio e sottrae risorse che dovrebbero andare verso l’economia reale). Eurobond e nuovo ruolo della BCE sono le proposte rilanciate dal nuovo Presidente della Repubblica di Francia Hollande a cui dovrebbero immediatamente associarsi la Spagna e l’Italia, i due grandi paesi europei in recessione. Un’altra strada consiste nella nazionalizzazione di alcune grandi banche per portarle fuori dalla speculazione di borsa ed utilizzarle come strumento pubblico per finanziare gli investimenti delle piccole e medie imprese e i consumi delle famiglie.
In conclusione, per superare veramente il neoliberismo saranno necessarie riforme radicali e interventi coraggiosi, assolutamente non ortodossi, insieme ad un grande sforzo di cooperazione internazionale. Altrimenti, è sempre pronta la vecchia strada che in Europa conosciamo molto bene essendoci passati già due volte nel secolo scorso.
[1]Stavolta Germania batte Italia. Nel debito pubblico, Marco Fortis, Sole24Ore, 27 aprile 2011 http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2011-04-27/stavolta-germania-batte-italia-081952.shtml?uuid=AaTx6FSD
[2] I derivati finanziari Over the counter (Otc), cioè quelli negoziati fuori dai mercati regolamentati e tenuti fuori bilancio, nel primo semestre del 2011 sono aumentati in modo stratosferico. Il valore nozionale totale ha raggiunto 708 trilioni di dollari con un aumento del 18% rispetto ai livelli calcolati a fine dicembre 2010 (601 trilioni di $). Alla vigilia della grande crisi (giugno 2008), il totale Otc aveva raggiunto la vetta di 673 trilioni di dollari.
[3] Se nel 2009 le cinque maggiori banche americane detenevano l'80% di tutti i derivati emessi negli Usa, oggi 4 banche (JP Morgan Chase, Citigroup, Bank of America e Goldman Sachs) ne detengono il 94% del totale.
[4] Cfr. G. Arrighi, Capitalismo e (dis)ordine mondiale, Cap 4, Manifestolibri, a cura di G. Cesarale e M. Pianta, 2010.
[5] Secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali l'esplosione dei contratti Otc è determinata quasi totalmente dalla crescita dei derivati accesi sul rischio dei tassi di interesse. Da soli, essi coprono 554 trilioni di $.Un altro aspetto preoccupante è che la maggior parte dei contratti ha una scadenza sempre più breve. Quelli con scadenza oltre i 5 anni si sono ridotti del 6%, assestandosi intorno a 130 trilioni di dollari, mentre quelli con scadenza a meno di un anno sono aumentati del 30% raggiungendo i 247 trilioni di dollari.
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